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Olocausti e colpe rimosse degli italiani

di Zenone Sovilla *

Fa rabbrividire che la Giornata della memoria e il suo corollario vengano utilizzati da alcuni per alimentare la leggenda nazionale della scarsa responsabilità degli italiani «brava gente» nell’orrore dell’olocausto.
In questi giorni di preziosa rievocazione della tragedia massima del secolo scorso, assistiamo a un rincorrersi fedifrago di voci che tentano di ridimensionare e di insabbiare le colpe del regime fascista e del popolo italiano. Si tratta di un’azione di travisamento storico doppiamente maligna, perché da un lato perpetua la retorica della menzogna sulla «verginità italica» e dall’altro inibisce le crescenti pulsioni liberatorie che la mettono in discussione per aprire squarci di scomoda e dolorosa verità sul nostro comune passato.

Questo esercizio di sottile negazionismo sotto mentite spoglie (quelle della commossa rievocazione storica) è patrimonio di una intellettualità d’accatto appartenente alla nebulosa della destra culturale italiana cui i mass media – pubblici e privati – spalancano acriticamente spazi di disinformazione strisciante. Succede così che queste mummie intellettuali riesumate e riciclate in un clima politico e culturale di pressoché generalizzata banalizzazione (del male, del bene, del vivere, del senso) possono permettersi di escludere che il bestiale dittatore Benito Mussolini fosse in realtà incline all’omicidio di massa su base etnica, politica o religiosa; oppure di sostenere che in fondo l’applicazione delle leggi razziali del ’38 fu assai blanda e che il tracollo avvenne solo per colpa di quei tedeschi, loro sì, davvero spietati (e naturalmente «provocati » dalle azioni dei partigiani); o ancora di minimizzare gli anni di massiccia propaganda xenofoba e antisemita che precedettero la promulgazione di quei provvedimenti immondi (eppure basterebbe sfogliare, non dico riviste come «La difesa della razza» di Interlandi e Almirante, ma semplicemente i quotidiani dell’epoca).

Non stupirà, dunque, che in questo contesto non solo il presidente della Repubblica Ciampi ma lo stesso post-fascista pentito Gianfranco Fini abbia avvertito la necessità di porre un limite alla mistificazione riaffermando le responsabilità storiche di quel regime anche nei riguardi dell’olocausto. Siamo spesso di fronte all’esasperazione di quella scuola di pensiero «normalizzatrice », trasferitasi dalla caverna della vergogna a un’immeritata e inquietante enfasi nelle istituzioni e sulla stampa, che tende a parificare vittime e carnefici, i combattenti della Resistenza e i ragazzi di Salò, tutti morti nel nome di una profonda tensione ideale, sia pure su fronti contrapposti: quasi che collaborare allo sterminio di massa e opporsi a questa perversione fossero scelte soggettivamente neutre e parimenti rispettabili da uno sguardo ermeneutico. Siamo all’apoteosi dell’aberrazione etica. Eppure l’esercizio dialettico su questo terreno minato sembra richiamare in misura crescente anche molte sensibilità estranee alle viscide correnti in odore di revisionismo.

Vivere fino in fondo il senso della Giornata della memoria in Italia significa, al contrario, gettare un fascio di luce sul volto oscuro del nostro passato, sulla crudeltà intellettuale, morale e materiale di un regime e di chi lo ha tollerato o incoraggiato. Un sussulto civile supplementare ma necessario sarebbe porre in primo piano la genesi e l’espansione del regime dell’intolleranza e della repressione nell’Italia fascista: aprire finalmente senza reticenze la pagina degli oltre duecento luoghi di deportazione che furono istituiti con decreto del 1940 su tutto il territorio nazionale, indagare sui crimini fascisti perpetrati all’estero, mettere a fuoco la violenza intrinseca di un sistema ideologico del quale ancora oggi troppo spesso si indugia, anche in dotte disquisizione cattedratiche, nella grottesca e infida descrizione degli «aspetti positivi che pure ci sono stati».

Può rivelarsi di una certa utilità, in questo quadro, soffermarsi su alcuni cenni storici interessanti. Come il discorso che Mussolini pronunciò al congresso del partito, a Roma, nel 1921: «Intendo dire che il fascismo si preoccupò del problema della razza: i fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, con la quale si fa la storia». In Germania, all’epoca, il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi era appena nato e solo due anni più tardi il suo teorico Feder avrebbe dato alla luce il suo «catechismo» nazista che non prima di dieci anni dopo si trasformò in un programma di governo con l’ascesa di Hitler al cancellierato.

Quel discorso di Mussolini, un anno prima della marcia su Roma, dà la misura della brutalità fisiologica di una teoria e di una prassi figlie di una visione epocale immolata alla violenza della quale le venature belliciste radicate culturalmente nel futurismo sono solo una delle espressioni simboliche. Una visione che in origine ha ispirato e influenzato lo stesso percorso del nazismo, con il quale si sarebbe poi stretta in un abbraccio comunemente omicida.

Ben prima delle norme promulgate nell’autunno del 1938, la stampa italiana ospitava, nel corso degli anni Trenta, un crescendo propagandistico atto a gettare discredito nei riguardi della popolazione di religione ebraica, degli zingari, degli oppositori politici del regime (caratteristica, quest’ultima, normalmente attribuita a priori agli appartenenti alle categorie dileggiate). E se sui quotidiani si accoglieva con entusiasmo l’orribile provvedimento, qualche mese prima quasi duecento studiosi, intellettuali, giornalisti, politici e professori universitari avevano sottoscritto il Manifesto degli scienziati razzisti, prezioso ausilio delle politiche repressive del regime (qualcuno nell’intellighenzia suggerì anche a Mussolini di confinare gli ebrei in Madagascar).

La progressiva applicazione delle leggi razziali significò per molti zelanti «servitori dello Stato» avere spianata la via a una rapida carriera, negli atenei come nell’amministrazione pubblica, spesso a danno di ebrei o di altri appartenenti ai gruppi da emarginare, che venivano via via rimossi dai loro ruoli professionali. «Gli insegnanti e gli alunni ebrei esclusi dalle scuole a datare dal 16 ottobre 1938», titolava il Resto del Carlino del 3 settembre del medesimo anno. E il 19 novembre il Corriere della Sera poteva esultare («Le leggi per la difesa della razza approvate dal consiglio dei ministri») elencando le numerose misure coercitive introdotte, a partire dal divieto dei matrimoni misti fino all’esclusione dai posti di lavoro pubblici o assimilabili.

La sostanziale sospensione dalla vita civile era, però, solo l’inizio della tragedia per gli ebrei, gli zingari, gli oppositori politici (a cominciare da anarchici e marxisti di varia matrice), gli omosessuali, i testimoni di Geova, gli stranieri. Sono datate tra l’estate e l’autunno del 1940 le circolari che il ministro degli Interni inviò a tutti i prefetti d’Italia per predisporre la deportazione, in coerenza con quanto previsto dal regio decreto dell’8 luglio 1938, poi recepito nel complesso dei provvedimenti razzisti. «Appena dichiarato lo stato di guerra – recita una circolare del 1° giugno 1940 – dovranno essere introdotte in carcere le persone pericolose sia italiane che straniere di qualsiasi razza». Nella genericità della definizione dei soggetti «pericolosi» risiede il totale disprezzo per la diversità proprio di un regime che di lì a poco avrebbe istituito per decreto luoghi di deportazione in tutte le regioni del regno: sono stati censiti oltre duecento campi fascisti nonostante per gran parte di essi la memoria sia stata rimossa nel vuoto dell’attenzione storiografica e politica. Le persone sottratte alla vita sociale venivano segregate in luoghi di tipologia e gestione diversificate, alcuni particolarmente severi, altri meno opprimenti. Il regime costruiva campi ad hoc oppure utilizzava ex caserme, vecchie ville, conventi o addirittura sinagoghe (come accadde a Ferrara). Per molti dei deportati quei luoghi di crudeltà furono l’anticamera della tragedia totale, un anello nella catena della soluzione finale. Da qui, infatti, venivano trasferiti al centro di smistamento di Fossoli o (nell’ultima fase della guerra) direttamente ai campi di sterminio nazisti. In gran parte di queste «prigioni» oggi non esiste un segno di memoria, nemmeno laddove – come ad Alatri, vicino a Roma – sono ancora visibili le baracche. Solo in qualche raro caso, come a Ferramonti, in Calabria, sono sorte fondazioni e musei sostenuti dall’impegno di volontari e di storici non professionisti. Il mondo accademico nazionale non ha mai amato l’argomento.

Orrore nell’orrore dimenticato, i campi italiani all’estero, come quello creato nel 1942 sull’isola croata di Arbe: la brutalità del regime detentivo era tale che tra i 15 mila internati vi furono almeno 1500 morti. Sorvoliamo, per brevità, sulle atrocità commesse dalle milizie coloniali italiane in Africa, a loro volta coperte da decenni di omertà, censure e depistaggi nel nome dell’interesse nazionale.

Tutte pagine rimosse dalla memoria e dalla coscienza del Paese fin dall’immediato dopoguerra, quando l’Italia doveva rifarsi una verginità, evitare i tribunali internazionali e guardare a un radioso futuro di rinascita atlantica nel quale, tra l’altro, chi aveva rivestito ruoli di responsabilità, o rubato il posto di lavoro a un ebreo o a un socialista, non subiva alcuna conseguenza.

Roma scansò una sua Norimberga in virtù di ragionamenti di opportunità geopolitica; non certo per l’assenza di materiale indiziario e probatorio sulla moltitudine di crimini e criminali fascisti sui quali sono probabilmente solo una fonte del tutto parziale i 695 fascicoli riemersi qualche anno fa nel cosiddetto armadio della vergogna della Procura militare nella capitale.

In questo contesto producono un’eco sinistra e gravida d’inquietudine le frasi ricorrenti nei media italiani nelle quali la smemoratezza nazionale fa regolarmente capolino e si limita a bollare come «nazista» l’orrore che ha distrutto le vite di milioni di ebrei, zingari, attivisti politici e altre vittime di un regime «che pure fece anche qualcosa di buono», come recita la vulgata di alcuni circoli culturali italici. Che cosa si può riuscire a vedere «di buono » tra le pieghe di una simile devastazione dei più elementari principi della convivenza?

L’Italia del 2005 presenta, anche a livello istituzionale, rimarchevoli pulsioni razziste, siano esse rivolte agli ebrei, ai cinesi, ai turchi, ai musulmani, agli africani o ai rom. L’intolleranza assume nuovi volti e coltiva la paura del diverso mediante teorie e prassi talvolta striscianti e inafferrabili. La sua codificazione nelle dinamiche regressive delle organizzazioni sociali e nelle norme pubbliche si confonde nella distrazione e nell’indifferenza degli astanti, quasi tutti in altre faccende affaccendati.

Così come accadde in altre epoche storiche che crescevano in grembo il mostro nell’apparente inconsapevolezza collettiva della sua inumana mostruosità. Quanto di questo processo involutivo è legato al rifiuto di un Paese intero di fare i conti fino in fondo con gli anfratti più scivolosi e repellenti del suo passato?

* Articolo pubblicato il 29 gennaio 2005 sul quotidiano l’Adige del quale l’autore è redattore.

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