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Quando si dice legalità…

[Da www.narcomafie.it ]

di Livio Pepino

È di moda, da qualche tempo, invocare legalità: ahimè, non sempre a proposito e talora da pulpiti improbabili, abituati a praticare una deregulation selvaggia. L’affermazione è perentoria e, all’apparenza, appagante: legalità significa rispetto delle leggi e, conseguentemente, operare per la legalità significa far rispettare le leggi. Difficile contrastare l’esattezza etimologica e concettuale della definizione. Ma scavando, cioè dando applicazione ai principi, ci si accorge che la complessità del reale rende la definizione – a tutta prima specifica e persino ovvia – generica, incompleta e, alla fine, non persuasiva. Due immagini, comparse sui media negli ultimi anni, scolpiscono la situazione più di lunghi discorsi. La prima raffigura giovani determinati e attenti, volti sorridenti, cartelli inneggianti alla legalità: è Locri (come, ieri, Palermo) in una manifestazione, in cui quest’ultima è individuata come speranza di cambiamento, di riscatto, di democrazia. La seconda immagine ci porta a Parigi. I volti raffigurati sono assai simili ai primi, ma questa volta sono pieni di rabbia e di lacrime, e i cartelli sono a terra: in nome della legalità, la polizia ha appena sfondato la porta di una chiesa, trascinando fuori donne, uomini, bambini, colpevoli solo di non essere nati in Francia. Il richiamo alla legalità, dunque, non scioglie problemi e contraddizioni. E allora? La legalità ha una dimensione esclusivamente soggettiva? È un valore quando fa comodo e cessa di esserlo quando la legge non piace? Certamente no, ma ciò non significa abbandonarsi a semplificazioni fuorvianti (e, a volte, strumentali). Alcuni flash per essere più chiari.
Primo. Il richiamo alla legalità non può essere utilizzato per sostituire la politica e porla al riparo dalle responsabilità che le competono. Viviamo in un Paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate. Perseguire la legalità – intesa come progetto di convivenza e regola della vita sociale – significa dunque, inevitabilmente, definire gerarchie di valori e priorità di interventi. Non tutto si può fare contemporaneamente e con lo stesso impegno di risorse, intelligenza, cultura (del resto, addirittura, nel diritto penale, ci sono reati puniti con una semplice multa ed altri puniti con l’ergastolo, delitti perseguibili d’ufficio ed altri perseguibili solo a richiesta della parte offesa…). Occorre scegliere tra opzioni e progetti diversi. Si può cominciare lottando contro le mafie o liberando le città dalla presenza fastidiosa di accattoni e lavavetri; contrastando la speculazione edilizia e l’inquinamento ambientale o perseguendo chi protesta (magari con qualche eccesso) a tutela della salute propria e dei propri figli; impegnandosi per eliminare (o contenere) l’evasione fiscale oppure sgomberando edifici abbandonati occupati da contestatori o marginali, e via elencando. Inutile dire che la definizione del calendario degli impegni (e la conseguente mobilitazione dell’opinione pubblica) è una scelta politica e non un vincolo giuridico.
Secondo. C’è di più. Anche le modalità dell’intervento teso a ripristinare una legalità che si assume violata non sono vincolate ma discrezionali. La corsa di ciclomotori in una strada urbana si può contrastare con multe pesantissime, con un controllo del traffico da parte di vigili in divisa, con la predisposizione sulla carreggiata stradale di apposite bande tese a impedire una velocità eccessiva; lo sgombero di baracche abusive e pericolose si può effettuare con le ruspe o con i servizi sociali, con la polizia in assetto di guerra o predisponendo soluzione abitative alternative; la legalità può essere imposta con la forza o perseguita con la trattativa e la convinzione (più in generale con congrue opportunità educative)… L’obiettivo è (forse) comune ma gli effetti concreti e la cultura che si induce sono profondamente diversi: ancora una volta non si tratta di automatismi giuridici ma di scelte politiche.
Terzo. Il conflitto tra legalità formale e sostanziale (o giustizia) attraversa la storia e la filosofia. Antigone – mito della tragedia greca e, insieme, prototipo della modernità – nel dare sepoltura al fratello, disobbedendo a Creonte, non disconosce il significato della legge e non predica l’illegalità ma si fa portatrice di una legge superiore (il diritto degli dei) e accusa il sovrano di illegalità. Il conflitto evocato da Antigone si ripropone oggi – spesso – tra leggi ordinarie e Costituzioni (che hanno per scopo, appunto, la sottrazione dei diritti fondamentali alla disponibilità delle maggioranze contingenti): basti pensare all’articolo 3 della nostra Carta fondamentale, secondo cui: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. / È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Le semplificazioni, dunque, non servono. La legalità è un valore fondamentale, ma le politiche per attuarla possono essere veicolo di inclusione o fattore di discriminazione. Superfluo dire che non è la stessa cosa…

[Editoriale della rivista Narcomafie www.narcomafie.it di Dicembre 2005]

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