Nonluoghi Archivio Gandhi e la verità della nonviolenza

Gandhi e la verità della nonviolenza

di Enrico Peyretti

[Intervento al convegno di Pax Christi del 29-31 dicembre 2005 Instancabili provocatori di nonviolenza. Il nesso tra le piccole e le grandi scelte. Gandhi e la verità della nonviolenza]

1. Gandhi, il suo “programma costruttivo” e il nostro

Impegno costante nel programma costruttivo è la quarta delle regole dell’azione nonviolenta gandhiana . La lotta nonviolenta non è solo per togliere un’ingiustizia, anzi non può fare questo, se non è contemporaneamente, e da subito, azione costruttiva della giustizia. Perciò Gandhi dice: «Se la disobbedienza civile non è accompagnata da un programma costruttivo, è un atto criminale e una dispersione di energie, (…) è soltanto una bravata ed è peggio che inutile» . Può essere necessario essere “disobbedienti” alla legge e al comando ingiusto, ma non è sufficiente, anzi è soprattutto negativo senza un impegno costruttivo. Per questo motivo Giuliano Pontara sostiene che non è l’astensione dalla violenza ma lo sforzo costruttivo la più profonda essenza della nonviolenza gandhiana .

– Comunicazione con l’avversario
Dal lavoro costruttivo anche l’avversario può trarre certi vantaggi, quindi vale molto per stabilire o ristabilire quella ricerca di comunicazione con l’avversario, che è caratteristica essenziale della lotta nonviolenta. Il lavoro costruttivo, dunque, deve individuare degli obiettivi che sono anche nell’interesse dell’avversario e richiedono la sua collaborazione per essere raggiunti.
Naturalmente non è sempre facile trovare questi “fini sovraordinati”: quali erano questi fini comuni a ebrei e nazisti? Eppure, senza di essi le alternative nonviolente rischiano di restare lettera morta. Una serie di sforzi nella individuazione di fini sovraordinati riduce il senso di ostilità, muta l’immagine sfavorevole che le parti hanno l’una dell’altra e crea un clima favorevole alla esplorazione di alternative alla reciproca distruzione.
Comunque, il nonviolento non desiste dal lanciare ponti, dall’introdurre distinzioni nel gruppo avversario, per esempio col non identificare nazisti e tedeschi, come seppe fare, per esempio, Etty Hillesum (giovane ebrea perseguitata, uccisa ad Auschwitz) nella sua alta spiritualità. Sappiamo che una resistenza tedesca c’era, ma fallì, tra l’altro, anche perché gli alleati non vollero mai fare questa distinzione tra Hitler e quelli che lo avversavano: specialmente attivi erano molti alti ufficiali militari, che tentarono più volte dapprima di destituirlo poi di ucciderlo. Gli alleati negarono ogni appoggio alla resistenza, cercato anche da Bonhoeffer, e così lasciarono monolitico il gruppo dirigente tedesco, che invece poteva essere incrinato.

– Undici punti costruttivi
Gandhi propone questo programma costruttivo in undici punti precisi , che compaiono già nel 1909 in Hind Swaraj.
1) riconciliazione tra i vari gruppi religiosi indiani, specialmente tra indù e musulmani. Questo è il punto per il quale, dopo oltre cinquant’anni di impegno continuo e tenace, Gandhi pagò con il sacrificio della vita.
2) abolizione della intoccabilità, come primo passo verso l’abolizione delle caste.
3) lotta contro l’uso delle bevande alcoliche e delle droghe.
4) filatura e lavorazione casalinga del cotone (khaddar o khadi, stoffa filata e tessuta a mano) non soltanto come boicottaggio dei tessuti inglesi, ma come strumento di sensibilizzazione e organizzazione politica, espressione della dignità e importanza del lavoro manuale, protesta contro l’industrialismo disumanizzante, valorizzazione del capitale umano, simbolo dell’indipendenza (abbiamo già detto dell’arcolaio, ancora oggi stemma sulla bandiera indiana).
5) promozione della piccola industria di villaggio, come realizzazione di decentramento e autonomia dei 700.000 villaggi indiani.
6) nuovo metodo di educazione dei bambini alla nonviolenza e al rispetto di quanto di buono e duraturo c’è nella tradizione indiana, invece di sradicarli in nome della “più progredita” civiltà occidentale.
7) educazione degli adulti.
8) parificazione dei due sessi, perché nella nonviolenza la donna ha lo stesso diritto dell’uomo di forgiare il proprio destino. Ricordiamo a questo proposito che Gandhi affermava il primato della donna nell’azione nonviolenta: «Se per forza si intende la forza morale, allora la donna è infinitamente più forte dell’uomo. (…) Se la nonviolenza è la legge della nostra esistenza, il futuro è delle donne» .
9) miglioramento sia fisico che psichico dell’individuo per condurlo a capire ed apprezzare la “vita semplice”, o “semplicità volontaria”, nell’alternanza di lavoro manuale e mentale per una più piena realizzazione di umanità.
10) propagazione della lingua nazionale.
11) promozione dell’uguaglianza economica, in base all’assunto che un sistema basato sulla nonviolenza è impossibile fin quando una società è divisa in ricchi e poveri, capitale e lavoro.

Proviamo a immaginare un programma simile per noi, cercatori di nonviolenza, nella nostra situazione italiana, occidentale, odierna.
1) «Riconciliazione tra i vari gruppi religiosi indiani, specialmente tra indù e musulmani», per noi oggi può significare il macroecumenismo, cioè la costruzione di dialogo interreligioso e la collaborazione per la pace con le persone di altre religioni ormai presenti in numero significativo in Italia. Come ricorda da tempo Hans Küng, la pace tra le religioni è una condizione della pace tra le culture e le nazioni; la pace tra le religioni ha bisogno di conoscenza e dialogo tra le religioni; perché ci sia dialogo tra le religioni occorre ricercare i fondamenti delle religioni, nelle loro differenze e convergenze profonde. Iniziative di dialogo interreligioso crescono in Italia, in particolare è importante per la pace la giornata di dialogo cristiano-islamico alla fine del ramadan, che si svolge da quattro anni, promossa dal basso, inizialmente da Brunetto Salvarani, non ancora ufficializzata nella chiesa italiana, avvenuta quest’anno in un centinaio di città.
2) Gandhi voleva in India l’«abolizione della intoccabilità, come primo passo verso l’abolizione delle caste». Per noi, chiaramente, ciò vuol dire atteggiamenti personali e collettivi di amicizia, ospitalità, frequentazione, collaborazione sociale, con gli immigrati, fatti oggetto di sospetti e discriminazioni che arrivano talvolta al razzismo sordo, non solo psicologico, impaurito, ma anche esplicito, ideologico, amministrativo, politico; quindi vuol dire per noi anche iniziative politiche alternative al trattamento dell’immigrato come utile forza-lavoro assai più che come persona con bisogni e diritti; e vuol dire saper pensare e volere giustizia sulla grave questione dei Centro di Permanenza Temporanea, CPT.
3) «Lotta contro l’uso delle bevande alcoliche e delle droghe», sarà per noi azione preventiva, educativa, testimoniale, sociale che aiuti chi è privo di motivi per vivere e per agire, e quindi cade nella dipendenza da vari tipi di sicurezza fittizia ed eccitazione artificiale per sentirsi vivo: le droghe, l’alcol, ma anche la soggezione alle mode rassicuranti e al conformismo dei consumi reso obbligatorio dalla pubblicità, l’appiattimento sul pensiero unico, l’inerzia che fa rassegnare alle ingiustizie invece di costruire azioni e forme sociali giuste. L’impegno nella costruzione della pace è un compito storico, lungo più generazioni, che riempie di significato la nostra vita personale e politica. Ogni volta che possiamo trasmettere questo desiderio attivo salviamo una vita dal vuoto e dall’insignificanza.
4) e 5) Quando Gandhi chiedeva agli indiani la «filatura e lavorazione casalinga del cotone, non solo come boicottaggio dei tessuti inglesi, ma come strumento di sensibilizzazione e organizzazione politica, come espressione della dignità e importanza del lavoro manuale, come protesta contro l’industrialismo disumanizzante, come valorizzazione del capitale umano e simbolo dell’indipendenza», e sollecitava la «promozione della piccola industria di villaggio», egli avviava una vera azione economica e politica costruttiva che per noi può voler dire imparare a fare da sé molte cose, per es. fare il pane o lo yogurt in casa, scegliere acquisti locali o equo-solidali, liberi dal potere delle multinazionali sfruttatrici del lavoro dei poveri e saccheggiatrici delle loro terre; in sostanza, vuol dire informarci e impegnarci nelle varie forme di economia alternativa, che, senza violenza, allevia la condizione di coltivatori sfruttati e toglie potere alle potenze economiche responsabili della maggior parte della violenza presente oggi nel mondo: la violenza economica, più vasta e profonda della stessa violenza bellica.
6) e 7) Per Gandhi era importante in India un «nuovo metodo di educazione dei bambini – ma anche degli adulti – alla nonviolenza e al rispetto di quanto di buono e duraturo c’è nella tradizione indiana, invece di sradicarli in nome della “più progredita” civiltà occidentale». Era questa l’indipendenza culturale e spirituale necessaria alla giusta indipendenza politica nazionale dell’India. Anche noi siamo soggetti ad un colonialismo e imperialismo che non ha quelle stesse forme, ma influisce pesantemente sugli spiriti mediante settori dell’industria dello spettacolo, che puntano spesso sulla droga della violenza armata, psicologica o sessuale; un colonialismo culturale che compie operazioni sistematiche sull’immaginario di massa, mediante penetrazione imperiosa e suadente dei miti di forza, efficienza e successo spregiudicato, di ammirazione e culto dei “vincenti”, di insensibilità ai diritti di tutti, fino al disprezzo degli ultimi (tanti videogiochi di guerra e violenza!). Un punto costruttivo di pace e nonviolenza oggi è realizzare la comunicazione tra le culture senza nessuna pretesa di superiorità dell’una o dell’altra, tanto meno se è per capacità tecniche più che per crescita umana e spirituale; un punto costruttivo è educarsi, e dunque essere fattori di educazione sociale, all’uguaglianza, alla libertà di spirito, alla responsabilità, a ciò che di valido viene da tradizioni antiche che non sono da disprezzare come se il nuovo fosse sempre il meglio; è dedicarsi anche a produzione artistica e di spettacolo ispirata a umanità, nelle tante forme culturali in cui si esprime lo spirito umano nelle varie civiltà e nella storia.
10) «Propagazione della lingua nazionale» era il decimo punto del programma costruttivo di Gandhi. Oggi vuol dire oggi accettare le lingue che mediano una comunicazione più vasta, ma conservare le differenti lingue, cioè le culture, le differenti visioni tradizioni ed esperienze di vita, senza che lingua e mentalità dei popoli dominanti dominino le menti e plasmino una mentalità appiattita e conforme. Non è secondario questo punto per la dignità delle culture e la ricca diversità umana, che è un bene e un valore quando è incontro e non dominio o scontro.
8) La «parificazione dei due sessi, perché nella nonviolenza la donna ha lo stesso diritto dell’uomo di forgiare il proprio destino» era un altro punto positivo del programma nonviolento gandhiano. Oggi il movimento femminile e femminista ha fatto strada, e tante donne sono attive non solo nelle rivendicazioni dei loro diritti e dignità, ma sono in prima fila, nella ricerca, nell’educazione e nell’azione dei nostri movimenti per la pace e nonviolenza. Nel mondo, nelle culture, religioni, tradizioni, ma anche nella nostra chiesa, manca ancora molto al riconoscimento della parità di valore personale e di ruolo sociale tra donne e uomini; le posizioni di potere pubblico e la pratica di violenza nelle sue varie forme, sono assai più degli uomini che delle donne. Quel che forse è peggio, ci sono rivendicazioni di parità chiaramente distorte, come la presenza di donne nei luoghi della violenza istituzionale, come gli eserciti e la guerra, dove invece deve ridursi fino a scomparire ogni presenza umana, anche maschile. Senza mitizzare una natura umana diversa nelle donne, come se fosse immune dalla violenza, specie quando le donne arrivano a posizioni di potere, certamente il necessario riequilibrio dei due volti dell’umanità nella gestione delle vicende pubbliche come dei rapporti personali potrà essere un contributo ad una umanità meno violenta e più giusta. Nell’ambiente dei cercatori di pace questo avviene più naturalmente e tranquillamente che nella società competitiva e individualista, ma è nostro impegno costruttivo fecondare tutta la società in questo senso.
9) e 11) «Imparare a capire ed apprezzare la “vita semplice”, o “semplicità volontaria”, nell’alternanza di lavoro manuale e mentale per una più piena realizzazione di umanità. Promozione dell’uguaglianza economica, in base all’assunto che un sistema basato sulla nonviolenza è impossibile fin quando una società è divisa in ricchi e poveri, capitale e lavoro». Questi punti costruttivi di Gandhi possono diventare, per la nostra ricerca di nonviolenza, vita di sobrietà, alternativa alla quantità di possessi, di oggetti, di comodità sofisticate ed eccessive, non giustificabili con l’efficienza del lavoro e delle comunicazioni. Ma questo non solo per una igiene di vita personale, non dominata dalle cose, ma soprattutto perché la troppa ricchezza degli uni è miseria degli altri, ed è – come diceva padre Turoldo – «vergogna del Nord e disperazione del Sud del mondo». Dunque, dobbiamo riconoscere con Gandhi, che «la nonviolenza è impossibile fin quando una società è divisa in ricchi e poveri»: le grandi disuguaglianze offensive discriminatrici e separatrici, che selezionano gli esseri umani in sommersi e salvati, in esuberi e necessari, sono grandi e gravi violenze, sono una vera guerra all’umanità anche se nessuna arma sparasse e nessun bombardiere bombardasse. Dunque, la politica che vogliamo deve privilegiare la giustizia resa ai deboli e non il mercato, campo dei forti, la cui libertà di dominio è pura violenza. La politica costruttiva che dobbiamo fare non accetta la libertà delle “libere volpi fra libere galline”, ma vuole porre museruole alle “volpi” e sostenere coscienza e forza sociale delle “galline”.

2. Costruttori di pace
Non solo un movimento cattolico come Pax Christi, ma tutti i cristiani responsabilmente impegnati per la giustizia che fonda la pace e per la pace che è giustizia, devono essere critici delle ingiustizie del mondo, devono avere la franchezza e la libertà profetica anche severa e dissacratrice, civilmente disobbediente quando occorre, ma su tutto devono essere – dobbiamo essere – secondo la beatitudine che Gesù ci ha annunciato, operatori e costruttori di pace positiva: non soltanto l’assenza di violenza bellica, ma anche di violenza strutturale e culturale.
Questo vuol dire attingere interiormente alla speranza e allo Spirito che ci preserva dallo sconforto come dalla rassegnazione, che ci salva dall’ira e dall’amarezza, e ci suggerisce volontà, fantasia, intelligenza, tenacia, sostegno reciproco, continuità, concretezza per porre pensieri e atti di pace pur dentro tempi e situazioni di guerra. E se le nostre chiese non sono abbastanza pronte e decise a sposare la nonviolenza attiva, ma spesso si limitano a invocare da Dio il miracolo della pace che Dio ci ha insegnato e incaricato di costruire nel mondo; e se spesso si limitano a esortare i potenti della terra a non fare la guerra, ma non esortano e non incoraggiano con rispetto le coscienze personali – dei soldati, dei tanti collaboratori alla guerra, degli scienziati e tecnici militari, degli informatori e degli intellettuali – ad opporre personale obiezione di coscienza alla guerra, perciò disobbedienza personale mite e forte ai comandi di guerra; se le nostre chiese non fanno questo, che ci sembra necessario loro compito, perché non sono agenzie di ragionevole diplomazia, ma comunità di coscienze e di forza morale che viene a noi dall’alto, forza alternativa alle forze negative presenti nel mondo, noi non cadremo nella disperazione verso le nostre chiese, non ci abbandoneremo alla polemica facile, ma ci aiuteremo a fare personalmente e insieme quello che i cristiani hanno il compito di fare.
Allora, anche oltre i recinti ecclesiali, daremo riconoscimento e onore ai profeti e ai coraggiosi costruttori di pace di ieri e di oggi. Per fare solo qualche esempio indicativo e non esaustivo, riconosceremo don Primo Mazzolari, che dovette scrivere sulla pace in modo clandestino, e dovette pubblicare anonimo nel 1955 quel suo grande libretto Tu non uccidere, che fu ritirato d’autorità dalle librerie cattoliche, e poté portare la firma dell’Autore solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1959. Tutto ciò perché parlare di pace era allora cosa sospetta per la chiesa, la quale, per paura del comunismo, si identificava completamente con l’Occidente agguerrito contro la reale minaccia sovietica, nella guerra fredda, senza capacità di allentare la pazzesca tensione atomica, né di cercare un ponte umano col nemico politico. Mazzolari fece questo, quasi totalmente da solo, e fu operatore di pace più della sua chiesa, senza giudicare, ma costruendo.
Riconosceremo Franz Jägerstätter, contadino austriaco, padre di due bambine, fervente cattolico, autodidatta, il più noto dei pochi obiettori alla guerra nazista, sostenuto dolorosamente solo dalla moglie Franziska, e non dalla sua chiesa che gli consigliava obbedienza passiva alla più crudele ingiustizia. Per questo Franz Jägerstätter fu ghigliottinato il 9 agosto 1943, come i giovani studenti tedeschi della Rosa Bianca. E ricordiamo anche la vicenda molto simile di Josef Mayr-Nusser, del vicino Sud Tirolo, non ancora del tutto riconosciuto dalla sua chiesa. Come mai così poche coscienze cristiane sentirono il dovere di opporre costosa disobbedienza al nazismo? Come mai la chiesa non dette testimonianza di “obbedienza a Dio prima che agli uomini” (Atti 5,29)? Queste sono domande gravi e dolorose, che giudicano tutti noi, prima che altri, ma più che soffermarci su di esse, occorre cercare risposte vissute, negli esempi incoraggianti che abbiamo, perché anche le nostre vite, nei loro limiti forse più larghi di ciò che supponiamo, diano testimonianza.
Così riconosceremo Thomas Merton, statunitense, monaco trappista, che nel 1962 aveva scritto un libro La pace nell’era postcristiana, che anticipava la Pacem in terris di Papa Giovanni. In quel libro Merton denunciava profeticamente la fede idolatrica del suo paese nella potenza atomica, leggeva nel Vangelo che «le misure nonviolente sono più forti delle armi», e vedeva come compito dei cristiani, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, niente di meno che l’abolizione della guerra dai mezzi della politica. Il libro non fu pubblicato per la proibizione dei superiori religiosi di Merton, che ritenevano estraneo al compito di un monaco parlare di pace sulla terra. Ma Merton lo fece circolare ciclostilato in centinaia di copie, alcune delle quali arrivarono anche in Concilio. La pace nell’era postcristiana è ora finalmente pubblicato nelle edizioni Qiqaion della Comunità di Bose. Noi siamo debitori a questi coraggiosi che, a prezzo di enormi sofferenze interiori e di costose fedeltà all’essenziale, seppero dire e pagare la «verità della pace» – questa bella espressione ripetuta dieci volte nel messaggio del Papa per la prossima Giornata della Pace – nonostante divieti paurosi, misere prudenze, calcoli politici.
Così riconosceremo, nei nostri giorni, Turi Vaccaro, il nonviolento italiano che, in Olanda, nel giorno anniversario di Nagasaki, ha messo fuori uso i computer di bordo di due bombardieri atomici, ed è per questo condannato a un anno e mezzo di prigione. La sua azione personale, pagata cara, può non essere condivisa da tutti, ma il suo significato – di distruzione non di “beni”, ma di “mali”, come Turi ha detto nel processo – merita il nostro riconoscimento. Con quel gesto, Turi ha posto nuovamente il problema del disarmo nucleare, dovere di noi tutti, e dei dirigenti degli stati nuclearisti, tanto vecchi come nuovi, verso il futuro umano possibile, verso le generazioni future.
E siamo solidali con l’azione legale di quattro cittadini di Pordenone nei confronti del governo statunitense, presentata il 22 dicembre scorso, per le armi nucleari dislocate ad Aviano e a Ghedi, su territorio italiano, in tutto circa novanta, in violazione inaccettabile delle convenzioni internazionali e delle leggi italiane, oltre che gravemente pericolose per noi.
E poi riconosceremo anche Mordechai Vanunu, il tecnico israeliano che, per avere rivelato ai giornali l’esistenza della bomba atomica del suo paese, costruita violando le convenzioni internazionali limitatrici di quell’armamento, fu rapito in Italia e oggi, pur dopo avere già scontato ben diciotto anni di duro carcere, è di nuovo sottoposto a restrizioni di libertà e impedito di comunicare. Chi ama e difende la verità di tutti più dei segreti militari, l’umanità intera più di quella porzione di umanità che è il suo popolo, è un vero integrale patriota.
Queste azioni ripropongono il tema abbandonato del disarmo nucleare, che dobbiamo estendere al disarmo generale delle armi da guerra: anche le armi leggere, perché nessun’arma è leggera. Può essere giustificata la necessità della polizia, che, se è corretta, con la forza regolata riduce la violenza, mentre ogni esercito, con apparati e logiche di guerra, incrementa sempre la violenza, perché la guerra la vince il più violento, non chi ha ragione, se non per caso. Sicché Bobbio ripeteva: «La guerra è l’antitesi del diritto».
Certe azioni sembrano negative, ma sono positive. La forma negativa dei comandamenti di Dio per la vita – non uccidere, non rubare, non mentire… – è solo una indicazione che, chiudendo una via, ne apre un’altra, positiva, di impegno costruttivo, che è la vera regola di vita giusta, tutta riassunta nell’amore effettivo. Essere costruttivi non esclude il momento della resistenza e della disobbedienza civile, richiede anzi la non-collaborazione al male, ma include tutto in un disegno di amore vivo per la vita di tutti, anche dell’avversario, anche del violento. Per questo, ciò che appare sconfitta e distruzione del lottatore pacifico, la sua condanna e anche la sua morte violenta, a cominciare da quella di Gesù, sono invece seme di vita e di pace, pietra solida della nuova costruzione di “convivialità delle differenze” (la bella definizione che dava della pace Tonino Bello, vescovo), di pace giusta.

3. I cristiani e la nonviolenza
Oggi ci sono persone, centri di potere militare, economico, politico, che, mentre esercitano una pluriforme violenza, che essi stessi definiscono “infinita”, senza termine temporale e spaziale visibile, la giustificano e, peggio, la consacrano facendone risalire al Dio di Gesù Cristo il riferimento, l’ispirazione messianica e la funzione salvatrice. I “conservatori teologici”, teo-cons, tentano di legare Cristo alla loro violenza.
Ci sono anche altri cristiani, dagli ultimi papi a una quantità di chiese, di movimenti e di persone, che sempre più chiaramente individuano come missione evangelica entro le vicende storiche della famiglia umana, l’annuncio e la pratica della pace e della giustizia nelle relazioni tanto tra le persone quanto tra i grandi gruppi umani, come profezia della piena salvezza finale.
Sempre più chiaramente molti di questi cristiani si persuadono che la pace non è una stagione fortunata, non è la sola assenza di conflitti, differenze, tensioni, ma piuttosto la loro gestione costruttiva e positiva anziché negativa e distruttiva. E si persuadono che la nonviolenza non è solo l’astensione dall’offendere, o l’elusione dei conflitti, o il loro occultamento per amor di quiete, ma è lotta per la giustizia con i soli mezzi della giustizia, proprio là dove la giustizia è offesa, dentro i conflitti, contro le violenze. Nel 2001, le chiese d’Europa, nella Charta Oecumenica hanno scritto: «Ci impegniamo per l’assoluta eguaglianza di valore di ogni essere umano (…) e per un ordine pacifico fondato sulla soluzione nonviolenta dei conflitti» (n. 8). Non c’è pace né nonviolenza se non c’è l’accettazione del conflitto, gestito con mezzi giusti per fini giusti.
La politica è pace, è l’arte del convivere nella differenza e nei conflitti naturali e necessari, condotti come conflitti vitali e mai mortali, nella giustizia e mai nel dominio. La pace politica, e cosmopolitica, è la nonviolenza attiva, positiva, politica, radicata nella spiritualità che riconosce in ogni volto umano, anche nell’avversario e nel nemico, la più alta e profonda realtà del mondo, per i credenti una immagine di Dio, per quanto possa essere deformata, ma rigenerabile. La politica, anche nelle istituzioni democratiche, che ammette la guerra e le altre violenze fra i suoi mezzi d’azione, nega il proprio senso umano. Non basta il pacifismo (non volere la guerra, ma accettarla), occorre la nonviolenza: ripudio effettivo della guerra, scelta attiva di mezzi giusti, forza dell’anima e della verità umana, non mezzi omicidi né oppressivi, nelle lotte giuste.
La nonviolenza non è un’utopia, una fuga in avanti fuori dalla realtà, ma la risposta alla montata estrema di violenza armata e strutturale del nostro tempo. La nonviolenza non è un estremismo in cerca di un semplicismo soddisfacente. La situazione del mondo è estrema, e solo chi cerca la positiva e costruttiva nonviolenza corrisponde al dovere di dare una possibilità al futuro. Oggi i nonviolenti sono i veri “estremisti” nella società e nella politica, mentre i ribelli violenti confermano la violenza sistematica, e i troppo moderati accettano la violenza di cui sono intrise, nonostante parziali progressi civili, le strutture politiche, statali, economiche, relazionali.
La nonviolenza è riconoscibile dai cristiani come la forma laica, storica, dell’amore dei nemici, che Gesù ha potuto chiederci e comandarci perché lo ha praticato e ce lo ha reso possibile dandoci la forza del suo Spirito. L’amore dei nemici è forse il più grande segno della presenza di Dio nella storia umana, della vita che risorge contro le forze della morte.

Eppure, sulla nonviolenza i cristiani sono divisi, nel passato e nel presente, almeno su tre posizioni:
1) Quelli (ministri nella loro chiesa, oppure laici) che leggono nei testi sacri e nella tradizione l’immagine di un Dio giustiziere e punitore, violento, di cui pretendono e presumono di attuare il giudizio nella storia, individuando e sradicando la zizzania, l’errore e il male con ogni mezzo: l’autorità dottrinale, il potere politico e giudiziario, la diplomazia che impone accordi diseguali, la pressione economica, la propaganda e, se occorre, anche mediante una violenza bellica che ritengono, per questo motivo, “giustificata” e anche meritoria, e osano addirittura rivestire di valore messianico. Lo abbiamo visto ai nostri giorni, e non solo nel passato. Ma scrive Jean-Marie Muller: «Quando la religione ha benedetto la violenza, la violenza non è diventata sacra, ma la religione è diventata sacrilega» .
2) Quelli che sentono nell’appello evangelico e nello Spirito di Cristo la chiamata all’amore universale, da realizzare nella storia, con la gestione positiva e costruttiva dei conflitti, consapevoli della presenza del male, ma impegnati a contrapporvisi non con mezzi uguali o simili, ma con spirito, mezzi e fini profondamente alternativi e creativi.
3) Quelli che rimangono incerti, e sono la massima parte dei cristiani: da una parte non approvano la violenza, la condannano in linea di principio; approvano e sostengono l’azione mite e giusta; ma, dall’altra parte, poiché, per la loro sensibilità religiosa e morale, hanno una consapevolezza dolorosa del male del mondo e lo condannano, si rassegnano ad accettare che, nei conflitti acuti, mezzi violenti siano da opporre ad azioni violente, e che ciò possa e debba essere tristemente giustificato, a causa dell’imperfezione del mondo, come inevitabile e necessario. Forse è qui il maggiore problema nel rapporto tra cristiani e nonviolenza. A me pare di vedervi una debolezza di giudizio e di azione, causata dal turbamento del male, affrontato con una tiepidezza di spirito, né caldo (appassionato, innovatore) né freddo (cinico, disperato) . In realtà, davanti allo scandalo doloroso del male, la reazione forte e positiva è proprio quella che troviamo nei maestri della nonviolenza attiva, Gandhi, King, Capitini: né ottimismo ingenuo, né, tanto meno, rassegnazione, e neppure imitazione dei mezzi per opporvisi, ma costruttiva indignazione sofferta, che, come è stato detto del grande spirito di di Etty Hillesum, «trasforma il dolore in forza» . Scrive una giovane studiosa: «La nonviolenza non è in Capitini uno sguardo che forza la realtà ad essere buona, ma è la forza con cui il dolore del mondo viene attraversato senza essere razionalizzato, per scoprire che proprio l’impossibilità di spiegarlo ci dice che altrove sono le parole con cui rintracciare la nostra origine» .
I cristiani del secondo tipo (se vale questo schema), cioè i cristiani persuasi e impegnati nella nonviolenza attiva, che scelgono i metodi di lotta politica nonviolenta, fanno questa scelta per ragioni razionali e morali, per una più effettiva e reale giustizia nei rapporti umani, per non collaborare ma ridurre la mole di sofferenza che i metodi violenti scaricano addosso all’umanità più povera. Ma fanno questa scelta anche per ragioni precisamente cristiane, derivanti dalla fede cristiana. È stato detto bene da Enzo Bianchi: «Oggi più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini, proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. Questo significa che la pace è dono di Dio e compito profetico dei cristiani nello stesso tempo» . Se è compito profetico, è qualcosa di più del buon senso diplomatico, che finisce per giustificare la guerra se provocata da altri.

La politica, per essere politica, costruzione e non distruzione del vivere insieme, deve ripudiare la guerra sistematicamente, in linea di principio e nelle conseguenze legislative, pratiche, operative, strumentali. Anche la guerra di difesa deve essere superata (lo prospetta implicitamente anche l’art. 11 della Costituzione): la difesa armata di armi omicide è uno stadio barbaro e feroce dell’azione che rivendica il diritto aggredito. È vero che difende e non aggredisce, ma uccide come uccide chi aggredisce. Uccidere può essere una tragica necessità, se non si è predisposto altro mezzo di difesa, ma non è mai un dovere, mai un diritto, mai un successo . La difesa armata omicida è ancora più vendetta che difesa, più ritorsione che riparo. La difesa civile, sociale, non armata – in Italia denominata meglio Difesa Popolare Nonviolenta – è possibile, se c’è la volontà di conoscere e attuare un modello umano, non omicida, di difesa che resiste, frustra e respinge la violenza; è programmabile, se se ne volessero conoscere le esperienze storiche e le molte tecniche sperimentate. Gli apparati statali in generale dicono impraticabile quello che non hanno mai neppure tentato di conoscere davvero e non hanno mai minimamente organizzato, finanziato, strutturato in una misura almeno centesimale rispetto a ciò che profondono in spese e risorse umane e materiali nella struttura militare omicida: «Una cosa è dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa è dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il più possibile» .
Gli stati si comportano così male perché sono tradizionalmente e strutturalmente legati all’apparato militar-industriale , spesso anche con vincoli di interessi personali di dirigenti statali nella grande industria militare, attivamente interessata a provocare guerre utili ad aggiornare e a consumare con profitto cruento i suoi strumenti omicidi, le armi.
Il fatto che noi non possiamo ancora, oggi, adottare come regola assoluta la nonviolenza nei conflitti su vasta scala sociale, come la adottiamo nei rapporti interpersonali, dove l’omicidio non è mai ammesso ma sempre punito , non dipende da un limite del principio del non uccidere, ma dipende, per un verso, dalla complessità non tutta prevedibile delle situazioni che possono verificarsi e dal conflitto di doveri opposti, e, per un altro verso più determinante ancora, dalla debolezza dell’opzione morale e culturale di ripudio della violenza nella politica. Come è finora prevalentemente concepita, vincolata alla ristretta antropologia machiavellica e hobbesiana, la politica è intrisa fino al midollo, anche nelle democrazie formali, di un uso cinico del potere degli uni sugli altri. La concezione che abbiamo di noi stessi e delle nostre possibilità di convivere costruttivamente, è così bassa e disperata, così succube delle vicende negative, così priva di fede incoraggiante e stimolante del miglioramento umano, così ignara delle possibilità di quello che Ernesto Balducci, sulla scorta di Ernst Bloch, chiamava «l’uomo inedito» , dentro l’uomo edito che noi siamo, quella concezione – dicevo – è tale che ci fa credere necessario, per non ucciderci tra noi, che il potere statale abbia su di noi un minaccioso diritto, che è in realtà un diritto di vita e di morte, anche dove non c’è la pena capitale, ma c’è la possibilità della guerra . Questo falso diritto bisogna arrivare a negare. Noi siamo nella preistoria della politica umana. Noi dobbiamo umanizzare questa nostra storia. Sappiamo inventare mille trovate tecnologiche e non sappiamo ancora inventare forme politiche del tutto libere dall’uccidere. La democrazia è un parziale inizio di nonviolenza (contare le teste invece di tagliarle), ma assolutamente insufficiente, perché non abolisce la guerra, non è determinata a realizzare universalmente il diritto alla vita che vuole affermare all’interno, perché usa ancora pene violente e vendicative: far soffrire chi ha fatto soffrire. I cristiani hanno un compito primario, in questo. All’inizio degli anni ottanta, nel tempo del terrificante dispiegamento bilaterale dei missili nucleari, ricordo che Norberto Bobbio diceva: «I cristiani hanno il “non uccidere”, ma temo che non saranno all’altezza della loro responsabilità».
I credenti in Dio creatore, che ha dato senso buono al mondo e alla vita, hanno il compito di realizzare il “non uccidere” servendo la vita, costruendo la vita insieme. Dice ancora Gandhi a tutti, e anche ai cristiani: «Coloro che affermano che la religione non ha nulla a che fare con la politica non sanno che cosa significa religione» . Egli parla evidentemente non di istituzioni religiose dotate di peso sociale, ma dello spirito religioso interiore. Senza rivendicare esclusivismi o primati, perché lo Spirito di Dio è diffuso e soffia dove vuole, i cristiani, noi cristiani, abbiamo soprattutto un compito costruttivo: essere canali chiari, testimoni liberi, critici e propositivi, nel quotidiano privato e politico, attraverso i quali il Bene vivente possa fermentare di giustizia e pace le relazioni umane.
Contro le apparenze, tra il bene e il male, le forze di vita e le forze di morte, è il bene il più forte. Col perdono, l’amore toglie il male. Il male non toglie l’amore con l’odio. Bene e male sono in lotta, ma non si equivalgono. Il bene resta sempre, più persistente del male. Il bene può fare del male un bene. Il male non può fare del bene un male.
È vero che non sappiamo definire sempre, in tutto, ciò che è bene e ciò che è male. Ma sentiamo, in modo quasi infallibile, dove si collocano, nel nostro agire, i due poli opposti: dove c’è ingiustizia e offesa, dove c’è giustizia e amore; dove ci si allontana dall’ingiustizia, dove ci si avvicina all’amore.

Concludo con una confessione personale: lavorare per la pace più con fede e amore che con spirito di condanna della violenza e dei violenti, non mi è facile, non ne sono sempre capace. Un giorno ho ricevuto una parola amica, bruciante come solo la parola amica può essere: «Ma tu ami di più i poveri o odii di più i ricchi? ». Questa domanda mi esamina. So che devo amare i poveri e non odiare i ricchi, so che un poco lo faccio, ma so anche che spesso è la collera per le violenze dei violenti che mi anima. Un giorno ho detto ad Arturo Paoli: «Io sento in me odio per i grandi prepotenti e violenti. Io non voglio odiare nessuno, neppure i grandi violenti. Che cosa posso fare?». Mi ha risposto: «Trasforma la tua collera in impegno costante, in energia e volontà e lavoro costruttivo». Sono qui che cerco di farlo. Può darsi che ci riusciamo se ci aiutiamo tutti l’un l’altro. Può darsi che ci riusciamo se guarderemo soprattutto all’esempio coraggioso di chi con maggiore fede e amore ha costruito pace. Gandhi dice: «Sii tu il cambiamento che vuoi nel mondo». Si combatte il male moltiplicando il bene. Non è il male che ci chiama a distruggerlo, ma il bene su cui si fonda il dono dell’essere e della vita, che ci chiama a difenderlo affermandolo e vivendolo.

Enrico Peyretti – da www.paxchristi.it

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