Ci sono espressioni della vita civile italiana che rappresentano un modello normativo e comportamentale di cui andare fieri, in un Paese che troppo spesso brilla per omissioni e trasgressioni (dal fisco al codice della strada). Per esempio, la legge che vieta il fumo nei locali pubblici: un passo avanti straordinario per la qualità della vita quotidiana e della prevenzione sanitaria, dall’ufficio al ristorante.
Anche la legislazione sull’attività venatoria presenta qualche aspetto avanzato sul piano del rispetto della natura e della limitazione delle italiche pulsioni a mano armata.
Ora, però, nella maggioranza di governo c’è chi avverte l’urgenza di smantellare piano piano questo impianto, introducendo elementi di “liberalizzazione” della caccia, se del caso dietro l’ingannevole paravento di un ipotetico adeguamento alle direttive europee.
Fin dall’inizio della legislatura, la Lega Nord si è posta al comando degli amici dei cacciatori, schierandosi a favore di alcune delle richieste principali venute dalla gran parte delle associazioni venatorie (esclusa l’Arcicaccia): si va dall’abbassamento a sedici anni dell’eta minima per imbracciare il fucile al prolungamento dalla prima decade di settembre a fine febbraio della stagione di caccia, consentendo addirittura alle regioni di anticipare l’apertura – in relazione ad alcune specie – alla terza decade di agosto, in piena stagione turistica.
Proprio l’estensione del calendario venatorio è stata oggetto dell’aspro dibattito di ieri a Montecitorio nel quale la maggioranza si è spaccata sbarrando la strada ai disegni di deregolamentazione propugnati dal “partito per l’indipendenza della padania” che teorizza varie forme di separazione, compresa evidentemente quella fra il genere umano e il resto della natura.
Ne è risultato un “correttivo” che allarga le maglie della normativa aggiungendo dieci giorni potenziali di caccia a fine stagione. Le Regioni e le Provincie autonome potranno posticiparne il termine fino al 10 febbraio fermo restando il numero di giornate di caccia previsto per ciascuna specie. Per ogni caso specifico, dunque, se si proroga la chiusura, si deve prevedere un ritardo dell’apertura stagionale e sempre previo parere dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
Insomma a chi fra i 700 mila cacciatori italiani (vent’anni fa erano il doppio e di età media assai più bassa) premeva per un’ampia deregolamentazione e ai suoi agitati supporter politici non resta gran che in mano.
Eppur ci provano.
Forse perché la miglior difesa è l’attacco.
Così chi dovrebbe far emergere un dibattito e un confronto serio fra le parti è costretto nell’angolo a limitare i danni che deriverebbero dalle varie proposte estremistiche che aleggiano sulla caccia.
Un’attività, gioverà ricordarlo, che anno dopo anno fa registrare circa una cinquantina di “caduti”: in genere altri cacciatori, colpiti da compagni di battuta che li scambiano per selvaggina e sparano alla cieca, ma anche ignari cercatori di funghi o escursionisti cui di fatto è impedita la libertà di movimento (sono in pericolo o comunque sempre comprensibilmente in ansia).
Allora, sull’onda di questo piccolo successo del buon senso, che a guardar bene è una piccola sconfitta, i rappresentanti degli altri 59 milioni di italiani, cioè di quelli che non sparano agli animali, potrebbero forse portare seriamente in primo piano una serie di questioni di civiltà, anche per evitare che al prossimo giro ci si trovi a discutere proposte di legge per dare in mano i fucili ai ragazzini o per far andare a caccia anche di notte.
Un vero successo di civiltà giuridica sarebbe, per esempio, introdurre il silenzio venatorio nazionale la domenica, per tutelare i milioni di cittadini che nel giorno libero frequentano prati e boschi e che oggi da settembre a febbraio sono costretti a vivere sul chi va là, magari guardati a vista dal binocolo di un cacciatore appostato su qualche altana mimetizzata nella foresta, in genere presso una radura, davanti a qualche subdolo inganno per richiamare gli ungulati (le mele, il sale, il mais dentro apposite mangiatoie), aspettarli e poi farli fuori comodamente (quando si dice l’epica del cacciatore a confronto con la natura… ).
Se le associazioni venatorie di cui dicevo prima hanno avuto la sfrontatezza di chiedere l’abolizione dei due giorni di silenzio venatorio (martedì e venerdì), si apra invece un tavolo per l’introduzione del terzo giorno, la domenica appunto, in modo da restituire la fruizione del territorio alla stragrande maggioranza delle persone; se poi si andrà a un braccio di ferro si conceda pure ai cacciatori il martedì; ma in cambio della domenica e ovviamente senza derogare sul numero di uscite massime settimanali.
Altri aspetti rischiosi della caccia, meritevoli di correttivi, sono per esempio la distanza minima di 150 metri dalle abitazioni, troppo poco, specie in zone (agri)turistiche come la nostra, idem dicasi per la distanza dalle strade e dai sentieri marcati da segnavia ufficiali (in montagna capita di imbattersi anche in pieno giorno in gruppi di cacciatori appostati proprio in mezzo al sentiero, chi ne dubitasse chieda e gli mostrerò le foto che ho scattato personalmente in valle dei Mocheni lungo un segnavia Sat).
Utile a tutti, non solo ai turisti, sarebbe anche una segnaletica stradale che avverta dei rischi che si corrono durante la stagione di caccia e ricordi agli ignari i giorni di silenzio venatorio in cui escursionisti, contadini e quant’altri possono invece muoversi con serenità.
Un altro fronte da ridiscutere è la vigilanza, che è affidata anche ai cacciatori medesimi: controllati e controllori possono coincidere?
Ma per cominciare, un bel segnale sarebbe proprio la chiusura domenicale, un atto di civiltà cui il Trentino era quasi arrivato da apripista, una ventina d’anni or sono; ma l’illusione durò ben poco; come si sa, il governo è molto sensibile alla selvaggina.
Zenone Sovilla