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Voglia di autonomia e anacronismo dello Statuto speciale

[b]Zenone Sovilla[/b]
[i][articolo pubblicato dalla rivista “Protagonisti”, edita dall’Isbrec – Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’Età contemporanea, gennaio 2011][/i]

[b]Ha un certo radicamento sociale[/b] la convinzione che la provincia di Belluno subì un’ingiustizia all’indomani della Seconda guerra mondiale, allorquando il legislatore costituente non menzionò questa terra dolomitica nell’articolo 116 [b]1[/b] (autonomie speciali) della Carta fondamentale. Invece, vi furono inserite (accanto a valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia) le vicine Trento e Bolzano, riunite nella regione Trentino Alto Adige che poi sarà divisa amministrativamente in due province autonome. Si separavano così le strade delle tre province che negli ultimi due anni di guerra erano state annesse al Terzo Reich andando a formare l’entità amministrativa denominata Zona di operazione Prealpi ([b]Alpenvorland[/b]) la cui nascita fu disposta da Hitler il 10 settembre 1943.

Assai diverso fu l’atteggiamento di fondo delle genti e delle istituzioni civili e religiose delle tre province dolomitiche: Belluno si distinse fin da subito per una resistenza diffusa che implicò un alto costo in vite umane; Bolzano, al contrario, diventò uno zelante e significativo crocevia del Reich (ospitò anche un lager strategico nel tragico processo di deportazione) e con i suoi giovani in divisa nazista alimentò largamente anche le forze di occupazione nel Bellunese; il Trentino affidò le sue sorti ad autorità locali inclini al collaborazionismo [b]2[/b], mentre nel movimento antifascista predominava l’attendismo e migliaia di ragazzi venivano arruolati nel Corpo di polizia nazista (Cst) che fu attivo anche fuori provincia in azioni antipartigiane e rappresaglie.

Dopo la liberazione, tuttavia, forse fu paradossalmente questo eroismo patriottico del Bellunese a determinarne un destino repubblicano non autonomo, se le parole pronunciate il 7 giugno 1947, nell’ambito della discussione generale dell’articolo 116 della [b]Costituzione[/b], dall’esponente del Pci Ruggero Grieco (1893-1955) sono indicative della logica che muoveva il legislatore in questa materia. Osservava infatti Grieco replicando ai colleghi che, richiamandosi al principio egualitario e ai rischi per l’unità nazionale, erano contrari agli statuti speciali: “Secondo me simile preoccupazione è infondata. Chi ha una simile preoccupazione dimentica che abbiamo concesso questi statuti precisamente per far argine a certe deplorevoli tendenze centrifughe e per rinsaldare l’unità dello Stato”.

A supporto di questa visione lo stesso parlamentare ricordava per l’appunto la delicata situazione creatasi durante la guerra nell’Alto Adige revanscista dopo lo sfregio subìto negli anni del delirio nazionalista fascista.

Districare quel complesso groviglio storico era dunque l’imperativo eppure oggi, a oltre mezzo secolo dai primi passi delle “autonomie”, persistono tenacemente in Trentino Alto Adige ancoraggi di tipo identitario, etnico e retrospettivo fra mito asburgico e ritualità pantirolese.

È verso questo scenario che si sono incamminati via via, in questa prima decade degli anni 2000, i vari territori bellunesi secessionisti. Chi guardando al confinante Trentino nell’ottica di un’affinità socio-economica (comuni del lembo occidentale della provincia come Lamon e Sovramonte). Chi appellandosi a Bolzano in nome dei bei tempi andati dell’unità asburgica dei ladini (Fodom e Ampezzo), il che naturalmente non esclude i risvolti finanziari di un’eventuale transizione autonoma ma li subordina formalmente all’affermazione di un diritto storico.

Comunque sia, il vil danaro è incontestabilmente lo spartiacque. Basti ricordare, a titolo esemplificativo, che oggi le due Province autonome contano su un ritorno fiscale in termini di trasferimenti statali dell’ordine dell’85% circa, mentre nelle regioni ordinarie non si supera il 50%. Trento e Bolzano possono così gestire ognuna un bilancio da quattro miliardi e mezzo di euro (in termini pro capite le entrate sono circa il doppio rispetto a una regione a statuto ordinario come il Veneto).

Sulla scia delle iniziative secessionistiche, giustificate anche dalla scarsa efficacia delle politiche regionali venete rivolte a quest’area montana, ha preso corpo nell’ultimo periodo un più vasto movimento popolare che, rifuggendo dai particolarismi del “si salvi chi può” dei vari comitati separatisti, propugna piuttosto la costituzione della Provincia autonoma di Belluno nell’ambito della Regione Trentino Alto Adige.

L’obiettivo dichiarato è l’individuazione di un contesto istituzionale più consono a garantire risposte alle esigenze economiche e sociali di questo fazzoletto montano in difficoltà. Un’ottica che trova conforto in una serie di indicatori di benessere (redditi, depositi bancari, consumi eccetera) delle due province autonome; non altrettanto, però, si registra in altri ambiti rilevanti per la qualità della vita (mobilità, inquinamento atmosferico, consumo di suolo, cementificazione eccetera).

La straordinaria dotazione finanziaria e la facoltà di autogoverno, infatti, non hanno espresso appieno il loro potenziale divaricante rispetto a un paradigma dello sviluppo che anche qui è stato ampiamente assecondato da una solida coalizione di interessi pubblici e privati, con un notevole sacrificio ambientale (come nel caso dei debordanti impianti sciistici, dell’agricoltura intensiva, del trasporto su gomma lungo l’asse del Brennero, della speculazione edilizia…).
Inoltre, ci si è trovati spesso di fronte al nodo irrisolto di un dualismo controllato-controllore indebolito nel contesto autonomo (eclatanti recentemente i casi delle discariche abusive di veleni e dell’inquinamento dell’acciaieria in Valsugana, entrambi sollevati con l’intervento del Corpo forestale dello Stato giunto da Vicenza, dopo anni di denunce dei cittadini cadute nel vuoto in provincia).

Un aspetto, quest’ultimo, che dovrebbe far riflettere in un’epoca di smarrimento da omologazione, con tentazioni di fuga dal villaggio globale verso quello del Far West.

Comunque sia, pur in presenza di una multiforme dissipazione di energie sociali positive causata prevalentemente dall’inadeguatezza e dai ritardi culturali delle classi dirigenti, il quadro delle due province autonome presenta dati rimarchevoli di qualità della vita (sia pure secondo parametri consumistici), specie se confrontati alla media nazionale o se correlati alle specificità delle aree montuose.

Il che spiega le pulsioni autonomistiche non solo in provincia di Belluno ma anche in altre aree del Veneto, come gli otto comuni dell’altopiano di Asiago che nel 2006 si sono espressi in un referendum (con il 94% di sì) per l’accorpamento al “ricco” Trentino.

Di fronte a tali entusiastici (e per ora immaginari) esodi amministrativi, appare utile una lettura in chiave culturale, politica e antropologica da affiancare alle premesse di impronta pragmatica o storica . In questo modo possiamo tentare di mettere a fuoco un’altra faccia degli effetti dei “privilegi” dello statuto speciale.

Il nucleo di questo processo risiede nella necessità per entrambe le province, ma soprattutto per Trento, ormai a quasi un secolo dalla Prima guerra mondiale, di giustificare l’autonomia e di difenderla dalle critiche di vario segno ideologico che reputano anacronistico lo status di “più uguali degli altri”.

Il riflesso condizionato, negli ambienti istituzionali (politici e culturali) si è presto tradotto in una gigantesca operazione di retorica passatista utile a enfatizzare le “peculiarità” antropologiche e le mirabili virtù che rendono uniche queste terre dal passato asburgico.

Nel caso di Bolzano, più complesso data la compresenza (accanto ai ladini) di due grandi gruppi linguistici (tedesco e italiano), l’autonomia è stata sinonimo di separazione etnica ed ha prodotto, fra l’altro, un paradosso cui qui accenneremo senza dilungarci, perché reputiamo più significativo da un osservatorio bellunese l’analisi del “laboratorio” trentino.

In Alto Adige le autorità hanno esaltato scientemente la dimensione etnica della convivenza, quella denunciata dal povero Alex Langer anche quando in occasione di due censimenti (1981e 1991) rifiutò di aderire alla schedatura (che oltretutto non prevedeva lo status di mistilingue), una battaglia civile usata poi come pretesto dal potere locale per negargli il diritto all’elettorato passivo e togliere di mezzo una possibile candidatura scomoda alle elezioni per il sindaco di Bolzano, nel maggio 1995. Un paio di mesi più tardi, il 3 luglio, Alex Langer si tolse la vita a Pian de’ Giullari, sopra Firenze.

In altre parole, in Sudtirolo ha preso corpo via via, fin dal sistema scolastico, una società della separazione su base etnica. Il che, se da un lato ha perpetuato condizioni favorevoli alla causa originaria della “specialità” autonomista, dall’altro ha mortificato i processi di interazione/osmosi fra i gruppi linguistici ingessando l’evoluzione della convivenza.

Oggi peraltro si assiste a un microcosmo che paradossalmente riproduce su scala locale, capovolgendola, la relazione maggioranza-minoranza a livello nazionale. Il risultato è, fra l’altro, un gruppo italiano in forte crisi d’identità che risponde specularmente con eccessi nazionalistici al culto pantirolese. Con tutte le perdite di energia sociale di una simile dinamica collettiva [b]3[/b].

Va detto, per inciso, che un risvolto apprezzabile di questa tensione anche dialettica in Alto Adige è rappresentato da una rilevante corrente culturale che da decenni tenta di spezzare questo cerchio e di alleggerire il cammino collettivo.

In Trentino, al contrario, le fonti di pensiero eccentrico sono più deboli, pressoché assenti nei circuiti istituzionali, si trovano in alcuni contesti per lo più informali e scarsamente percepibili dall’opinione pubblica.

Ciò ha facilitato il progressivo imporsi nell’ultimo ventennio di un discorso pubblico, supportato da notevoli impieghi monetari, teso a solidificare una rappresentazione immaginaria univoca della realtà provinciale, funzionale alle ambizioni del potere politico e alla necessità di conservare intatto l’assetto autonomistico.

Se i primi segnali si coglievano già durante la presidenza dell’esponente del Partito autonomista trentino tirolese (Patt) Carlo Andreotti (legislatura 1994-1994), il vero architetto dell’edificio autocelebrativo è Lorenzo Dellai, significativamente detto il Principe, dal 1999 a capo della giunta provinciale, dopo otto anni trascorsi come sindaco, originariamente Dc, a guida di coalizioni di centrosinistra nel capoluogo.

Dellai, la cui fama assurse fin troppo generosamente alla ribalta nazionale quando Trento fu il “laboratorio politico” della Margherita, è stato il regista di una svolta sostanziatasi anche nel raffreddamento delle relazioni con Bolzano. Una manovra preliminare necessaria, evidentemente, per coltivare appieno la peculiarità provinciale minimizzando così il rischio di finire nel cono d’ombra dell’ingombrante vicino multietnico, a maggior ragione nella prospettiva di una revisione costituzionale in chiave federalista che potrebbe fare del Trentino una “vittima” nell’ambito di riforme ispirate alla razionalizzazione amministrativa e all’eguaglianza fra tutti gli italiani.

Così, mentre dietro le quinte si consolidava una enorme ragnatela finanziaria pubblica e privata che fa capo alla Provincia autonoma (dall’energia al turismo, dall’agricoltura alla ricerca scientifica), sul palcoscenico prendeva corpo la rappresentazione di un monolite sociologico legato da un indissolubile cordone ombelicale al Tirolo meridionale di asburgica memoria. Insomma, un contesto antropologico peculiare, da non confondersi con il resto del Paese: “Trentino, l’Italia come dovrebbe essere”, recitava un poco elegante slogan pubblicitario qualche anno fa.

Ecco, dunque, in un mix fra ambizioni di grandeur e esercizi di passatismo, un crescendo di presenzialismo istituzionale e di celebrazioni “storiche” che supporta il disegno politico, tanto più da quando nella maggioranza provinciale di centrosinistra è determinante il Partito autonomista trentino tirolese (8,5% alle elezioni del 2008). Questa forza politica localista e tradizionalista (che ha per simbolo la stella alpina della Südtiroler Volkspartei) è la diga che ha frenato il dilagare della Lega Nord (arrivata tuttavia al 14%) consentendo alla coalizione di Dellai di mantenere il potere, spostandosi ancora un po’ a destra (lo stesso presidente invece di aderire al Pd ha voluto fondare un suo partito territoriale: l’Upt, Unione per il Trentino).

Non sorprenderà, perciò, se il copione identitarista in salsa tardonostalgica si è arricchito di battute e colpi di scena, per esempio con fiumi di denaro pubblico (quasi 400 mila euro) destinati a beatificare la figura del condottiero anti-illuminista tirolese Andreas Hofer (adorato in Alto Adige per il suo sacrificio contro i napoleonici, ma ricordato in Cadore per le scorribande dei suoi seguaci schützen – i “bersaglieri” asburgici – nell’agosto 1809, fatti di cui non si fa menzione nell corrente agiografia che omette anche la memoria del governo reazionario, maschilista e liberticida instaurato a Innsbruck dall’oste della val Passiria).
Senza dimenticare che sull’altare di questo furore austriacante, le istituzioni trentine hanno sacrificato non poco delle tensioni risorgimentali, prima, e irredentiste, poi, di questa terra ricca di idealità che vanno ben oltre l’agiografia dell’Impero asburgico (un potere che per non pochi cittadini anche da queste parti significò persecuzione spietata e morte).

L’oleografia evidentemente funziona più della storiografia seria, col risultato che la mistificazione identitaria può contaminare la realtà. Nascono così a macchia d’olio nei paesi del Trentino compagnie di schützen, tutte intente a diffondere il verbo pantirolese (Dio, patria e famiglia), naturalmente debitamente sponsorizzate dalla Provincia autonoma che paga per le divise e per le manifestazioni.

In linea generale, l’ossessione istituzionale del richiamo alle radici e alla specificità di un immaginario corpo sociale “storico” rischia di trasferire sulla collettività l’idea (insana e fuorviante) di un microcosmo locale ancorato a un preteso sistema valoriale e comportamentale unanime (con l’inevitabile dicotomia “post-asburgici” versus “altri”). Al contrario, persone e gruppi sociali sono fra loro diversi, costantemente coinvolti in processi di evoluzione-interazione con l’alterità, e come tali vanno considerati, specie dalle istituzioni che per perpetuare se stesse si dedicano invece a pericolose ribolliture mitologiche dei tempi andati.

In questa prospettiva ci si può interrogare sul ripiegamento conservatore rappresentato da una prassi politica che da un lato nutre più la comoda retorica del particulare che i segmenti più fecondi (ma meno strumentalizzabili) della società; dall’altro, rischia di isolare culturalmente il Trentino nel contesto del Nordest italiano, coltivando un’improbabile autosufficienza o al limite agitando l’araba fenice dell’Euregio tirolese.

Forse risiede proprio in questa insistenza smodata sui temi identitari territoriali il limite che ostacola un dialogo autentico trasnfrontaliero e che nega ai trentini un sogno senza confini, una dimensione dinamica che sia proiettata nel futuro e non nel passato.

Contro questa esagerazione istituzionale della “diversità” trentina si infrangerà presumibilmente anche il sogno dei bellunesi di un apparentamento autonomo.

Il che potrebbe anche rivelarsi salutare e favorire invece nuove meditazioni politiche sulle articolazioni istituzionali e sulle riforme necessarie per superare la disparità rappresentata dalle attuali autonomie speciali e per rispondere alle esigenze e alle peculiarità di tutti i territori, senza stucchevoli manovre etno-storiche con i loro spiacevoli effetti collaterali.

Zenone Sovilla

NOTE

[b]1 [/b]L’articolo infine approvato così recitava: “Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali”.

La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 lo ha modificato come segue:

“Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principî di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

[b]2[/b] Sulla politica del commissario prefetto di Trento Adolfo de Bertolini si vedano le rivelazioni contenute nel volume di Giuseppe Sittoni “Uomini e fatti del Gherlenda. La Resistenza nella Valsugana orientale e nel Bellunese”(Croxaire – Mosaico, Strigno, Trento, 2005) che contiene lettere eloquenti ma rimaste segrete fino agli anni ’90.

[b]3[/b] Su questo specifico aspetto si veda “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” di Stefano Fait e Mauro Fattor (Raetia, Bolzano, 2010).

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