Nonluoghi Archivio Il pacifismo è morto

Il pacifismo è morto

[ da www.carta.org dove l’articolo ha aperto un dibattito che prosegue ]

di Enrico Euli

A proposito del rapporto tra i «centrosinistri » e la guerra inviterei a non far finta di credere che sussistano veri spazi di manovra: attendersi una politica pacifista da questo governo è una bufala.
Se anche Lidia Menapace [Carta n.26] inizia a parlare in politichese, possiamo immaginarci i soliloqui di Minniti o di Parisi…
Per loro:
– in Iraq c’è la guerra [nb: definita come tale non perché si bombarda o si uccide, ma perché lo si fa senza l’Onu o la Nato]; l’Italia però è lì, comunque e sempre, in «missione di pace»;
– in Afghanistan non c’è la guerra [non si può definire tale in quanto l’intervento è all’interno della Nato…], ma una missione di pace, che va potenziata [persiste così la «guerra umanitaria», mostro mutante inventato dal pacifista D’Alema per i poveri ex-jugoslavi, e mai abiurato];
– la sfilata militare del 2 giugno [fantasma resuscitato dal pacifista Ciampi] rappresenta il fulcro dell’unità della Repubblica e il simbolo di una logica securitaria a tutto campo, condivisa da entrambi gli schieramenti.

Mi pare che su questi assunti non ci sia timore di essere smentiti da questo governo, né oggi né in futuro. Ma la crisi, l’«inesistenza in vita» del movimento pacifista, deriva solo in minima parte dal suo «non riconoscimento» da parte dei governi [sedicenti «amici» o «nemici» che siano…].
E neppure, a mio parere, da una presunta forza degli avversari [mai come oggi in difficoltà, politica e militare, su tutti i fronti]. La crisi del movimento è soprattutto sua propria. E non è di oggi, e non è italiana. È la crisi, spero definitiva, del Pacifismo, di quel movimento progressista, nato nel 1789, con la Rivoluzione francese, e morto nel 1989, con la caduta del Muro e la prima Guerra del Golfo.

Quali sono [state] le sue caratteristiche portanti? Almeno tre:

1. Il pacifismo giuridico, fondato sulla convinzione che il diritto, attraverso la stesura di trattati e convenzioni, possa controllare e delimitare la guerra. Illusione mortale, ancora oggi coltivata –nonostante il 900 – ad esempio dalla Tavola della Pace [vedi la piattaforma dell’ultima marcia Perugia-Assisi].
Il pacifismo è morto proprio perché continua ad appellarsi ancora oggi, ad esempio, all’articolo 11 della Costituzione o alla Carta dell’Onu. Ma fa riferimento soltanto alle parti che gli convengono [le dichiarazioni ideali iniziali, fiore di qualunque retorica postbellica], ma non a quelle che le implementano operativamente [le alleanze militari o le operazioni di polizia internazionale, che comportano e permettono l’intervento armato in condizioni di legalità formale].
I politici [anche centrosinistri] utilizzano proprio i frutti avvelenati del pacifismo giuridico, facendosi da sempre giustamente sberleffo delle sue interpretazioni illuminate [a mio modesto parere ben più parziali e mistificanti di quelle che giustificano il ricorso alle armi].

2. L’internazionalismo solidale, fondato sulla convinzione che il progresso sia connesso alla crescita economica e che la cooperazione allo sviluppo condurrà ad un mondo benestante e pacifico. Il pacifismo è morto proprio perché non vuole fare i conti con il proprio modello di sviluppo, i propri stili di vita, il proprio «benessere». Il sindacato ha come priorità il lavoro e la produzione, compreso quello nell’industria bellica, e non ha alcuna intenzione di rinunciarci: la pace può attendere. Le Ong e le associazioni sono perlopiù oggi organizzazioni governative, finanziate [poco] con quel che resta dai bilanci di guerra e operanti su progetti ambigui, sempre più collaterali ai politici e ai militari di turno. Come ci si potrebbe attendere un vero movimento per la pace quando le sue forze più strutturate, pur dichiarandosi pacifiste, vivono quotidianamente di sviluppo e di guerra?

3. Il ritualismo espressivo, consistente nell’assunzione di metodologie di discussione, decisione, rappresentanza e rappresentazione politica mutuate dal movimento operaio della fine del XIX secolo [assemblea, sciopero, corteo…].
Il pacifismo è morto perché continua ad incontrarsi e a manifestare come se non fosse cambiato tutto [è sufficiente assistere ad un social forum o ad una manifestazione per verificarlo]. Le pratiche a rete, il metodo del consenso, le azioni dirette «nonviolente» e «disobbedienti», la guerriglia semiologica restano patrimonio di nicchia, talvolta tollerate, ma certo non accolte dalla prassi ordinaria dei movimenti. La pace è meno «forte» della guerra, in primo luogo a un livello mitopoietico, simbolico, estetico. La guerra permea sempre più la nostra vita, la sua «microfisica» profonda e apparente; la pace non persuade, non convince, non attrae, non «prende». È ripetitiva, è spenta, è moralista, noiosa. Quel che sta accadendo oggi nel mondo costringe il pacifismo all’estinzione. La sua attuale crisi non è quindi casuale, né temporanea. Questa «pace» è stata ormai inghiottita, divorata dalla guerra. È sempre stata inscritta in essa, ma oggi possiamo finalmente vedere questo fatto con la massima evidenza, senza più mascheramenti retorici ed ideologici. Soltanto una trasformazione profonda delle sue premesse potrebbe far nascere qualcosa di nuovo.
Marcos si è assunto un compito di questo genere, nelle montagne del sud-est messicano. È un compito immane, che avrebbe bisogno della presenza, dei corpi e dell’intelligenza di molti. Avrebbe bisogno di molto coraggio: le persone e le organizzazioni dovrebbero iniziare a fare quello che temono più di qualunque altra cosa al mondo, anche più della guerra: cambiare. Non è facile e non è probabile che questo accada, soprattutto se si pensa ancora, come da noi, di aver troppo da perdere. Ma sarebbe incredibilmente significativo se proprio qui, in Italia, si iniziasse ad affrontare la crisi ad un livello adeguato, con più franchezza, condivisione, consapevolezza.

Se il movimento fosse capace di avviare una vera autocritica che, da Genova in poi, non è mai avvenuta. Ma forse è chiedere troppo. È più facile fare la questua alle porte del Palazzo, fingendo di credere che lì dentro c’è qualcuno che ci assomiglia e che, se ben chiederemo, ci aprirà.

* Articolo tratto dal settimanale Carta.
Il dibattito continua sulle pagine della rivista e nel suo sito Web

A chi gli chiede se si definisce un pacifista, Enrico Euli risponde sempre no. Eppure alle culture nonviolente e alle politiche di pace ha dedicato tempi, studi e passione, compresa l’attuale esperienza di docente di metodologia e tecnica del gioco presso l’università di Cagliari. Il suo articolo pubblicato su Carta n.27 “Il pacifismo è morto” ha fatto molto discutere in redazione e spiega forse perché Enrico non ama definirsi “pacifista”: secondo Euli le polemiche sula missione in Afghanistan hanno rivelato molti limiti della politica, ma anche alcuni del movimento per la pace. Un movimento, scrive Euli, in crisi perché è in crisi il pacifismo giuridico, fondato sulla convizione che trattati e convenzioni possano delimitare le guerre; ma è in crisi anche il pacifismo secondo il quale lo sviluppo condurrà a un mondo pacifico ed è in crisi il pacifismo che ha fatto suoi linguaggi e rappresentazioni del mondo operaio di fine secolo XIX. Abbiamo chiesto ad alcuni amici di Carta un commento a quanto scrive Euli per promuovere un dibattito. Ecco cosa hanno risposto [inviate i vostri commenti a carta@carta.org ].

nonluoghi

nonluoghi

Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

More Posts

ARTICOLI CORRELATI