Nonluoghi Archivio La politica fra emergenza e utopia

La politica fra emergenza e utopia

[ Pubblichiamo un dialogo-intervista a distanza di Zenone Sovilla, giornalista curatore di Nonluoghi libertari, con Alberto Castelli, ricercatore alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Cagliari ]
Il proposito di questo dialogo- intervista è affrontare la questione democratica calandola per quanto possibile anche nella realtà concreta delle vicende italiane.

Z. S. – Cominciamo proprio dal nostro Paese. È un’impressione piuttosto diffusa che il fallimento dell’esperienza di socialismo reale in Europa abbia accelerato la crisi di contenuti della sinistra occidentale favorendo l’appiattimento su posizioni neoliberali di gran parte degli eredi del movimento operaio e delle sue idealità. Per guardare all’Italia di questi giorni, balza agli occhi che l’attenzione della sinistra riformista è rivolta prevalentemente al mondo degli affari, della finanza e delle imprese e solo marginalmente alla realtà quotidiana della maggioranza dei citttadini le cui sorti dipendono dai menzionati centri di accumulazione del potere (anziché viceversa).
Con ciò la classe dirigente della sinistra riformista parrebbe essersi di fatto resa corresponsabile della crescita delle diseguaglianze sociali e della concentrazione della ricchezza che sta caratterizzando la nostra epoca. Alla stessa stregua si può imputare agli “orfani” del socialismo e del comunismo di aver contribuito – con l’eclissi di una seria elaborazione politica – al processo di normalizzazione delle coscienze individuali e collettive in atto, mediante il quale le oligarchie economiche e le loro avanguardie politiche e accademiche stanno imponendo la Verità unica del mercato deregolamentato quale motore nonché controllore (Hayeck insegna….) ineluttabile e infallibile della convivenza umana.
Il lessico quotidianamente utilizzato e ripetuto, in politica, a scuola, all’università, nei media, per veicolare questo dogma, contempla frasi dense di “sviluppo, concorrenza, competitività, moderno, razionalizzare, liberalizzare, privatizzare, crescita, mercato, flessibilità, libertà”.
Colpisce, di contro, la marginalità nel contesto pubblico – anche nella cosiddetta sinistra moderata, che oggi più propriamente si potrebbe definire destra moderata – di vocaboli quali “licenziamenti, malattie, giustizia sociale, equità distributiva, riequilibrio, inquinamento, padroni, ricchi, poveri, sfruttamento, socializzazione, mezzi di produzione, collettivo, autogestione, riduzione dell’orario di lavoro, nonviolenza, disobbedienza civile, consumo critico, sobrietà” eccetera. Cioè l’assenza di adeguati richiami, almeno, ai fallimenti del mercato che si misurano scientificamente sul piano empirico anche in termini di disegueaglianze fra individui e gruppi nell’acccesso a strumenti primari e secondari da cui dipende la qualità dell’esistenza, ma anche in termini di stenti, malattie, morte di esseri umani, nonché di devastazioni dell’ambiente naturale.

Considerato che le condizioni date alle classi subalterne stanno peggiorando e che parimenti una minoranza accresce la sua concentrazione di potere e di denaro, si potrebbe affermare che l’attuale classe dirigente della sinistra riformista ha distrutto anche nel lessico un secolo e più di sforzi teorici e di lotte concrete del movimento operaio lasciando davanti a sé un vuoto incolmabile, lo smarrimento di ogni progetto di organizzazione dei rapporti sociali alternativo non tanto al modello capitalistico tout-court ma almeno alla sua variabile liberista.

Sei d’accordo con questa lettura dello stato dell’arte? E quali sono le tue riflessioni in proposito?

A. C. – Sono abbastanza daccordo sulla tua analisi anche se mi è difficile inserire tutte le grandi trasformazioni avviate nel corso del Novecento e maturate negli ultimi vent’anni in un quadro sintetico. Sarei più tentato di fermarmi di fronte alla complessità della situazione in cui siamo che di provare a offrirne un quadro esplicativo generale. Hai sollevato una serie di questioni enormi.
Cerco di rispondere con ordine, partendo dalla questione della crisi di identità della sinistra italiana e occidentale. Anche se l’esperienza dei partiti socialisti occidentali è molto diversa da quella sovietica e non può in alcun modo essere appiattita su di essa, a me sembra innegabile che lo Stato sovietico abbia spesso rappresentato per i socialismi occidentali un esempio a cui riferirsi. Faccio un esempio: i laburisti inglesi degli anni ’30 vedevano l’URSS come un modello di efficienza economica e la consideravano un esempio da seguire perché il suo assetto era in grado di evitare le crisi del capitalismo (negli anni ’30 in Occidente si soffriva per le conseguenze del Wall Street Crash). Non per questo i laburisti erano favorevoli a un comunismo autoritario, anzi erano decisamente democratici e liberali. Tuttavia l’URSS rappresentava l’alternativa realizzata e realizzabile, sia pure con le opportune modifiche (che nel caso degli inglesi riguardavano libertà individuali e democrazia), al sistema capitalista e alle sue storture. Questo negli anni ’30.
Dopo i fatti di Ungheria e di Praga l’URSS ha perso tutto o quasi il suo fascino, ma negli anni ‘90 la glasnost e le riforme di Gorbaciov hanno suscitato la speranza che l’URSS si facesse promotrice di una nuova via, di un nuovo modello di convivenza democratico e privo delle ingiustizie tipiche del capitalismo occidentale. Il crollo di queste speranze, spazzate via dalle “dure repliche della storia”, ha lasciato nella sinistra italiana e occidentale un vuoto.

A ciò bisogna aggiungere che, a partire dagli anni ’80, anche un’altra colonna fondante della sinistra si è sgretolata: il welfare state. Negli ultimi venti anni del Novecento, infatti, per vari motivi, gli Stati europei hanno sempre più faticato a mantenere efficiente l’apparato di garanzie sociali costruito all’indomani della Seconda guerra mondiale. Di conseguenza la sinistra europea si è trovata nell’imbarazzante situazione di dover combattere una battaglia di retroguardia, in difesa di una serie di garanzie che difficilmente potevano essere mantenute. Né il “modello alternativo” URSS né il modello realizzato dello stato sociale potevano più rientrare nei progetti di lunga portata della sinistra. Si é avuta la sensazione che si dovesse mettere un punto su gran parte dell’esperienza politica che aveva caratterizzato la sinistra e che si dovesse definitivamente andare a capo.
Ma cosa scrivere, cosa pensare, come muoversi, una volta andati a capo?

Non esistevano più modelli a cui riferirsi e il mondo appariva notevolmente cambiato per cui tutto l’armamentario intellettuale a disposizione sembrava ormai inutile. In questa situazione (o qualche anno dopo) la sinistra italiana è riuscita ad andare al governo. Senza un progetto forte (e senza una legittimazione forte da parte degli elettori) si è limitata a gestire l’esistente. Bisogna scandalizzarsi di fronte a questo fatto? Francamente trovo sterile l’atteggiamento di chi si straccia le vesti per la mancanza di ideali della sinistra partitica pensando, magari, a vecchie glorie di altri tempi. È con questa situazione che siamo chiamati a fare i conti e se siamo senza ideali ci sono dei motivi oggettivi che vanno compresi.
Mi sembra inutile fare i moralisti, restare in disparte e accusare tutto e tutti.

Detto questo, bisogna dire anche che il compito delle persone di sinistra appassionate e sincere è almeno duplice: in primo luogo controllare i dirigenti politici in modo che non si discostino da un canone accettabile di moralitá; in secondo luogo quello di contribuire a individuare nuovi traguardi, nuove lotte da intraprendere per restituire alla sinistra la progettualitá che ha perso.

Un’altra grossa questione che sollevi nel tuo intervento riguarda il mercato. Credo che l’accettazione delle regole del mercato da parte della sinistra sia una conseguenza di quel crollo delle alternative al capitalismo (URSS e Welfare State) di cui parlavo prima. Si potrebbe dire che il mercato è tutto ciò che è rimasto. Io credo, e forse scandalizzerò qualcuno, che di per sé il mercato non sia affatto un male. Da un punto di vista generale, a me sembra che una società in cui si ha la libertà di scambiare liberamente dei beni sia più desiderabile di una società in cui tale libertà è negata. Non solo, se il mercato porta con sé dei vantaggi per quanto riguarda l’efficienza produttiva e distributiva, non vedo cosa ci sia di male in esso.
Certo, però, il mercato non deve essere considerato come una specie di misura di tutte le cose e va decisamente corretto (o soppresso) dove produce storture o ingiustizie. Ecco, é proprio questo che manca: un atteggiamento critico nei confronti del mercato. Si è instaurata quasi una religione del mercato, il cui primo comandamento naturalmente è “non avrai altro Dio all’infuori di me”. Insomma, non è contro il mercato che bisogna combattere, ma contro il suo culto. Questa ideologia, o religione del mercato, però non è sparsa ovunque e i suoi profeti (tra i quali svetta sulla mediocrità generale un grande intellettuale come Hayek) non mi sembra che godano di grande seguito nel mondo dell’alta cultura. Scrittori come Rawls o Sen, per esempio, pur essendo di formazione decisamente liberale, propongono teorie politiche e progetti ben lontani dalla glorificazione del mercato.

Nelll’ambito della politica italiana ed europea vedi oggi emergere una qualche corrente di pensiero, almeno sul piano teorico, in grado di contrastare seriamente il dilagare del paradigma liberista “di massa”? E sul piano delle prassi?

Correnti di pensiero interessanti, fortunatamente, ce ne sono. Il problema è che le buone idee stentano ad avere una ricaduta sulla mentalità dei cittadini e, di conseguenza, sulla politica. Rimangono cioè patrimonio degli studiosi e di una ristretta cerchia di interessati. Nessun autore oggi ha la forza di impatto che hanno avuto, per esempio, le idee di Marx o di Bentham nell’Ottocento. Tuttavia, come accennavo, anche oggi ci sono scrittori molto interessanti.
Qui mi piace ricordare due “filosofi” molto diversi tra loro, ma entrambi dotati di grande forza e profondità: Sen e Foucault.
Il primo ci propone un’agenda, cioè una serie di obiettivi per cui battersi; il secondo invece ci offre una descrizione del potere alternativa a quella classica (quella del potere oppressivo concentrato nello Stato) che mi sembra essere di grande interesse per comprendere il nostro mondo. Il pensiero di Sen si inscrive nel paradigma liberale, ma è un liberalismo molto particolare. Uno dei capisaldi del pensiero liberale è che la competizione è, di per sé, un fatto positivo e che deve essere incoraggiata attraverso la garanzia di pari opportunitá di partenza tra gli individui. Ora, allo scopo di garantire a ognuno effettivamente pari opportunità di partenza, secondo Sen, non basta realizzare un assetto in cui viga una distribuzione eguale di beni primari (come libertà di movimento e di scelta lavorativa, un reddito “sufficiente” eccetera.). Una vera parità, cioè, non è data ponendo in primo piano i beni primari come strumenti per perseguire i propri scopi, ma concentrandosi sulla garanzia di effettive pari possibilità di realizzazione degli obiettivi individuali.
Si tratta, in altre parole, non di fornire astrattamente beni primari uguali per tutti, ma di rendere concretamente capaci gli individui di perseguirli. A questo proposito Sen parla di capacitazione. Capacitazioni sono, ad esempio, essere nutrito, non ammalarsi quando è possibile (disporre di vaccinazioni e cure mediche), essere nelle condizioni di avere rispetto di sé, poter partecipare alla vita pubblica della comunità eccetera.
La qualità della vita degli individui non può essere misurata con indicatori standard, come il reddito. Ci sono variabili nella vita di ognuno che rendono questi indicatori poco utili. Ad esempio i tassi di mortalità, di morbilità, l’istruzione eccetera: a parità di reddito queste variabili sono in grado di fare la differenza tra un vita buona e una vita priva di libertà effettive. Per questo la proposta di Sen é di porre come scopo delle istituzioni e della politica l’obiettivo di rendere capaci (nel senso spiegato sopra) i cittadini di perseguire effettivamente i propri scopi, di realizzare i propri stili di vita. Per questo obiettivo non basta la garanzia dei beni primari; è necessario un ulteriore sforzo di comprensione di quali siano i vincoli concreti che intralciano gli individui nel perseguimento dei loro scopi.

Vengo ora a Foucault, che – come accennavo – si pone in una prospettiva molto diversa da quella di Sen. Innanzi tutto la sua prospettiva non è normativa (non ci vuole dire cosa dovremmo fare, come invece fa Sen); propone invece una teoria innovativa del potere. Il punto di partenza della riflessione di Foucault è che il potere non è qualcosa che si concentra in una (o più) istituzioni (lo Stato o i luoghi della sovranità), ma agisce in una serie di pratiche che attraversano la società intera e tutte le relazioni umane. Studiare il potere significa perciò costruire una “microfisica del potere”; significa considerare come il potere agisce a tutti i livelli delle relazioni umane. Si tratta di studiare come agisce il potere, per esempio, nelle prigioni, nei manicomi, sul lavoro, negli ospedali, e nelle pratiche di controllo sul corpo, sulla sessualitá e sulla mente. Da queste premesse deriva, per Foucault, che il potere non può essere pensato come un semplice strumento di oppressione (come di solito viene concepito dagli anarchici e dai libertari in genere).
Il potere, infatti, non è qualche cosa di esterno agli uomini che può essere abbattuto, ma è ciò che produce, costituisce gli individui perché codifica e struttura i comportamenti e i modi dell’individualità (insomma, ci definisce, ci fa essere ció che siamo). Ogni forma/strategia di potere, secondo Foucault, si scontra con le altre in un conflitto mai risolto. Perciò l’uomo non può sfuggire al potere – non esiste la possibilità di liberarsi dal potere. Si può però esercitare la critica: una critica – ovviamente – interna al conflitto perpetuo di strategie di potere. Una tale critica non può servire a liberarci dal potere (impresa impossibile); ci si deve accontentare (e non sarebbe poco!) di una critica che sia mera attività di resistenza, di destabilizzazione mai del tutto compiuta del potere.

Come dicevo però questo tipo di riflessioni sembra destinato a restare all’interno di un ristretto circuito di intellettuali; invece ciò che oggi fa davvero presa sulle masse è una sorta di nuova versione di nazionalismo aggressivo, con la non troppo significativa variante che il soggetto della lotta non è più la nazione (soggetto ormai desueto) ma la civiltà.
Mi spiego: in molti scritti nazionalisti (e poi fascisti) degli anni ’20 si tendeva a giustificare la guerra come scontro di nazionalità. In base a una sorta di ottica darwinista e/o nietzscheana, si credeva che le nazioni fossero dei “macrosoggetti” in competizione, anche violenta, tra loro e che la nazione più forte sarebbe sopravvissuta alle altre. Nella nuova forma di nazionalismo (a cui non saprei trovare un nome adeguato), l’impianto darwinistico è venuto meno ma rimane l’idea che: 1) esistano dei “macrosoggetti” (questa volta sono le civiltà, appunto) in lotta tra loro; e che: 2) la lotta sia inevitabile perché inscritta nel fatto stesso che le civiltà siano diverse tra loro. In questa prospettiva la storia è storia di scontri tra civiltà; che immediatamente diviene storia di come la nostra civiltà occidentale (liberale e tollerante) si è difesa e saprà difendersi dalle insidie e dalle minacce rappresentate dalle altre civiltà (subdole, intolleranti e aggressive).

Ecco allora che l’Islam (o qualche sua incarnazione) assume i tratti del Male assoluto, con il quale non si puó scendere a patti e che – come con Hitler e nazismo – bisogna estirpare.
Si tratta naturalmente di una descrizione aberrante, manichea e assurda ma che colpisce l’immaginario collettivo e che si candida a diventare il credo delle masse nei prossimi anni. In questa situazione, l’unico compito che riesco immaginare per le “teste pensanti” dovrebbe essere quello di costruire un ponte tra l’alta cultura politica dei grandi intellettuali (per esempio quelli che ho citato sopra, ma ce ne sono altri) e il cittadino mediamente educato. Si tratta cioè di mostrare che le questioni possono essere approfondite e considerate da punti di vista differenti; si tratta di costruire un argine alla cultura di massa che tende a spiegare tutto in termini banali e manichei. Si tratta ovviamente di un compito difficile e forse di una battaglia persa in partenza ma, visto che ci siamo, perché non provare?
Questo però, mi rendo conto, è il mio punto di vista, quello di un insegnante, di uno che propone letture a giovani studenti. Vorrei invece sapere qual è il punto di vista di un giornalista come te, che ha a che fare con la rincorsa e l’interpretazione dell’avvenimento accaduto oggi.
Come ti sembra che sia e che debba o possa essere il rapporto tra l’alta cultura e la mentalità delle masse dal tuo punto di osservazione che è in presa diretta con gli avvenimenti quotidiani e con la vita delle persone comuni?
Ti sembra che abbia ancora un senso sociale e politico (non diciamo personale/esistenziale) far circolare pensieri di grandi scrittori, per esempio, attraverso un sito, un giornale o una casa editrice? E, più in generale, quale ruolo ti sembra possano rivestire le idee nel nostro mondo?

Z. S. – Caro Alberto, mi fai una “controdomanda e dunque, rispondo brevemente. Innazitutto, provo un certo disagio davanti alla definizione “alta cultura”, tanto più in un paese che annovera fra gli intellettuali istituzionalmente conclamati personaggi come Giuliano Ferrara e Marcello Veneziani o Marcello Pera, giusto per fare alcuni nomi a caso cui potrei aggiungere i vari Pasquino o Romano che sussurrano il politicamente corretto (cioè si discostano lievemente dai succitati) nei salotti e salottini della comunicazione pubblica e privata. Perciò mi pare ineludibile una sottolineatura su questa distorsione percettiva che sconvolge le premesse e ha rimarchevoli riflessi sostanziali: questa è la cultura (“alta”…) che si rapporta con le masse in Italia. L’altra faccia di questa medaglia è che altrove albergano idee serie e forti; ma i salotti di cui sopra tendono a ignorararle se non a delegittimarle fino alla criminalizzazione. Perciò la mediazione informativa fra le linee interpretative e i progetti più coerenti con gli interessi generali tende a deformarne la percezione sociale con l’obiettivo di minimizzare l’impatto pubblico di questi messaggi scomodi. Il vasto capitolo delle liberalizzazioni e privatizzazioni anche nell’ambito dei beni e servizi pubblici è un esempio di questa dinamica molto poco democratica: processi di enorme rilevanza che riguardano, solo per menzionarne tre, settori come l’acqua, l’energia o la sanità, avvengono spesso quasi in assenza di un confronto trasparente e partecipato nelle sedi istituzionali e nella società diffusa. Ma siccome le idee hanno un loro segno e quello “giuste” sono difficili da neutralizzare, ecco che l’auto-organizzazione, lo spontaneismo dei cittadini, con qualche sponda nelle istituzioni rappresentative, nelle università e in altri nodi nevralgici, crea un circolo virtuoso dal basso capace, almeno, di ridestare un po’ di attenzione collettiva e di inquietare gli oligarchi del potere politico e economico. Prendono forma tentativi di redistribuzione del potere che affondano le radici sulla bontà delle idee. Per esempio nell’idea che ognuno abbia diritto all’acqua e che affidarne la gestione a grandi aziende private che puntano al profitto economico sia poco compatibile con lo scopo sociale di una rete idrica (eppure anche le amministrazioni di sinistra cercano di convincere i cittadini che aprire al mercato in questi settori sia conveniente per noi tutti). Qui, in realtà, più che di cultura alta si potrebbe parlare di cultura bassa: dell’esperienza empirica e del buon senso che ne deriva e che fortunatamente è ancora piuttosto diffuso a livello popolare, nonostante la potente macchina persuasiva messa in moto dalle grandi imprese e dai loro alleati politici (“acquedotti da riparare, serviranno investimenti oltre le nostre capacità, nuovi capitali necessari” eccetera eccetera). È dura spiegare a un cittadino qualunque che se l’acqua la gestisce una multinazionale è meglio: egli l’ha vista da sempre sgorgare aprendo il rubinetto e ha pagato una bolletta per quel servizio pubblico, dunque tende a chiedersi che senso abbia inserire variabili incotrollabili (il mercato come mina vagante che fa esplodere fiori?) in questa dinamica storica semplice, sicura ed efficiente.
Lo stesso dicasi per una serie infinita di questioni, dalle grandi opere alla cementificazione edizilizia (residenziale e produttiva), dall’energia alle condizioni di lavoro.
È in atto da tempo una manovra che mira alla normalizzazione delle coscienze e alla interiorizzazione dei riflessi condizionati del mercato, della massima concorrenza, del primato dell’economia competitiva; cioè dei processi che esasperano i costi sociali (pagati anche in termini di salute, principalmente da chi ha meno soldi a disposizione) e che tendono ad abbrutire l’individuo (su questo piano temo sia in atto nelle nostre società un processo di mutuazione antropologica cui si oppone l’energia sprigionata dal contatto fra la cultura bassa o del buon senso comune e le realtà di genuina cultura alta che si rendono disponibili a sporcarsi le mani).
Su molti fronti capita in misura crescente, per esempio, che un comitato di cittadini denuncia un progetto pubblico/privato destinato a creare nuovi danni sociali (inquinamento atmosferico e malattie mortali, come ne caso degli inceneritori; cementificazione e nuovi rischi idrogeologici, come nel caso di strade inutili o lotizzazioni speculative eccetera eccetera); bene, quel gruppo di persone può contare ormai generalmente sull’appoggio di una vasta schiera di veri e propri luminari in grado di confutare le valutazionei di impatto ambientale addomesticate o le stesse premesse economiche o sociali dei progetti, ma anche di produrre soluzioni alternative concrete che rispondono direttamente all’esigenza in campo senza passare per la mediazione del mercato (cioè tra l’altro senza destinare risorse pubbliche al business inquinante dei privati).
Ciò accade, grazie ai vari Petrella, Grillo, Gesualdi e alla massa di persone più o meno anonime che si impegnano sul piano locale mettendosi in gioco nelle cose concrete (non sulle ribalte mediatiche privilegiate da un certo antagonismo disobbediente più attento ai titoli dei tg che ai risultati reali delle azioni politiche); non so dire quanto alla fine possa spostare gli equilibri e soprattutto la traiettoria distruttiva della politica e dell’economia; qualche risultato già oggi si può registrare e probabilmente anche la semina di questi granelli di sabbia negli ingranaggi di una macchina infernale potrà avere effetti oggi inimmaginabili. Mi pare confortante che, sempre più spesso, i portatori di idee “alte” si incontrano con i portatori di idee “basse” e che da questo incontro deriva un’azione positiva, nel segno del bene comune.
Ieri ho portato l’auto dal mio meccanico; lui, come sempre, mi ha detto che i costruttori rendono molto difficili le riparazioni, sei quasi obbligato a cambiare un pezzo intero quando basterebbero magari un paio di viti e una saldatura; gli stessi componenti durano meno di una volta. Io e lui ci ostiniamo nelle riparazioni più complicate pur di “salvare” il pezzo: ieri eravamo alle prese con un tergicristallo bloccato. Lui mi guarda e mi fa: “È incredibile, neanche a farlo apposta perché dopo un po’ di anni le infiltrazioni lo mettano fuori uso… Ma, sai una cosa?, ormai è tutto così: hanno perfezionato il modo di metterti le mani in tasca con il tuo consenso, magari entusiastico. Qui c’è un problema di distribuzione della ricchezza e delle risorse, le portano via dal territorio mediante una serie di canali costruiti ad arte da loro ma te li fanno desiderare. Capisci? Siamo noi a volerlo? Prendi i telefonini. All’improvviso dobbiamo tutti telefonare mentre siamo in giro; anzi, ora dovremo anche videochiamarci. Ma quanto incidono su un bilancio familiare? Cento, duecento euro al mese? Ecco, quelli son soldi che vanno ai giganti del mercato, che spariscono dal territorio, dalle economie locali… Si produce povertà…”. Era un meccanico che ha osservato l’evoluzione del suo lavoro e del mondo tutt’attorno negli ultimi trent’anni. L’altra sera ascoltavo Serge Latouche e diceva qualcosa di non molto diverso…

Ma torniamo all’intervista.

Z. S. – Si può ragionevolemente sostenere che nell’ultima legislatura l’Italia ha assistito a una perdita di qualità dei processi (peraltro ineludibili nelle cosiddette democrazie liberali) di appropriazione indebita della sovranità popolare a opera di una oligarchia di governo/economica che ha esercitato/ispirato il potere occupandosi prevalentemente di tutelare gli interessi delle classi più agiate e addirittura di alcuni precisi soggetti che alle medesime appartengono.
In cinque anni il Paese ha assistito alla progressiva riduzione della dialettica democratica e dei contrappesi nell’esercizio del potere, con risultati che tuttavia non sono forse ancora del tutto apprezzabili nelle loro implicazioni e ricadute devastanti sulla vita quotidiana dei cittadini non appartenenti ai ceti “eletti” e sulle prospettive istituzionali della comunità nazionale. In questo contesto ritieni sia necessario, nonostante tutto, andare a votare e scegliere il centrosinistra per sperare nella introduzione di qualche correttivo a questa deriva neoautotitaria?

A. C. -. Son daccordo con te sul fatto che nell’ultima legislatura la classe dirigente si sia dedicata a curare i propri affari senza curarsi del bene dei cittadini. Parafrasando Marx si potrebbe dire che il nostro governo è stato il comitato d’affari di una parte della borghesia (quella vicina al presidente del Consiglio). Mi pare che siamo di fronte a un completo scollamento tra la classe politica e gli interessi degli elettori. Insomma, è venuto definitivamente meno il cosiddetto “senso dello Stato” (che in Italia è sempre stato un bene scarso).

Sono meno daccordo con te quando parli di “appropriazione indebita della sovranità popolare” che sarebbe inevitabile nelle democrazie liberali. Perdonami la pedanteria ma, a questo riguardo, mi viene spontaneo notare che non si sa bene cosa sia la sovranità popolare, se non come dichiarazione di principio. Gli ideali di democrazia diretta di Rousseau sono stati abbandonati perché irrealizzabili, e quelli di democrazia “sostanziale” promossi dal marxismo si sono rivelati peggiori del male che volevano curare. I regimi politici che realizzano più di qualunque altro la sovranità popolare oggi, dispiace dirlo, sono proprio le democrazie rappresentative. Queste, paradossalmente, garantiscono la sovranità popolare attraverso una serie di filtri e di ostacoli al libero esercizio della volontà popolare stessa.
Il grande ostacolo è la Costituzione, norma fondamentale e limite a qualsiasi ordinaria volontà popolare (o dei rappresentanti del popolo). E si tratta di un limite prezioso, perché ha spesso impedito decisioni ingiuste o inopportune che la classe politica eletta dal popolo sovrano avrebbe approvato a cuor leggero. Un altro ostacolo sono i partiti che, facendo da tramite tra il popolo sovrano e il potere, filtrano (e qualche volta stravolgono) la volontà popolare. E non mi pare che il sistema partitco e la rappresentanza attraverso di loro si possano eliminare perché altrimenti non saprei come costruire un ponte tra la le istanze e gli interessi dei cittadini e chi detiene effettivamente il potere politico nelle democrazie.
Intendiamoci, non voglio dire che i partiti, con il loro apparato burocratico, i loro vertici arroganti, le loro collusioni con gli affari, vadano bene così come sono: si possono e si devono riformare rendendoli più democratici al loro interno, più trasparenti e più sensibili ai bisogni dei cittadini. Tuttavia non si possono eliminare (e con loro non si può eliminare il principio della rappresentanza) in nome di un esercizio diretto della sovranità popolare.

Vengo ora all’ultima parte della tua domanda: vale la pena di votare centrosinistra alle prossime elezioni? A me sembra che ne valga la pena, perché il pericolo maggiore è rappresentato dalla destra, che sarebbe tutto sommato felice di poter instaurare un autoritarismo mediatico, fondato su un massiccio utilizzo della disinformazione di massa allo scopo di modellare le coscienze, e magari anche di costringere i corpi. Già oggi si vedono fin troppo chiaramente le prove generali di un simile progetto. In questa situazione, votare centrosinistra rappresenta l’unico modo per (speriamo) allontanare questo pericolo. Ma senza arrivare all’estremo di dover evitare un pericolo serio per la nostra democrazia, votare centrosinistra puó significare semplicemente scegliere il male minore tra una classe politica egoista e impresentabile e una classe politica che probabilmente è soltanto mediocre e priva di grandi obiettivi.
La posizione di chi dice di non potersi “turare il naso” e quindi di non poter votare centrosinistra, secondo me, non è accettabile perché non tiene conto del fatto che abbiamo due scelte, non di più, e una è sicuramente peggiore dell’altra e, perciò, deve essere evitata. Quanti vorrebbero votare solo il partito che incarna (o dice di farlo) i loro ideali e non sono disposti a scendere a compromessi dimostrano di non comprendere che la politica è l’ambito dove conviene agire sulla base di un’etica della responsabilità, attenta alle conseguenze delle proprie azioni e non in base a un’etica che pone al primo posto la coerenza con i propri ideali.
Questo può non piacere (e a me personalmente disgusta) ma è così, bisogna prenderne atto; e bisogna prendere atto che di fronte alla scelta tra votare per una classe politica mediocre e una classe politica impresentabile, la scelta responsabile sia solo una, senza alternative.
Ma anche su questo mi piacerebbe sapere cosa ne pensi tu. Perché, ancora una volta, mi rendo conto che i miei ragionamenti sono quelli di uno studioso, che possono difettare di un contatto diretto con la realtà e che votare centrosinistra possa richiedere in certe situazioni uno sforzo troppo grande, e che a volte anche turarsi il naso nel modo più ermetico possa non bastare.

Anche a me questo stato della rappresentanza disgusta (perciò ti ponevo la complicata questione della sovranità popolare), ma sono d’accordo con te: il momento è grave e bisogna assumersi la responsabilità politica di mandare a casa questo governo. Sono ovviamente consapevole che, tanto più nel contesto attuale, è inutile cercare un’aderenza identitaria nelle proposte dell’urna elettorale; però ( come ho già scritto) credo che si possano scegliere, anche all’interno del centrosinistra, i partiti meno inclini all’occupazione del potere, alle ambiguità programmatiche, alla contiguità con i poteri forti dell’economia, e più netti nelle scelte di campo coerenti con il perseguimento del bene comune e non solo del profitto delle grandi imprese.
Credo peraltro che stiano rapidamente maturando i tempi di una sintesi politica nuova dell’incontro fra idee alte e basse di cui parlavo prima.

Torniamo all’intervista.

Z. S. – Facciamo un po’ di “ermeneutica”. Che cosa avrebbe scelto di fare, oggi, uno come Andrea Caffi, davanti a uno scenario politico nel quale fanno mostra di sé, senza vergogna, liberisti/monopolisti come il barzelettiere straricco Berlusconi, liberisti/statalisti come il guerrafondaio straricco Bush, laburisti/liberisti come l’inguardabile Blair, liberisti/comunisti come il totalitario Putin eccetera eccetera?

Caffi viveva in un mondo ben più scardinato del nostro. Al posto dei governanti di oggi c’erano Mussolini, Hitler e Stalin. Non sorprende che di fronte a un simile mondo, un uomo integro e profondo come Caffi abbia espresso il proprio disgusto per la politica e la propria volontà di restarne lontano (anche se non sempre lo ha fatto), pur cercando di influenzare le coscienze degli individui con il suo lavoro intellettuale.
Oggi ci sono sedicenti eredi di Caffi e del movimento libertario europeo che assumono lo stesso atteggiamento di rifiuto della politica, ponendosi al di fuori di essa – come Amleto – per denunciarne le storture. Mi sembra – come ho già detto – un atteggiamento perdente.

Detto questo devo anche dire che ci sono aspetti del suo pensiero che possono farci riflettere ancora oggi. Per esempio nello scritto, pubblicato­ nel dicembre del 1948, dal tito­lo I presupposti della demo­crazia, Caffi propone una critica corrosiva e attualissima delle demo­crazie rappresentative nate dalle ceneri della seconda guerra mondiale. In primo luogo, critica il concetto di sovranità popolare come espressione di una volontà cosciente del popolo.
“Assolutamente assurdo – scrive – è supporre una <> presa da 10 o da 5 milioni e anche da un mezzo milione di <> che non sia frutto del più gregario <>, cioè degli effetti meccanici di un demagogico <>. Così come è impensabile che ventimila operai possano <> il funzionamento di una grande officina”. Da ciò segue che “i limiti della democrazia sono quelli dell’u­mana compren­sione: la <> è un’atroce beffa quando non si possono conoscere né i veri motivi né le necessarie conseguen­ze di ciò che si sceglie. Nessun uomo di buon senso, (…) ha delibe­ratamente <> la guerra nel 1914 – 15, nel 1939 – 40, e probabilmente non avrebbe mai scelto le conquiste coloniali né la gara agli arma­menti, né una quantità di regolamenti poli­zieschi, fiscali eccetera. È che nei suoi atti positivi tutta la democrazia moderna consi­ste in una certa <> accordata sia ad un uomo sia ad un <>”.
Le ultime parole del saggio di Caffi indicano quale debba essere il compito di un socialismo autentico in rapporto alla realtà europea. “I socialisti possono benissimo avversare la <> che immancabilmente si <> in conformismi o vane turbolenze di masse mantenute nell’ignoranza. Di fatto i più ardenti asser­tori del socialismo (…) hanno sempre denunciato i macchinosi apparecchi di accentramento politico, nazionale ed economico come causa precipua delle <> condizioni sociali e hanno auspicato un libero <> di comu­nità, conformi alla misura effettiva della comprensione e del normale raggio d’azione d’un uomo semplice”.

Tutto questo Caffi lo diceva nel 1948. Non so cosa avrebbe detto della nostra situazione. A me sembra che la sua analisi sia attuale per quanto riguarda l’aspetto descrittivo: oggi le scelte politiche (comprese le guerre) vengono legittimate attraverso slogan, attraverso un sistematico “imbottimento di crani”; e il più “gregario conformismo” è diventato l’orizzone consueto della politica per il cittadino normale. Insomma, a me sembra che “l’atroce beffa” della libera scelta di cui parla Caffi sia la condizione normale in cui ci muoviamo: basta pensare, tanto per fare qualche esempio, a come sono state legittimate agli occhi dell’opinione pubblica le guerre degli ultimi anni contro la Serbia, l’Afganistan e l’Iraq. È bastato ai governi trovare degli slogan che facessero presa sulle menti dei cittadini (sarebbe più corretto dire telespettatori) del tipo “intervento armato umanitario” (per la Serbia); “guerra al terrorismo” (per l’Afganistan); “armi di distruzione di massa” (per l’Iraq), per giustificare la morte di migliaia di persone innocenti. Altro che scelta razionale della cittadinanza democratica!

Dove invece il pensiero di Caffi mi sembra meno attuale è nel rifiuto delle istituzioni democratiche perché, se è vero che le politiche delle democrazie sono in balìa del conformismo e dell’impossibilità di scegliere in modo davvero libero, è anche vero che questo sistema è il più giusto e liberale che si sia riusciti a realizzare fino ad ora, e ha quindi un grande valore di civiltà.
Sia chiaro però che sostenere questa tesi non significa accontentarsi di quello che abbiamo; significa piuttosto prendere atto del grado di civiltà raggiunto (che non è da buttare via) e del fatto che da questo punto dobbiamo partire per riformare le nostre istituzioni, in modo che chi gestisce il potere sia sempre più responsabile di fronte a noi governati e sempre meno padrone di decidere liberamente del nostro destino. Insomma, Caffi ha ragione nel sostenere che i socialisti “possono benissimo avversare la <>”, ma non per affossarla, sì invece per espanderla, per renderla migliore di quello che è.

Z. S. – E come vedi l’arcipelago (o per certi versi la nebulosa) dei nuovi movimenti, fra suggestive proposte di “decrescita” felice e difficoltà a gestire e frenare fenomeni distruttivi in atto?
È possibile (e auspicabile) una sintesi politica e istituzionale di queste pulsioni (che in parte sembra prendere disordinatamente corpo) oppure è preferibile attendere con sguardo “post-strutturalista” che il loro avanzare carsico e reticolare faccia marcire via via nei vari punti di potere le fondamenta del sistema mortale dell’ingiustizia diffusa?
La variabile tempo consente questa attesa e comunque c’è un’alternativa?

A. C. – Questa è davvero una domanda troppo difficile! Non saprei davvero dire cosa riuscirà ad ottenere la “nebulosa dei movimenti”. Certo – è un’osservazione banale – per cambiare il mondo bisogna innecare un processo che porti le idee a cristallizzarsi in istituzioni.
Si deve però stare attenti che le idee non vengano “scippate” e affossate dai politici, sempre pronti a issare la bandiera che porta consenso, a saltare sul “carro ideologico” dei vincitori, per poi tradire gli ideali una volta giunti al potere. Mi spiego: a volte, quando le istanze provenienti dal basso diventano sentire comune e si istituzionalizzano si ha un vero progresso della libertà e della giustizia.

La storia della Gran Bretagna a partire dalla fine del ‘600 (anche se non in modo continuativo) è un ottimo esempio della verità di questa tesi. Altre volte peró, come accennavo, accade che le aspirazioni del popolo in via di istituzionalizzarsi siano “scippate” da una classe dirigente pronta e priva di scrupoli.
Faccio due esempi: le istanze democratiche del Risorgimento italiano sono state “fatte proprie” e soffocate dai Savoia; e il desiderio di riscatto del popolo russo è stato imbrigliato e soppresso dai bolscevichi.
Se quanto sostengo è vero, quale lezione bisogna trarre? Penso che si debba stare molto attenti a credere alla sincerità di quei politici che si dichiarano (per esempio) libertari, nonviolenti, dalla parte degli oppressi eccetera, e intanto partecipano (ben felici di farlo) al gioco della politica: un gioco che implica necessariamente una mentalità aggressiva, egocentrismo e narcisismo sconfinati, e l’accettazione di una divisione gerarchica del lavoro. Io diffido di questi profeti della libertà e della nonviolenza abilissimi nel (se mi permetti una citazione poco colta) “giocare in borsa e stuprare in corsa”.

Meglio allora una classe dirigente democratica e liberale che ammette di voler giocare il gioco della politica accettando le sue regole. A mio giudizio, insomma, bisogna realisticamente accettare che la prassi politica si discosti dagli ideali perché la politica è anche forza, tensione polemica e ambito refrattario agli ideali.
Nello stesso tempo però bisogna fare in modo che chi gestisce il potere si trovi sempre sotto i riflettori di una critica attenta che lo spinga a comportamenti il più possibile trasparenti e coerenti con gli ideali di libertà, giustizia e nonviolenza. Queste idee possono forse lasciare insoddisfatti quanti vorrebbero un cambiamento qui e ora e, certo, non abbiamo molto tempo per evitare le conseguenze catastrofiche della sperequazione della ricchezza mondiale e della distruzione dell’ambiente. Però bisogna essere consapevoli che non ci sono scorciatoie: il cambiamento di cui abbiamo bisogno riguarda in primo luogo la mentalità profonda degli uomini e delle donne che abitano il pianeta (e in particolare l’occidente), e un tale cambiamento non può avvenire domani. Lavorare per questo cambiamento può significare due cose: lottare contro l’emergenza e in favore dell’utopia. Cioè dedicarsi, da un lato, a obiettivi politici concreti (per esempio manifestare contro una guerra o boicottare una multinazionale…) che oltre a poter avere effetti positivi immediati hanno effetti educativi sul lungo periodo; e dall’altro, impegnarsi a elaborare idee e modelli di convivenza migliori, e a “provarli” nel test della discussione pubblica (qui intendo la discussione tra specialisti perché la cultura, purtroppo, non funziona in modo democratico).

Z. S. Quale ruolo hanno avuto e possono avere in questa prospettiva l’università, il mondo intellettuale e quello dei mass media, ridotti come sono nel nostro Paese?

A. C. – Eccoci al ruolo degli intellettuali, dell’università e dei media. Mi vorrei soffermare sull’università e sul modello di cultura che domina oggi in Europa, naturalmente senza pretese di completezza.
In termini generali, credo che dominino alcune tendenze proccupanti: la prima è quella che vorrebbe identificare la cultura con il sapere tecnico, il know-how; la seconda è il tentativo di rendere il percorso dello studente universitario sempre piú simile a un processo di lavorazione, per cui la giovane matricola può a buon diritto essere considerata un semilavorato che il docente universitario ha il compito di elaborare e raffinare fino a giungere al prodotto finito (il tecnico competente); una terza tendenza è quella di “manualizzare” il sapere per cui, per esempio, conoscere Kant significa avere imparato a memoria quelle dieci o dodici nozioni contenute nelle pagine di un manuale che sintetizza e “liofilizza” il punto più alto della cultura illuminista (Kant, appunto) per essere meglio venduto sul mercato dell’educazione standardizzata; e finalmente, l’ultima tendenza è quella di considerare chi insegna non uno studioso, una persona dotata di grande coscienza, ma un veicolo di nozioni, un lavoratore che deve stare al passo con i ritmi della produzione.

Tutte queste tendenze non aiutano certo a far maturare persone capaci di elaborare una critica complessa dell’esistente o – per puntare un po’ più in basso – di orientarsi in modo consapevole nel mondo. Spesso anzi vengono premiati gli studenti più pronti a incamerare nozioni e meno capaci di elaborare critiche o di porsi (e porre al docente) domande “imperrtinenti”.

Tutto questo, se si realizza pienamente, può costituire un fattore di impedimento per l’emergere di istanze forti di cambiamento sociale e politico. Per fortuna spesso queste tendenze trovano forti resistenze sia nelle teste degli studenti, sia in quelle dei docenti. Infatti, mescolati al gregge degli studenti-pecora ce ne sono alcuni che si ostinano a riflettere malgrado tutto; e accanto a professori ignoranti, capaci solo di trasmettere nozioni (e neanche troppo bene), desiderosi di non fare troppa fatica e di soddisfare la loro smania di prestigio, accanto a questi, dicevo, ci sono anche professori che sono veri e propri intellettuali, appassionati, capaci e coscienti dell’importanza del loro ruolo.
Mi sembra che la possibilità futura di un miglioramento del modello di convivenza sul piano politico e sociale sia, per una parte significativa, nelle loro mani; nella loro capacità – come dicevo prima – di elaborare idee, provarle nel test della discussione pubblica e di trasmetterle ai giovani.

Per quanto riguarda i mass media… beh, ti giro volentieri la domanda. In particolare mi piacerebbe sapere se e in che misura, secondo te, possiamo sostenere che in Italia la stampa e i mezzi di comunicazione di massa 1) svolgano una funzione di stimolo e controllo nei confronti del potere; 2) possano divenire veicolo per un mutamento sociale positivo.

Rispondo brevemente: oggi in Italia i mass media, salvo poche eccezioni, non assolvono alla funzione di controllore e catalizzatore dei processi democratici; anzi, spesso sono complici (in genere, consapevoli; a volte no) di quell’imbottimento di crani di cui giustamente parlava Andrea Caffi. Ciò detto, credo che il mondo dell’informazione, così come l’università e la scuola, sia potenzialmente uno degli ambiti su cui riporre le speranze residue di una trasformazione “umanizzante” delle cose del mondo. Putroppo, però, qui immagino altri giornali, altre tv, altre università, altre scuole: assai poche delle organizzazioni oggi conosciute, infatti, svolgono una simile funzione positiva. Ma anche qui un altro mondo e possibile e per molti versi potrebbe rivelarsi indispensabile alla sopravvivenza.
Ma torniamo all’intervista.

Z. S. – Forme organizzative della convivenza ispirate alla democrazia diretta e unanime (politice e economica), pur costituendo l’unica soluzione del conflitto individuo/comunità (sottoponendo ogni membro solo a norme da egli condivise), appare di assai ardua applicazione pratica. Ci rimane la democrazia “contrattuale”, una volontaria rinuncia all’autonomia individuale nel nome di un bene ritenuto superiore, l’accettazione da parte dei cittadini di rispettare leggi cui non hanno contribuito e che possono anche non condividere (perché approvate da una maggioranza cui essi non necessariamente appartengono). È il problema dell’autonomia individuale, un parente stretto della problematica connessa con la “pari dignità” originaria di ogni essere umano cui si pretende dovrebbe ispirarsi ogni ordinamento democratico che, invece, finisce con l’essere regolarmente travolto dalle dinamiche oligarchiche, dalle concentrazioni di potere, dalla dialetticha corporativistica che riduce le istituzioni a un grande gioco di conflitti d’interessi trasversali allo spettro sociale e che rendono alcuni gruppi o singoli cittadini molto più uguali degli altri (che ne pagano le spese). Lo Stato, il “male necessario” di hobbesiana memoria, così come lo abbiamo conosciuto nelle sue diverse versioni, tende a fagocitare le aspirazioni e la morale dei cittadini, mortifica il sia pur minimo senso della delega di rappresentanza politica, canalizza e favorisce lo sviluppo di concentrazioni di potere e di interessi di tipo economico, morale, culturale tesi alla sopraffazione degli uni sugli altri e alla esclusione delle masse dalla partecipazione consapevole. Si va dalle disparità nella distribuzione della ricchezza e del benessere fino alle guerre passando per una serie infinità di incoerenze. E si può debordare, nelle mutazioni autoritarie o totalitarie, a vari livelli di violenza anche fisica nei riguardi degli stessi membri della comunità. In altre parole, il tentativo di risolvere la presunta incompatibilità fra autonomia individuale e autorità organizzata ha prodotto a sua volta una serie di degenerazione tali da far rimpiangere, in molte occasioni, scenari prepolitici irrorati da una (illusoria?) vena fertilizzante quasi illuministica. Insomma, c’è un’alternativa? Si può immaginare un percorso di progressivo depotenziamento delle centrali del potere che devastano il principio di pari dignità? Si può aspirare alla restituzione di sovranità ai singoli individui e alle comunità?
Nel momento in cui si giustificano le peggiori nefandezze (economiche ma anche istituzionali e politiche) ricorrendo alle dinamiche mercantili della globalizzazione, la riflessione teorica sul conflitto fra autonomia e autorità può aprire percorsi di nuove prassi politiche nelle quali la riconquista di sovranità (ingenuamente ceduta o fraudolentemente sottratta ai legittimi depositari, individui e gruppi) cresca di pari passo con processi di decentramento e rilocalizzaizone dell’economia basati sulla ridefinizione dei bisogni reali? Il punto di partenza potrebbe essere la sistematica messa in discussione delle decisioni attribuibili a una maggioranza formale (parlamentare) che cadono sulla testa di una maggioranza sostanziale mai consultata: in altre parole si dovrebbe adottare un atteggiamente che concede ai decisori solo uno spazio di manovra limitato e ogni loro singolo atto andrebbe valutato da tutti prima di essere rispettato (disobbedienza civile?). E se un simile percorso di conversione democratica è immaginabile, quali conflitti può indurre? Quali effetti collaterali prima e durante una ipotetica transizione? Ed eventualmente quale altra prospettiva vedi per affrontare meglio di quanto si sia fatto finora il nodo autonomia/autorità?

A. C. – Mi pare che tu ponga almeno due problemi. Il primo riguarda la questione della democrazia diretta come forma di soluzione del conflitto individuo/comunità e come metodo utile a eliminare la persistenza delle oligarchie al potere. Il secondo riguarda la valutazione che dobbiamo dare dello Stato.
Iniziamo dalla questione della democrazia diretta: non sarei così sicuro che la democrazia diretta possa risolvere i problemi che indicavi. In Svizzera, dove si ha un assetto istituzionale fortemente decentrato e una politica fortemente influenzata dagli istituiti di democrazia diretta, non vi è una crisi definitiva dell’autonomia della classe di governo. Il ceto politico dirigente resta in grado di mantenere saldo il proprio potere, adattandosi alle condizioni poste dall’introduzione del diritto al referendum e, in particolare, specializzandosi nel controllo e nella direzione dell’opinione pubblica. Non solo. Mi sembra difficile che gli istituti di democrazia diretta possano funzionare da soli per spontanea volontà popolare. Credere questo, secondo me, significa avere una concezione idealizzata della democrazia. Per rendersene conto basta pensare che la promozione di una iniziativa richiede un’organizzazione burocratizzata e notevoli costi sia per la raccolta delle firme sia per condurre la campagna referendaria; e perciò non può essere semplicemente espressione di un moto spontaneo del popolo.
In altre parole, gli istituti di democrazia diretta che dovrebbero limitare seriamente il potere della classe politica richiedono, per essere esercitati in modo efficace, essi stessi una classe dirigente e una organizzazione in grado di promuoverli.
Mi pare poi che si possa sollevare un altro problema: siamo sicuri che la la volontà popolare che si può esprimere in un referendum o in un canale istituzionale simile tenda sempre ad essere rivolta al progresso e al bene comune? Esistono decisioni impopolari e che difficilmente verrebbero approvate in un referendum, ma che devono essere senz’altro valutate come progressiste e coerenti con il bene comune. Quale comunità deciderebbe autonomamente, per esempio, di alzare le proprie tasse per costruire enti che interessano solo a una minoranza come, sempre per esempio, un teatro per la musica lirica, una biblioteca di studi antichi, o una scuola per disabili?

Infine, e qui veniamo al problema del rapporto individuo-società: si può davvero sostenere che in un assetto in cui vigono istituti di democrazia diretta ogni cittadino dovrebbe rispettare solo le leggi che egli stesso si è voluto imporre? A me pare che questa idea abbia il torto di assumere che non possano formarsi fratture all’interno dei ceti popolari sulle decisioni politiche da prendere. Ancora una volta si tratta di un’idea figlia di una idealizzazione del popolo come di un’ente unitario e che, se lasciato a se stesso, vorrebbe e farebbe solo “cose buone”.
Detto tutto questo, cosa rimane? Tu mi chiedi se c’è un’alternativa e si possono depotenziare quei poteri che non smettono di prevaricare i diritti degli individui e dei gruppi più deboli della società. Io, con poca fantasia, riprenderei una vecchia idea che in Italia è stata sostenuta da Norberto Bobbio: per sviluppare la democrazia non è importante cambiarne la qualità, ma espanderla quantitativamente a quegli ambiti dove oggi non viene affatto applicata.
Per esempio, nella gerarchia della pubblica amministrazione e nelle grandi aziende. Pensiamo cosa accadrebbe se l’amministratore delegato della Fiat o della Telekom fosse eletto da tutti i dipendenti; o se si potessero eleggere i vertici della polizia a livello cittadino, regionale e nazionale. Naturalmente i candidati a queste cariche dovrebbero possedere dei requisiti minimi documentabili, in modo che la gestione di strutture complesse non finisca in mano a degli incapaci. Tuttavia resterebbe fermo il principio che il potere sale dal basso e che i capi devono rendere conto del loro operato a degli elettori. Ciò potrebbe significare, per esempio, meno disinvoltura nei licenziamenti, politiche aziendali più trasparenti; e, nel caso dell’esempio della polizia, molta più attenzione a condurre operazioni come quella di Genova e Bolzaneto del 2001.

Accanto a una simile espansione della democrazia, bisognerebbe – come sosteneva Nino Recupero in quello strano e bel libretto che è “A chi il potere?”- attuare un radicale ridimensionamento dei privilegi della classe politica; e trasformare i rappresentanti parlamentari in “portavoce” eletti sulla base delle fasce di reddito dei cittadini, in modo che siano fortemente responsabili nei loro confronti. Si potrebbe far notare che queste proposte risultano irrealizzabili e che il mondo va esattamente nella direzione opposta: è vero e non c’è da farsi illusioni. Ma non è un buon motivo per non parlarne … vediamo se germogliano. Tu, giustamente, poni anche il problema della transizione dall’attuale sistema politico e sociale a uno più giusto.
Non saprei proprio rispondere in modo adeguato. Mi limito a dire che è da rifiutare ogni stategia violenta perché: 1) risulta quasi sempre perdente e 2) perché, anche in caso di vittoria(?), la violenza rivoluzionaria distrugge molto più di quanto costruisca. A noi interessa migliorare il mondo, non farlo a pezzi. Insomma, resto fedele al gradualismo dei mezzi, unito al radicalismo degli scopi.

Chiudiamo (per ora) con un paio di mie puntualizzazioni che prendono spunto dalle tue domande. Con l’unanimismo non intendevo indicare la soluzione che più si avvicina necessariamente al “bene comune” (un concetto sfuggente ma non sempre: non nei principi fondativi della convivenza) ma quella percepita come tale (altra bella questione…) e in grado di rappresentare un avanzamento solidale del corpo sociale (le leggi “di tutti”). È naturalmente una dimensione che ha un risvolto paradossale e che potrebbe essere piegata, tra l’altro, alla dimostrazione che il perseguimento del “bene comune” potrebbe agevolarsi tramite l’elezione dei rappresentanti del popolo per sorteggio più che mediante il voto (si formerebbero tra l’altro calssi plitiche imprevedibili e meno manovrabili dai grandi centri di potere, a patto che, come suggerisce Nino Recupero, siano sottoposto a verifica costante e sopratutto a un vincolo di mandato revocabile e non rinnovabile).
È chiaro che il popolo non è né un monolite né un profeta. Resta, tuttavia, altrettanto inconfutabile, che una coerente tensione democratica va verso l’allargamento della partecipazione consapevole alle scelte collettive; e oggi, al contrario, le istituzioni danno spesso risultati opposti. Ciò non toglie che sia del tutto discutibile la presunzione che da un tale percorso di mediazione allargata derivino scelte le meno dannose per i più (e se anche lo fossero, potrebbero colpire drammaticamente una minoranza). Certo, il quadro è complicato e non v’è dubbio che l’introduzione di procedure democratiche in ambiti oggi autoritari o totalitari quali sono le aziende e altre organizzaizoni pubbliche e private sia uno dei percorsi utili a radicare la consapevolezza e a mitigare la brutalità. Così come lo sono altre forme di partecipazione a scelte che si riflettono sulla pelle di chi gli attuali processi democratici tendono a escludere dalla conoscenza e dalla decisione. Perciò credo che sia fondamentale il lavoro di chi cerca di sabtorare la grande macchina della persuasione e della distrazione collettiva: molto spesso basata sapere per imboccare la strada più feconda in termini di riduzione delal sofferenza umana diffusa. Certo, bisogna almeno essere d’accordo su questa ultima scelta di fondo. E se andiamo avanti così, fra depistaggi e obnubilamenti, anche questa certezza si rivelerà una vacua illusione democratica. Col rischio che un giorno il nostro pianeta si presenti come una distesa desertica disseminata di scheletri e di forzieri che spuntano dalla sabbia, pieni d’oro e di ragnatele.

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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