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L’economia della malattia sociale

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Forse i cittadini europei stanno cominciando a conoscere qualche contenuto preciso del Ttip, acronimo inglese (Transatlantic Trade and Investment Partnership) per ciò che in sostanza è l’obiettivo Usa e Ue di aprire reciprocamente i mercati. Il che implica una diffusa deregolamentazione e – come illustrano i documenti “top secret” svelati da Greenpeace – la pretesa statunitense di adeguamenti al ribasso delle normative europee in materie quali la sicurezza alimentare, la tutela di lavoratori e consumatori, il rispetto dell’ambiente naturale e della salute umana.

Le trattative fra Usa e Ue procedono farraginose da anni, per lo più nelle segrete stanze, con le opinioni pubbliche pressoché ignare. Non propriamente un esercizio di democrazia e trasparenza; siamo in piena opacità. E forse proprio nel torbido.

Quindici anni dopo le note vicende del Wto, di Seattle, Genova 2001, la scuola Diaz e quant’altro, con una pesante crisi economica in mezzo, si ha l’impressione che non sia cambiato proprio nulla nei processi di involuzione sociale programmati dalle élites finanziarie, industriali e politiche che si ostinano testardamente a ispirarsi a modelli fondamentalmente neoliberisti.

Si tratta più o meno di rafforzare i poteri consolidati; favorire chi ha già più degli altri e marginalizzare una quota crescente di cittadini, possibilmente riducendone pure il peso specifico nelle già deboli dinamiche della democrazia rappresentativa.

Ciò che i movimenti popolari denunciavano quasi vent’anni fa è un disegno di arretramento civile che prosegue, in fatto di distribuzione sociale del potere (inteso come potestà politica o economica), rendendola progressivamente sempre più iniqua.

Era il 4 marzo 2001 quando Nonluoghi, che all’epoca aveva poco più di un anno,  pubblicò un ottimo articolo dell’amico Pietro Frigato che analizzava, fra l’altro, il fondamentale legame esistente tra economia di mercato e derive autoritarie degli ordinamenti e delle istituzioni formalmente democratiche.

In altre analisi contenute nel medesimo sito Web si menzionano gli studi che hanno messo a nudo la rilevanza epidemiologica delle diseguaglianze sociali: le fasce deboli e precarie della popolazione si ammalano di più e muoiono prima.

Siamo nel 2016 e assistiamo alla persistente introduzione di misure o all’elaborazione di progetti volti a minare l’idea di universalismo dell’accesso a una serie di diritti essenziali (salute, istruzione, lavoro, tanto per cominciare…) e a sottrarre potere ai lavoratori per restituirlo alle imprese di mercato cui concedere sempre di più, a spese della collettività.

Ecco l’articolo di 15 anni fa. Sembra ieri. E oggi ci è possibile una verifica empirica sugli effetti nazionali delle dinamiche denunciate: abbiamo a disposizione una serie di indicatori recenti e confermati anno dopo anno, per esempio i dati della Banca d’Italia o dell’Ocse sulle diseguaglianze di reddito e sulle concentrazione della ricchezza.

(4 marzo 2001, vai alla versione originale)

Economia della malattia sociale e della repressione
Berlusconi epigono della Thatcher?

DI PIETRO FRIGATO

La moda neoliberale è arrivata in Italia con un certo ritardo rispetto agli altri paesi avanzati (Acocella 1999, 169). Essa si fonda per larga parte sulla massiccia, pervasiva quanto unilaterale campagna di demolizione della legittimazione del ruolo dell’intervento pubblico nella sfera economica, promossa attivamente nell’ambito accademico mondiale dalle due branche interconnesse di analisi economica (la cosiddetta “Chivirla School”), denominte “paradigma dei diritti di proprietà” e “scuola della public choice”, il cui assunto comune è che stato e pubblica amministrazione siano sostanzialmente organizzazioni mafioso-clientelari, sottratte a qualsiasi possibilità di misurarne l’efficienza. A questa lettura, che sicuramente contiene elementi di verità, non viene purtroppo affiancata alcuna adeguata analisi del funzionamento reale del mercato e della sua espressione massima, l’impresa commerciale(1).

Mentre questi indirizzi di pensiero mostrano palpabili segnali di crisi nell’ambito della stessa letteratura economica mondiale (si vedano tra gli altri Stiglitz 1995, Acocella 1999), c’è da attendersi che nel nostro paese giungeranno in ritardo probabilmente anche i potenti antidoti di natura scientifica, in parte esterni o confinanti con la demarcazione tradizionale dei compiti della disciplina economica, che possono essere impiegati per contrastare questo atteggiamento, dettato prevalentemente da assunzioni prescientifiche, largamente emotive ed ampiamente funzionali a potenti interessi sezionali. La novità degli ultimi vent’anni risiede infatti nell’evidente sforzo di predisporre criteri di valutazione più sofisticati ed ampi rispetto a quelli tradizionali della contabilità nazionale (il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato e il reddito procapite) per giudicare le performances economiche e sociali complessive di differenti strategie politiche. Attraverso il concetto allargato di efficienza economica ed istituzionale che dovrebbe conseguirne, oltreché in ragione delle pressioni obiettive derivanti dalle crescenti minacce di varia natura alla società e all’ambiente, diverrà forse possibile ridimensionare la portata di prospettive ultraconservatrici oggi ancora troppo in voga. In questa luce, con qualche forzatura, si può richiamare un’affermazione di un’autore moderato e di spessore come Joseph Stiglitz: 

  C’è una forte tendenza, non solo nelle opinioni correnti ma anche nella teoria, a sostenere che nella vita reale contino solo le transazioni di mercato misurabili, e che gli aspetti decisionali di natura qualitativa e non misurabile vadano emarginati dalla sfera dell’analisi economica. (Stiglitz 1995, 16)

   Nel presente intervento sottolineerò in modo particolare alcuni fondamentali aspetti che si sono rivelati inestricabilmente connessi con la grande restaurazione capitalista introdotta dal governo neoliberale di Margaret Thatcher con le note misure di privatizzazione (2) della sfera economica, introdotte a partire dal 1979, anno del suo insediamento a capo dell’esecutivo in Gran Bretagna. Diverrà forse più chiaro quale sia il disegno sociale che Berlusconi e le forze politiche della coalizione di centrodestra tenderanno a perseguire una volta vinte le prossime elezioni politiche (3).

I rilievi che verranno fatti qui di seguito riguarderanno innanzitutto i “ragguardevoli” risultati ottenuti dalla nuova destra economica nella sfera della distribuzione dei redditi e in quelle strettamente connesse, legate ai trend nelle sfere della salute e della coesione sociale. La natura prevalentemente giornalistica del presente scritto non consente di procedere ai necessari approfondimenti di natura epistemologica e metodologica, per i quali si rinvia ai riferimenti bibliografici. 

1. Le relazioni pericolose: disparità economiche, tassi medi e differenziali di mortalità e minacce alla coesione sociale

   Richard G. Wilkinson è indubbiamente una delle figure di primissimo piano nel campo degli studi sulle relazioni intercorrenti tra economia e trend nella sfera della salute. La sua ampia concezione della problematica in oggetto, che troviamo nella sua forma più sistematica in una pubblicazione recente (Wilkinson 1996), suggerisce che il suo lavoro contribuisca a porre le basi per la costruzione di una teoria immunologica della società empiricamente fondata: una riflessione che pone al centro in modo opportunamente sofisticato il problema legato alle conseguenze sulla salute dell’organismo sociale complessivo delle differenti configurazioni istituzionali delle economie avanzate (4). Ed è proprio a partire dalle robuste relazioni individuate nell’ambito del rapporto tra economia e società che è il caso di prendere le mosse per chiarire il piano di alcune delle conseguenze sociali nefaste di un progressivo quanto irresponsabile affidamento alle presunte virtù taumaturgiche di un mercato autoregolato. 

Wilkinson individua e pone alla base della sua teoria socioeconomica immunologica due potenti correlazioni: la prima riguarda la relazione esistente tra aumento delle sperequazioni nella sfera del reddito e andamenti nella sfera della salute, l’altra connette le disparità nella sfera dei redditi al piano della devianza legata ai fenomeni criminali.

L’autore inglese afferma che 

la relazione tra diseguaglianze nella sfera dei redditi e disparità di salute è stata studiata con riferimento ad una grande quantità di paesi. Facendo riferimento ai dati da nove paesi industrializzati, Kunst e Mackenbach (1994) scoprirono che, “la classificazione dei paesi in termini di diseguaglianze nei redditi corrisponde alla loro classificazione in termini di diseguaglianze di mortalità” (Wilkinson 1996, 88).

Inoltre,

ciò che risulta particolarmente interessante nel presente contesto è che l’associazione tra distribuzione del reddito e sia il tasso di omicidi che il tasso di crimini violenti è addirittura più forte di quella esistente tra distribuzione del reddito e mortalità totale (Wilkinson 1996, 156).

Sulle relazioni empiricamente verificate cui fa riferimento Wilkinson è ora necessario innestare una breve definizione del senso ultimo della politica di privatizzazione, e a tal fine basta riprendere la descrizione entusiastica fornita dall’Adam Smith Institute:

L’attrazione universale della privatizzazione giace nel fatto che essa è… un approccio che riconosce che la regolamentazione che il mercato impone sull’attività economica è superiore a qualsiasi regolamentazione che gli uomini possono ideare ed operare attraverso la legge. E’ un approccio che riconosce le misure del mercato, e risponde a, le scelte e le preferenze delle persone in maniera più accurata rispetto al processo politico. Un programma eseguito dall’economia privata può essere reso più efficiente, più economico e con maggiore soddisfazione per i suoi benefici rispetto a ciò che la sua controparte può raggiungere nel settore pubblico (citazione ripresa da Veljanovski 1992, 366).

Privatizzare significa pertanto

rendere privato o portare nel settore privato. […] In questo senso la privatizzazione è l’opposto della nazionalizzazione. Anche la vendita di beni pubblici come un terreno o una casa popolare rappresentano un aspetto della privatizzazione. Sono anche privatizzazione le politiche che contrattano esteriormente il lavoro ad imprese del settore privato che precedentemente era fatto dalle autorità locali e dal governo. La contrattazione esterna di servizi quali la raccolta dei rifiuti e il servizio di pulizia che erano precedentemente eseguiti da dipendenti della autorità locale sono notevoli esempi di questa forma di privatizzazione. Analogamente le proposte che l’istruzione si fondi su vouchers e che tariffe siano imposte per tutti i beni e servizi sono viste come parte della stessa strategia di riduzione del ruolo dello stato nel produrre le decisioni di base relative all’allocazione delle risorse (Veljanovski 1992, 364-365).

E’ sufficiente ora riprendere brevemente l’affermazione di un economista, che non può certo essere accusato di essere un fautore della regolamentazione e dell’interventismo pubblico (semmai è vero il contrario), per chiarire in che modo il mercato tende a favorire la sperequazione nella sfera dei redditi:

(…), da un certo punto di vista, è teoricamente corretto considerare l’iniquità distributiva come esempio di fallimento del mercato. In quest’ottica la distribuzione del reddito è un particolare tipo di bene pubblico. Una redistribuzione equa non deriva da mercati liberamente funzionanti, perché la filantropia e la beneficienza generano benefici che sono esterni ai donanti, ma vengono realizzati dalla società nel suo complesso. Lasciato ai propri strumenti, il mercato produrrà quindi meno redistribuzione di quanta è considerata efficiente (cioè socialmente desiderabile) a causa del solito problema del free rider (opportunismo e mancanza di senso civico e di comportamenti rispettosi nei confronti dei beni pubblici, n.d.r.) connesso alle esternalità, ai beni pubblici e ai mercati imperfetti [nota]. 
Un ulteriore ottica con cui valutare l’equità distributiva risulta del tutto scollegata dal fallimento del mercato in senso stretto. (…). Anche se il mercato superasse il ristretto concetto di fallimento del mercato, il suo risultato distributivo potrebbe essere ancora socialmente ed eticamente inaccettabile dal punto di vista delle varie norme etiche [nota]. In tali contesti, i risultati distributivi in mercati anche perfettamente funzionanti (quelli esistenti solo nelle teste degli economisti della corrente principale, n.d.r.), potrebbero essere ragionevolmente criticati (Wolf Jr. 1995, 30-31).

Proviamo ora a riassumere brevemente in forma organica quanto è sin qui emerso: 

1. come evidenziato da Wilkinson, alla luce delle risultanze empiriche nella sfera della salute a livello di confronti tra paesi e di tendenze intrasocietarie, all’aumentare delle diseguaglianze nella sfera del reddito si associano aumenti dei tassi medi e differenziali (tra classi sociali) di mortalità per le principali cause di malattia e morte oltre ad aumenti di criminalità; 
2. come posto in risalto dalle riflessioni teoriche di Charles Wolf Jr. (una tra le molte opzioni di critica dei risultati allocativi e distributivi di un mercato deregolamentato), l’aumento delle diseguaglianze nella sfera dei redditi può essere tranquillamente assunto come tipico caso di fallimento del mercato.

A questo punto diviene possibile corroborare le frammentarie argomentazioni appena svolte con il velenoso giudizio che, di recente, Alan Walker ha formulato nel modo più esplicito, avvalendosi della forza dei dati:

Le nostre accuse ai governi Thatcher e Major, riferite agli ultimi 18 anni, sono che essi sono stati responsabili degli aumenti più elevati della povertà e dell’esclusione sociale dalla seconda guerra mondiale e che essi hanno deliberatamente adottato politiche che hanno ampliato le divisioni sociali nella società inglese, in modo particolare tra ricchi e poveri. I problemi di povertà non sono iniziati nel 1979 ma, da allora, essi sono cresciuti ad un tasso senza precedenti sino ad un punto di serio degrado e di minaccia delle pretese che l’Inghilterra avanza di essere considerata una società civile. Inoltre, come hanno mostrato Will Hutton (1995) ed altri, queste divisioni sociali sono divenute così ampie da danneggiare la performance economica del paese (Walker 1997, 2).

2. Alcuni dati su una performance sociale davvero degna della massima considerazione

Per quel che concerne i redditi si possono prendere a riferimento le statistiche ufficiali fornite dagli stessi governi conservatori, le quali chiariscono come tra il 1979 e il 1993/94 i redditi reali dell’ultimo decile di popolazione nella gerarchia della distribuzione dei redditi (le classi più povere) sono scesi del 13 % mentre quelli del decile al quale appartengono le classi più agiate è cresciuto del 63 % (Walker 1997, 7). In tal modo l’Inghilterra è risultato essere uno dei paesi Ocse con una delle più impressionanti crescite della diseguaglianza tra il 1979 e il 1991. 

In modo particolare, a partire dal 1985, le sperequazioni nella sfera dei redditi si fanno sentire con una tale intensità da modificare il ritmo, di norma lento, di variazione della distribuzione del reddito:

laddove gli economisti erano abituati a discutere della misteriosa stabilità di lungo periodo della distribuzione del reddito, nei tardi anni ottanta il divario tra ricchi e poveri si ampliò in modo sufficientemente rapido da rendere sensata una ricerca dell’impatto nelle tabelle di mortalità annuali (Wilkinson 1996, 94-95).

L’inquietante inasprimento delle disparità di salute tra classi sociali, che si è accompagnato al vorticoso aumento delle sperequazioni nella distribuzione dei redditi nel corso degli anni ’80 (inferiore, tra i paesi avanzati, solo a quello registrato in Nuova Zelanda), risulta robustamente documentato sul piano empirico:

tra il 1985 e il 1993 sono stati pubblicati più di 400 studi empirici che documentano l’ampiezza e la natura del divario di salute in Gran Bretagna (Benzeval 1997, 154). 

In generale può dirsi che, al di là delle tendenze empiricamente rilevate appena esposte, gli effetti sociali delle misure di ridimensionamento del welfare state, di deregolamentazione, e privatizzazione dell’economia – la cosidetta “grande restaurazione capitalista (inglese)” – promossi per quasi un ventennio (1979-1997) dai governi conservatori neoliberali Thatcher-Major, sono stati persino ‘superiori’ a quelli attesi: la più alta crescita nella povertà e nell’esclusione sociale dagli anni ’30, tassi di crescita economica modesti (prevalentemente causati dalle sperequazioni nella sfera dei redditi che hanno esercitato effetti depressivi sulla domanda aggregata), intensificazione delle minacce alla coesione sociale, riduzione dell’aspettativa di vita media e aumento delle disparità di salute tra classi sociali (Wilkinson 1996; Benzeval 1997; Walker 1997; Donald, Hutton 1998). Si tratta con tutta evidenza di un caso esemplare e su praticamente tutti i fronti di fallimento del mercato.

3. Conclusioni

Dalle considerazioni sin qui svolte è possibile individuare alcune frammentarie quanto importanti implicazioni della strategia della diseguaglianza che è alla base delle misure di politica economica e sociale della destra economica:

1. l’aumento dei crimini violenti che si accompagna alla radicalizzazione delle disparità economiche risulta perfettamente funzionale al disegno di una parte politica che è allo stesso tempo xenofoba, populista e repressiva nei confronti dei crimini tipici dei ceti meno abbienti e che costruisce e costruirà molta parte del proprio consenso sul problema della “sicurezza”;

2. lo strumento che viene usato per giustificare gli aumenti delle diseguaglianze sociali, oltre alla nenia della globalizzazione, è quello di un rinvio all’infinito ai futuri benefici derivanti dagli effetti di trickle down, inteso come processo di progressiva diffusione di benessere che seguirebbe all'”iniziale” aumento delle disparità sociali;

3. c’è da attendersi il grado massimo di ostracismo nei confronti dei canali di informazione e delle strutture della ricerca scientifica (inclusi i tagli alle attività scomode) in grado di monitorare i costi reali di una performance governativa massimamente orientata alla tutela degli interessi del settore economico privato e, soprattutto, delle grandi lobby affaristico-finanziarie.

Da ultimo mi preme di sottolineare uno degli aspetti più inquietanti (anche perché, nonostante la moda di citare Polanyi, non mi pare che se ne parli) dell’esclusivo affidamento alle forze del mercato, richiamando alcuni passaggi dell’autore che amo di più:

Se l’analisi storica prova qualcosa, si tratta del fatto che la crescita dell’economia di mercato si è accompagnata alla crescita della libertà (ogni qualvolta in cui essa ha dato luogo a standard di vita più elevati) e a un ritorno ai controlli autoritari (quando essa ha prodotto uno stato di cose, considerato intollerabile da grandi masse di popolazione). […] La democrazia nell’Europa continentale è venuta meno non perché essa pianificava le attività economiche ma, come ha chiarito Oscar Lange, perché non ha pianificato abbastanza [nota]. Non la pianificazione ma l’assenza di una pianificazione democratica condusse al fascismo e al totalitarismo (questa è anche la tesi di Karl Polanyi, n.d.r.), entrambi i quali sono stati definiti come “l’espressione politica del massimo disagio personale” o una “fuga dalla libertà” (Kapp 1950, 41).

Il massimo grado di penetrazione relativa del meccanismo di mercato in tempi di ossessione da controllo dell’inflazione e di conseguente aumento della disoccupazione e/o dell’occupazione precaria capiamo bene a chi e a che cosa possa fare comodo.

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Note al testo

1Per cogliere l’unilateralismo di cui parliamo e per comprendere bene l’impostazione pregiudizialmente sfavorevole nei confronti dell’interventismo pubblico degli approcci menzionati si veda in modo particolare il chiaro ancorché datato contributo di Burton (1978). Per una autorevole critica delle debolezze della lettura delle ragioni della crisi fiscale dello stato sociale di James Buchanan, uno dei capiscuola dell’indirizzo public choice e premio Nobel, si veda in particolare Musgrave 2000, 449-453.

2Per la verità, il problema della privatizzazione risulta essere peculiarmente complicato, ne sia un esempio il fatto che essa può verificarsi in contrasto con la possibilità di procedere ad una liberalizzazione dell’iniziativa economica: si pensi qui solo alla privatizzazione di un monopolio naturale. Per una sofisticata analisi del concetto di privatizzazione si veda il notevole contributo di Paul Starr (Starr 1988). Nel presente scritto adotteremo una definizione standard del concetto di privatizzazione, evitando inutili complicazioni (cfr. par. 1). Precisiamo inoltre che l’analisi qui svolta vale per le amministrazioni della destra economica in generale, dunque per tutti quei paesi nell’ambito dei quali lo stato sociale è stato residualizzato al massimo (il cosiddetto modello anglosassone di welfare, dunque Usa e Gran Bretagna in testa).

3Per il vero, e nostro malgrado, molte delle considerazioni che verranno svolte qui di seguito interessano anche molta parte della indefinibile compagine del centrosinistra italiano, ma anche del socialismo europeo e mondiale. Trascureremo questo punto nonostante la sua indubbia rilevanza.

4In realtà un importante limite del lavoro di Wilkinson si colloca sul piano di una inadeguata considerazione della problematica complessiva dei fallimenti del mercato nella sfera della produzione come fattori che possono spiegare un’ampia porzione di fattori che determinano le differenze di salute tra classi sociali. Su questo ed altri aspetti problematici del lavoro dell’autore inglese oltreché sull’intero approccio materialistico-strutturale in epidemiologia sociale è in corso di preparazione un saggio di chi scrive.

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Bibliografia

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Burton J. (1978), “Externalities, Property Rights and Public Policy: Private Property Rights or the Spoliation of Nature”, in Cheung N. S. (1978), pp. 69-93.
Cheung N. S. (1978), The Myth of Social Cost, Institute of Economic Affairs, Hobart Paper 82, London.
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Wilkinson R. G. (1996), Unhealthy Societies, Routledge, London.
Wolf Jr. C. (1995), Mercato o Stato, Giuffrè, Milano.

Zenone Sovilla

Zenone Sovilla

Giornalista e videomaker, creatore di Nonluoghi nel 1999, ha lavorato in Italia e all'estero per giornali e stazioni radiofoniche. È redattore Web del quotidiano l'Adige.

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