Nonluoghi Archivio Le parole sporche dei media che sdoganano la xenofobia

Le parole sporche dei media che sdoganano la xenofobia

Pubblichiamo di seguito l’introduzione al nuovo volume di Lorenzo Guadagnucci «Parole sporche. Clandestini, nomadi, vu cumprà: il razzismo nei media e dentro di noi» (Altreconomia, 191 pagine, 13 euro).

Lorenzo Guadagnucci

La scena è questa. Inizio 2010, Aosta, biblioteca regionale: una costruzione moderna, comoda e spaziosa, che trasmette una sensazione d’efficienza. Un bel clima. Nella sala conferenze, morbide poltrone color carta da zucchero. Stasera si parla di razzismo e media in un contesto molto particolare: il programma di “Collettivamente memoria”, una rassegna ideata da Silvia Berruto, “giornalista contro il razzismo”, a cavallo del “Giorno della memoria”. Silvia, membro dell’Istituto storico della resistenza e nipote di Francesco Gallinari, internato militare in Polonia e Germania fra il settembre 1943 e l’agosto 1945, ha unito storia e attualità. La proiezione del monumentale “Shoah” di Claude Lanzmann, la conferenza di Paolo Momigliano Levi e la lettura pubblica della Costituzione sono affiancate da una serata dedicata alle responsabilità dei media nella diffusione del razzismo nella società di oggi.

Una scelta tanto coraggiosa quanto pertinente. Sul palco, dietro il lungo tavolo di legno chiaro siamo quattro: io, Silvia e due ragazze, Imane El Baladi e Aleksandra Mitrovic. Silvia, introducendo la serata, ricorda subito che le “leggi razziali” del settembre 1938 -io preferisco per chiarezza chiamarle “leggi razziste”- furono lo sbocco naturale di un lavoro culturale che il regime fascista condusse giorno per giorno, con determinazione, seminando veleno nell’immaginario collettivo, nelle menti della gente. Poi Silvia si domanda e ci domanda: e se gli studenti “gentili” e i loro familiari, quando arrivarono le espulsioni degli allievi ebrei dalle scuole, avessero detto e fatto qualcosa? La domanda è retorica e la risposta ovvia: la persecuzione -sempre più dura fino alla Shoah- non avrebbe preso piede e il regime sarebbe andato in crisi. Silvia sa bene che il suo quesito viene di solito accolto con sufficienza e una scrollata di spalle; dopotutto viviamo in un paese che continua a coltivare il mito degli “Italiani brava gente” e che sta rivalutando l’epoca fascista con il fattivo contributo di molti giornalisti con pretese da storici. Invece io trovo la domanda pertinente e me ne sorge un’altra: non sarà che proprio in questi tempi stiamo fingendo di non vedere altri “ebrei”, altre “non persone” che vivono fra noi? Ecco il legame fra ieri e oggi, fra la Giornata della memoria e i “Giornalisti contro il razzismo”, micro-associazione nata nel 2008 sull’onda della persecuzione a mezzo stampa di rom e migranti. In poco tempo abbiamo avuto due pacchetti sicurezza, il reato di clandestinità, il permesso di soggiorno a punti, la legittimazione delle ronde, i respingimenti in mare, i censimenti nei campi rom.

Silvia si domanda e ci domanda: non saremo per caso di fronte a nuove legge razziali, cioè razziste? Dall’altra parte del tavolo chiaro, davanti a noi, c’è il pubblico, se vogliamo ancora chiamarlo così, considerato che sono in tutto nove persone. Per ospitarci, basterebbe un salotto di casa. Siamo in famiglia anche in senso letterale, visto che oltre la metà del pubblico va collocato nella categoria degli amici e familiari: ci sono la mamma di Aleksandra, quella di Imane con un’amica, altre due ragazze che hanno tutta l’aria d’essere venute lì per assistere al “debutto” di Aleksandra e Imane, forse compagne di studi. Poi c’è Beatrice Feder, l’insegnante che ha occupato le stesse poltrone al mattino con la sua classe di liceo, quando io e Silvia abbiamo tenuto una conferenza-seminario dedicata ai tredici allievi di Beatrice. I due giovani seduti in mezzo alla sala, in età da universitari, sono gli unici sconosciuti a Silvia e agli altri: scopriremo che stanno realizzando una ricerca sul razzismo. Gli ultimi due sono un signore con lo sguardo curioso, che pare frequenti conferenze e incontri pubblici con una certa assiduità, e Loredana Faletti, giornalista e scrittrice. Tutto qui. A prima vista, almeno ad Aosta, il legame fra le persecuzioni politiche e razziali del Ventennio e la xenofobia di oggi sembra interessare pochissime persone. Eppure una serata così, quasi deserta, merita d’essere raccontata, perché si è rivelata una piccola lezione di storia e di vita e quindi si presta a introdurre questo libro, che vuol essere un viaggio, o forse un’immersione, nell’ordinario razzismo nel quale siamo tutti invischiati, i giornalisti come i semplici cittadini, legati gli uni agli altri da una connessione strettissima.

Gli stereotipi, i pregiudizi, la cinica indifferenza per “l’altro” formano oggigiorno una specie di guazza, che tiene tutti al caldo: i giornalisti nel chiuso delle redazioni, i cittadini davanti alla tv o mentre sfogliano un quotidiano. Una gelatina informe e sfuggente, al punto che se ne percepisce appena la presenza. Questa conferenza è straordinaria anche per un altro motivo: non viene aperta né da un’introduzione né da una relazione, ma con un canto: una ninna nanna in arabo che Imane regala a sua madre e alle altre dodici persone in sala. C’era forse un modo migliore per cominciare una conferenza su media e razzismo nell’Italia del 2010? Un Paese che appena un mese prima aveva assistito a un tentato pogrom contro i lavoratori stranieri in Calabria, sul quale un giornale, anzi il Giornale, ha titolato “Stavolta hanno ragione i negri”. Sì, negri, proprio così, con questa parola caduta in disuso, ma che nell’Italia di oggi è possibile usare per accreditarsi come giornalisti e giornali liberi da tutti i condizionamenti, anche quelli linguistici. Dire negro è un modo per ammiccare al lettore: qui si dice pane al pane, qui non siamo buonisti, qui usiamo le parole che ci pare perché sono quelle giuste per capirci fra di noi. E in quel “fra di noi” suggerito fra le righe c’è l’idea che chi scrive e chi legge forma un microcosmo, o una micro società, di gente tutta d’un pezzo che chiama negri i negri. In una notte che è buia ben oltre il recinto del Giornale, una conferenza che comincia con la melodiosa ninna nanna in arabo -“Tala’ al badr a’lain”, in italiano “Sta sorgendo l’alba su di noi”- di una ragazza neanche diciottenne, è cosa che tutti i presenti custodiranno come un piccolo quanto prezioso dono. Ma appena comincia a parlare, Imane fa uscire tutti dal clima ovattato della sua canzone. Racconta quanto è difficile essere straniera e musulmana nel nostro Paese, nelle nostre scuole. Parla con dolcezza, non enfatizza i fatti, ma racconta piccoli-grandi episodi di razzismo e xenofobia fra i banchi delle medie: chi le dice “torna nel deserto”, chi “musulmani terroristi”. Imane, che vive in Italia fin da bambina e guarda a questo paese con la fiducia di una diciottenne, non riesce a celare l’amarezza. Dice che i ragazzi sanno poco o nulla della sua religione, del suo Paese, della sua cultura: pensano che il Marocco sia un’unica distesa di sabbia, che l’islam predichi la violenza, che vi sia una diversità irriducibile fra mondo cristiano e mondo musulmano. Imane è una ragazza matura, ha sofferto per i pregiudizi dei compagni, ma oggi riesce a descriverli come frutto d’ignoranza e d’immaturità. È sicura, spiega, che una volta cresciuti e superate le ingenuità dell’adolescenza, i ragazzi che la denigrano cambieranno atteggiamento.

Sarà davvero così? O forse c’è il pericolo che pregiudizi, dicerie e slogan diffusi dalla propaganda xenofoba si insedino stabilmente fra i giovani e nella società? È una prospettiva che i genitori e gli insegnanti, oltre che i giornalisti, dovrebbero considerare. Una ricerca commissionata a Swg e Iard Giovani dall’Osservatorio della Camera dei deputati sui fenomeni di xenofobia e razzismo ha rilevato nel febbraio 2010 che quasi la metà dei duemila giovani del campione (fra 18 e 29 anni) ha un “atteggiamento di chiusura” verso gli stranieri: all’interno di questo gruppo (per la precisione 45,8% del campione), quasi la metà (20% del totale) è definito “xenofobo” e un altro 10% (del totale) “ha comportamenti razzisti”. Gianfranco Fini, leader politico con un passato da giornalista, ha commentato così il risultato dell’indagine: “Da presidente della Camera faccio appello per un’informazione che non presti il fianco ad aumentare l’ignoranza. Quando, per comodità espressiva, si titola: violentata donna da un immigrato, specificandone l’etnia, è chiaro che si determina un aumento di quell’ignoranza, nel senso letterale del termine”. Se è vero che banalità, frasi fatte e ingiustificati sentimenti di superiorità circolano fra gli adolescenti, andrebbe capito in che misura ne siano responsabili i media. Forse i giornalisti dovrebbero pensare alle ricadute dei loro articoli e servizi, quando descrivono i migranti, gli stranieri, i musulmani, le minoranze con la superficialità e il linguaggio stereotipato che è diventato abituale nei media. E tutti dovremmo chiederci qual è l’effetto prodotto dalla riproduzione meccanica, senza filtri, dei tanti interventi xenofobi e mistificatori di assessori, ministri, leader politici che usano il fenomeno dell’immigrazione per spaventare gli elettori e raccogliere consensi promettendo “sicurezza”. Imane non ne parla, ma il tema della serata in fondo è questo: l’ “allegra” xenofobia che circola nella società italiana, con il contributo attivo del sistema dei media. La pacatezza di Imane è una lezione di stile.

Per contrasto, il pensiero corre a certi servizi televisivi, a innumerevoli articoli e titoli di giornale confezionati con una materia prima grossolana e inquinata da pregiudizi e faziosità, con un tasso di sensibilità quasi nullo e un quoziente di serietà professionale inaccettabile. Bisognerebbe davvero parlarne, all’interno della categoria dei giornalisti, e insieme a persone come Imane, o come Aleksandra. Appunto, Aleksandra. Bruna, alta, sorridente, vent’anni. È più estroversa di Imane, e anche più esplicita. Racconta la sua storia. Nata in Bosnia, da padre serbo e madre musulmana, una combinazione sgradita alle fazioni in lotta nella guerra civile degli anni Novanta. I genitori decidono di lasciare il paese: Aleksandra, in quel momento, ha tre anni. Si può dire che l’Italia è il solo paese che conosce davvero, Piemonte e Val d’Aosta in particolare. Torna in Bosnia d’estate dalla nonna, conosce la lingua ma la pratica poco: “Ho provato a leggere un romanzo, ma che fatica!”. È al primo anno d’università, studia a Torino. Spiega con un certo impeto che cosa vuol dire sentirsi straniera nel proprio Paese, perché l’Italia è il luogo dove Aleksandra è cresciuta, e che sente come suo: “Compiendo diciotto anni, frequentando l’università, ho scoperto d’essere straniera. Ho bisogno di un permesso di soggiorno, che va rinnovato anno per anno, e ogni volta arriva poco prima di scadere. Devo girare con dei foglietti: sono quelli i miei documenti. Non posso viaggiare, non posso uscire dall’Italia. Molti miei compagni progettano periodi di studio all’estero, io non posso”. Negli occhi di Aleksandra, nel tono delle sue parole, si legge una specie di stupore: la sorpresa di scoprirsi diversa, per ragioni incomprensibili. Il Paese che ha dato rifugio alla sua famigliola fuggita da una guerra, ora rifiuta di considerarla una cittadina con pieni diritti. Perché? Che senso ha? Mentre parla, sua madre si commuove. Per me che sono al di qua del tavolo e che conosco tante storie come quella di Aleksandra, perché di casi come il suo ce ne sono migliaia, l’aggraziata perorazione di questa studentessa è comunque una sferzata, un’altra piccola lezione di umanità, perché le sue parole arrivano mentre discutiamo di leggi razziste di 70 anni fa e di nuove, ma in fondo antiche, discriminazioni. Che futuro può avere un paese in cui metà dei giovani rifiutano gli stranieri, non sono curiosi né di conoscerli né di avere relazioni con loro? Un Paese che spinge persone come Imane, come Aleksandra, in un limbo giuridico ed esistenziale. Giuseppe Caliceti, maestro-scrittore, ha raccolto in un libro (Italiani, per esempio, Feltrinelli 2010) alcuni dei temi dei suoi allievi di origine straniera. Vera, dodicenne di origine albanese, scrive: “Io sono nata in Italia, a Montecchio, però mia mamma e mio papà sono albanesi e allora anch’io sono albanese. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Io vorrei chiedere al maestro due cose. La prima cosa è questa: io sono italiana o albanese o tutti e due? La seconda: ma io sono immigrata o no?”.

Forse dovremmo chiederci se una ragazzina che così ragiona e scrive rientra nello schema del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, firmataria di una circolare che indica un tetto del 30% di bambini stranieri per classe. E che cosa voglia dire essere straniero nell’Italia e nell’Europa del 2010. A queste domande un tecnico risponderebbe che Vera, nata a Montecchio (Reggio Emilia), per quanto priva -presumibilmente- della nostra cittadinanza, è “assimilata” agli italiani nell’interpretazione della circolare fornita dal ministero. Essendo nata in Italia e parlando italiano perfettamente Vera non avrà problemi di apprendimento legati alla lingua. Ma allora perché fingere di non sapere che l’apprendimento della lingua, nei bambini, è rapido e disinvolto proprio nelle classi miste? Caliceti aggiunge un’osservazione: “Chi oggi governa l’Italia non è minimamente interessato a un’integrazione sociale che parta dalla scuola di base ma, in modo certo non disinteressato, trova funzionale mantenere abbastanza alto il livello di ignoranza di fondo della maggioranza dei cittadini e abbastanza alto il livello di scontro sociale, mettendo il più possibile tutti, gli uni contro gli altri, in una guerra fra poveri che indebolisce ognuno di noi, e in particolare i più fragili e i bisognosi”. Il razzismo e il pregiudizio hanno infatti bisogno di un’aria inquinata da sentimenti d’angoscia e incertezza, produzione quotidiana di “imprenditori della paura” che a volte trovano alleati e servitori nel campo dei mezzi di comunicazione e tra gli intellettuali, ovunque esista spazio culturale dove potrebbe attecchire la cattiva pianta del pregiudizio. Caliceti descrive al contrario i ragazzi d’origine straniera come possibili “compagni di viaggio”: il contatto con bambini e adolescenti che vivono fra più culture può rendere infatti possibile un progetto interculturale e creativo che fa sperare in una società democratica per i nostri ragazzi. La serata di Aosta è dunque preziosa: ci aiuta a ricordare che il sistema dell’informazione può diventare una fabbrica di pregiudizi. Dietro le notizie, a valle e a monte di articoli e servizi, si gioca una delicata partita di potere, che condiziona l’intera macchina dell’informazione. Coglierne i tratti salienti è un dovere civico. Esiste una lezione della storia che non può essere ignorata, ma anche un interesse preciso del potere a cancellare la memoria. E ci sono meccanismi, all’interno dei media, che producono notizie, interpetazioni, linguaggi che -per propria natura- si impongono non solo in televisione e sui giornali, ma anche nella vita di tutti i giorni, nel discorso quotidiano pubblico e privato. Nessuno è innocente: non lo sono i giornalisti che si adeguano alle regole imposte dalla fabbrica dei pregiudizi; non lo sono i cittadini che accettano il ruolo puramente passivo che il potere ha scelto per loro. Un imperativo della democrazia è racchiuso nel motto “conoscere per deliberare”, come dire che libertà (e qualità) d’informazione sono tutt’uno con il diritto-dovere d’essere cittadini consapevoli. In tempi di xenofobia e retorica razzista, la conoscenza razionale dei fatti e la qualità dell’informazione sono le prime vittime del potere, che trova complici e alleati a ogni livello della filiera dell’informazione: ai vertici dei media e fra i “soldati” semplici, come fra i cittadini che consumano notizie.

L’obiettivo è la ricerca di una spiegazione esterna al malessere sociale di una società in declino, qual è la nostra: lo straniero, il diverso, le minoranze sono gli obiettivi prediletti, il terminale perfetto dei rancori sociali La via d’uscita tuttavia esiste e passa attraverso due elementi, materia dei capitoli che seguono. Il primo è la conoscenza dei meccanismi che producono l’informazione xenofoba e razzista: un misto di servilismo, smemoratezza, assuefazione che si sostanzia in linguaggi e regole professionali sempre più stringenti. Il secondo elemento è il passaggio dalla conoscenza all’azione: un’opportunità -un dovere civile- che riguarda chi lavora nei media così come i cittadini coscienti d’avere il diritto a un’informazione attendibile e libera. Per questo le prossime pagine parleranno di storia patria e nuovo lessico razzista, di tecniche giornalistiche e strutture di potere, ma anche di campagne d’azione civile e di un possibile “consumo critico dell’informazione”.

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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