Nonluoghi SocialMente Il movimento no global aveva ragione e ci servirebbe oggi…

Il movimento no global aveva ragione e ci servirebbe oggi…

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Fra pochi giorni sarà il 24° anniversario del G8 di Genova, un passaggio insieme storico e drammatico della storia non solo italiana. Fu un evento importante per il movimento antiliberista che era cresciuto via via, anche attraverso le manifestazioni di Seattle e in altre città.

Si era consolidata una solida rete internazionale che aveva come minimo comune denominatore il contrasto delle politiche economiche sempre più aggressive, basate sulla privatizzazione anche dei servizi essenziali, sul primato dell’impresa di mercato, sul sabotaggio delle azioni istituzionali di redistribuzione dei redditi, sul progressivo svuotamento de facto dei diritti e delle libertà civili a colpi di distrazioni di massa (vuoi con la tv, vuoi più recentemente con i social media).

Si è costruita una società apparentemente bulimica, nella quale le masse dei variamente poveri sono indotte a seguire precisi stereotipi comportamentali, di consumo e di costume, utili a arricchire i pochi veramente bulimici e insaziabili. A foraggiare l’oligarchia finanziaria/paraeconomica che, per esempio negli Usa, si sovrappone pressoché direttamente al potere politico.

Insomma quel movimento aveva visto lungo e probabilmente per questo è stato combattuto dal potere costituito, anche con mezzi illeciti (vedi le violenze di Stato subite dagli attivisti appunto a Genova nel 2001, ma anche negli Stati Uniti, in Svezia e altrove).

Era un movimento che già trent’anni fa aveva ben chiaro che la rotta presa dalle politiche economiche globali, con l’acquiescenza anche dei cosiddetti “riformisti”, ci avrebbe portati dritti dritti a un modello di convivenza nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri (tutte cose da anni certificate nelle statistiche ufficiali, per esempio di Bankitalia)
E il dissenso (che spesso è l’unico a vedere l’elefante in cristalleria) sarebbe stato via via screditato, ghettizzato se non proprio criminalizzato, intimidito per immobilizzarlo perché cominciava davvero a dare fastidio.
E nel frattempo la vita per la maggioranza delle persone sarebbe peggiorata, a favore dei pochi agiati di sempre.

Oggi quel progetto reazionario e restauratore ammantato di tecnocrazia è compiuto.
La questione sistemica delle contraddizioni gravi dell’impresa di mercato e della necessità di regolamentazioni stringenti, sempre più banalizzata, edulcorata, vaporizzata.

Quindi, si considerano alla stregua di dogmi i meccanismi economici che, sotto varie forme, generano anche malattia e morte, nel nome della concorrenza senza freni e della ricerca del profitto.

L’imbarbarimento progressivo del mercato del lavoro (per cui essere pagati decentemente ormai è un privilegio), l’inquinamento ambientale dei processi produttivi, il dilagare di merci pessime e dannose per molteplici ragioni (dal cibo al tessile), la contaminazione letale da traffico delle città anche piccole (con le varie patologie correlate), l’epidemia di cancro e l’accentuarsi delle diseguaglianze di salute e di cura legate alle condizioni abitative, professionali e di vita: si tratta soltanto di alcuni degli innumerevoli esempi delle crescenti ricadute del modello neoliberale in termini di costi sociali del mercato misurabili sulla pelle dei cittadini non agiati (nelle società avanzate così come nei Paesi meno “ricchi”).

Eppure quello che all’epoca il movimento no global, antiliberista o altermondialista o come lo vogliamo chiamare, definiva “pensiero unico”, cioè il dogma del “libero” mercato, si è via via potenziato.
Nel contempo si sono invece affievolite le voci ferme che elaboravano “un altro mondo possibile”, cioè un sistema diverso delle relazioni economiche e sociali, locali e globali, fondato sull’umanità, sul perseguimento della riduzione della sofferenza e della diffusione del benessere per tutti.

Ricette pensate con la consapevolezza che per provarci bisogna essere d’accordo in primis sull’analisi dei fallimenti gravissimi del libero mercato e sulla necessità urgente di mettere in atto correttivi profondi a livello istituzionale, interno e internazionale. Significa costringere le imprese a rispettare stardard di benessere per i lavoratori, l’ambiente, gli altri animali eccetera, obbligare le aziende a cedere una parte maggiore dei ricavi per pagare i dipendenti e per minimizzare l’impatto ecologico delle produzioni.

Il verbo liberista dice che a queste cose pensa la mano invisibile del mercato, ma di tutta evidenza c’è che invece accade il contrario. La mano invisibile crea i problemi ai più, li lascia degradare e al limite poi, magari dopo alcuni decenni, cerca pure di lucrare sull’attuazione di eventuali e assai presunte “soluzioni” o mitigazioni.
Il dubbio ragionevole è che l’impresa di mercato, tanta cara anche al decisore pubblico, sia intrinsecamente inadatta a compiere questo percorso umanista: in tal caso, sarebbe necessario rimuoverla dal ruolo di motore centrale delle relazioni economiche e sostituirla con soggetti compatibili con i principi universali del rispetto per la vita.

Nel concreto, un fronte indifferibile è quello della redistribuzione della ricchezza: urgono politiche che abbiano il coraggio di togliere risorse alla minoranza ultraricca che si è cristallizzata nel dominio utilizzando i menzionati meccanismi basati su iniquità e sfruttamento deregolamentato. Nel conformismo dilagante, ormai da decenni, viene additato come un Savonarola delirante chi propone di colpire col fisco i grandi patrimoni in chiave redistributiva.
Proprio questo è il successo principale del “pensiero unico”: essere riuscito a marginalizzare e stigmatizzare come fuori dal mondo le più ovvie e banali verità. Ciò, con il sostegno di mass media frivoli e istituzioni politiche variamente compromesse con il mercato e i suoi burattinai. Cloroformio e rassegnazione sociale.

C’è poi un altro versante che presenta affinità con quanto avveniva ai tempi del G8 di Genova: la questione guerra. Oggi come allora, i decisori politici nazionali, eletti spesso da piccole minoranze (in virtù di sistemi di voto alquanto discutibili), sono gli alfieri del riarmo, del si vis pacem, para bellum, locuzione vecchia di almeno un paio di migliaia di anni che solo per questo andrebbe considerata quantomeno obsoleta. Hanno rotto le scatole quelli (e sono molti) che la tirano fuori un giorno sì e l’altro pure, esibendola come fosse un esercizio di realismo politico. Ma quale realismo? Realismo è avere presente che le guerre preparate, poi sono state fatte davvero dai vari rètori della nazione da difendere: milioni e milioni di morti, desertificazione di intere comunità, squilibri geopolitici che sono l’humus sul quale prospera un certo ordine mondiale.

Sangue sangue e sangue, giovani vite mandate al macello sui fronti nei secoli dei secoli, civili bombardati, massacrati, seviziati, corpi straziati, deserti nucleari. Questa è la «pace» dei bugiardi statisti da tre soldi del si vis pacem, para bellum. Ahi, Bertolt quanto ci manchi!

Ecco, oggi, malgrado pure arte e intellettuali siano quasi evanescenti nell’urgenza di critica sociale, restano sempre di massima attualità il pensiero e la prassi nonviolenta: il realismo di chi la guerra intende buttarla fuori dalla storia. Ma per provarci sono necessari alcuni assunti da (ri)costruire mattoncino dopo mattoncino.

Per esempio, che il nazionalismo è all’origine delle guerre: il culto di un “noi” escludente, autoreferenziale, su base statuale, etnica o linguistica, se non tenuto a bada può fare molto male. Da maneggiare con molta cura. Serve dunque, un approccio moderato sul crinale che distingue valori e disvalori, generosità e aggressività, obnubilamento e consapevolezza (per esempio laddove con il fumo negli occhi della “Patria” si impedisce ai cittadini di percepire o di contrastare le ingiustizie sociali o di solidarizzare con il diverso, lo straniero, l’altro del quale percepire il comune destino).

Bisognerebbe sforzarsi di destrutturare e ricostruire un pensiero comune, evitando la deriva assolutista del perimetro nazionale come illusoria oasi di protezione. La speranza, in realtà, si può dare soltanto oltre il mito nazionale, fonte notoriamente di tanta violenza. Ma anziché cercare un guado, per quanto faticoso, ci ritroviamo oggi con i sovranisti al governo. Altro che federalismo e democrazia partecipativa da edificare passo dopo passo: siamo in direzione apertamente contraria e molti nemmeno se ne accorgono pur essendo i primi a subirne le conseguenze negative (tipo i poveri che votano Salvini o Meloni in Italia, Le Pen e Bardella in Francia eccetera).

Un altro assunto sul quale ragionare insieme è che tutto, in fin dei conti, si tiene: il rispetto dell’alterità, sia essa umana, animali, ambientale, è la genesi di un altro pensiero possibile, di un mondo più sano.

In altre parole, se voglio fermare le guerre, oltre a battermi contro stanziamenti di bilancio deleteri e truffaldini, devo ricordarmi degli odiosi allevamenti intensivi di animali dell’agroindustria; di dubitare almeno un po’ dei valori della “patria” celebrati dal conformismo corrente; di favorire organizzazioni e soluzioni transnazionali a patto che non replichino su scala estesa le criticità nazionali; di esigere una legislazione seria sulle condizioni di tutti i lavoratori e contro le macroscopiche sperequazioni di reddito e patrimonio nelle nostre società; di sforzarmi affinché l’attuale atomizzazione che indebolisce le forze popolari trovi una sintesi in nuove reti locali e internazionali di lotta; di sviluppare percorsi accoglienti per catalizzare l’attenzione, diffondere conoscenze e motivare all’attivismo libero le molte persone consapevoli ma rassegnate. Partecipare oggi spesso sembra impossibile.

Insomma, pacifisti di tutto il mondo, unitevi. Ma anche vegani, attivisti dei più variegati diritti, vegetariani o tendenti a, cicloattivisti, ecologisti urbani e di montagna, precari e non precari, classe media e poveri, malati senza mutua e sani preoccupati, nimby vicini e lontani, nonne e nonni degli anni Sessanta operai e adolescenti di oggi. Anche perché, altrimenti, granello dopo granello, il “pensiero unico” ci porta via pure le conquiste di rispetto umano frutto delle lotte di quegli anni di mezzo secolo fa e oltre, così lontani eppure così vicini.

L’anniversario del G8 a luglio può essere, dunque, un’occasione anche per rispolverare analisi vecchie eppure buone oggi come allora. E a luglio, il giorno 3, cade anche un altro anniversario che ha molto da dirci: quello della morte di Alex Langer, avvenuta a Firenze nel 1995, trent’anni fa. Anche dal suo pensiero, sempre così immerso tra teoria lucida e soluzioni concrete, possiamo trarre ispirazione e suggerimenti per camminare insieme oggi.

[foto credits: pixabay.com]

Zenone Sovilla

Zenone Sovilla

Giornalista e videomaker, creatore di Nonluoghi nel 1999, ha lavorato in Italia e all'estero per giornali e stazioni radiofoniche. È redattore Web del quotidiano l'Adige.

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