Nonluoghi Archivio Rampini dimentica il ruolo delle caste e della religione in India

Rampini dimentica il ruolo delle caste e della religione in India

[da www.ilmanifesto.it del 6 luglio, del quale ricordiamo la campagna di finanziamento in corso per garantire la sopravvivenza del giornale]

di Elisabetta Basile

Con L’impero di Cindia (Mondadori) Federico Rampini esplora le economie di India e Cina per fornire al lettore l’informazione necessaria per affrontare l’egemonia dell’Oriente sui paesi occidentali. Come indianista, mi limiterò a commentare l’analisi dell’India proposta nel libro.
Rampini ha una visione romantica del capitalismo. I capitalisti indiani sono colti e curiosi: innovano per generare la «prosperità» del paese; trasformano in imprenditorialità la propria cultura millenaria – basata sul sanscrito – e in vantaggio competitivo la conoscenza dell’inglese. Quelli di prima generazione provengono dalle élite indiane e sono laureati a Oxford. Quelli di seconda generazione hanno un PhD presso le università indiane, associano alla cultura tecnica una cultura umanistica e letteraria, e sono parte dell’élite internazionale. Rampini parla di un segmento ridotto dell’economia indiana costituito dalle imprese tecnologicamente avanzate che producono per l’esportazione e dimentica la parte maggioritaria del paese: l’agricoltura e gli oltre 4000 distretti artigiani-rurali che producono manufatti nelle campagne indiane (80% della forza di lavoro indiana); e le grandi imprese decentrate che producono per i mercati di massa interni e internazionali. Qui, secondo l’Ilo, le condizioni di lavoro sono «indecenti» per sicurezza e salubrità; il tessuto produttivo è formato da piccole imprese non registrate a fini fiscali, che sfuggono ai controlli dello stato su condizioni di lavoro, qualità del prodotto, impatto sull’ambiente; il lavoro è occupato in modo informale, senza contratto, ed è licenziabile senza causa. (Secondo l’International Development Centre di Oxford, in India oltre il 94% del lavoro è informale e la quota è cresciuta del 10% durante la liberalizzazione.)
Il sindacato è un lusso che solo i dipendenti pubblici (una quota ridotta delle forze di lavoro impegnate nel settore formale) possono permettersi. Nel settore informale, è assente o asservito alle élite dominanti. Il lavoratore informale non ha nessuno dei diritti riconosciuti al lavoro nel capitalismo occidentale. Nella campagna urbanizzata, dove crescono le piccole imprese artigianali che sono la base dell’economia indiana, l’informalità sconfina nella schiavitù. Qui, i capitalisti sono distanti dalla descrizione fatta da Rampini. Sono individui radicati nel mondo dell’usura e del commercio, che usano la corruzione nei loro rapporti con lo stato per evitare i controlli; che impiegano guardie del corpo per proteggere la loro ricchezza e controllare i lavoratori; che usano la famiglia, il clan, la casta, la religione per tessere rapporti economici e politici. Non hanno bisogno di innovare e in alcuni comparti (ad esempio quello tessile della seta) il livello della tecnologia impiegata tende a ridursi nel tempo. Non hanno incentivi a investire e la competitività è basata sul contenimento del costo del lavoro, basso e comprimibile grazie ai meccanismi dell’informalità.
Non vi è un confine netto fra capitalismo periferico e capitalismo metropolitano, fra economia formale e economia informale. Poco distante dal distretto del software di Bangalore c’è Tiruppur, distretto per la produzione di biancheria. Pur producendo profitto e occupazione, Tiruppur è noto come «inferno» per le condizioni di vita e sfruttamento. Agra, non distante da Jaipur, è un distretto calzaturiero integrato nel mercato nazionale e globale: la produzione avviene all’interno di sweatshops, laboratori artigianali in cui le scarpe sono prodotte con tecnologie primitive e molto «sudore» umano. Qui non opera il circolo virtuoso del capitalismo (progresso tecnico, imprenditorialità, istruzione). La ricchezza e la crescita sono il prodotto di informalità, sfruttamento e arretratezza tecnologica, che sfociano in uno sviluppo senza le qualità celebrate dai teorici del capitalismo illuminato.
La base culturale di questo capitalismo non è l’India classica – il sanscrito e la filosofia – ma la religione usata come strumento di regolazione sociale. Le caste, «reinventate» nel 1990 con la politica delle quote per le caste basse, sono uno strumento politico ed economico. Sociologi indiani come Béteille e Srinivas hanno evidenziato la riduzione del ruolo religioso del sistema castale a favore della sua funzione sociale. I network castali svuotano il mercato del lavoro anche nei segmenti più «formalizzati» dell’economia indiana (nel distretto del software la presenza di bramini si spiega più con i collegamenti castali che con la predisposizione verso i lavori intellettuali delle caste alte). Ma sono oggi soprattutto un potente strumento politico. La rappresentanza politica avviene sempre più su base castale. È un errore credere che l’esistenza di partiti costituiti dalle caste basse sia un segnale della fine prossima del sistema castale. Semmai, il contrario.
La rinascita (a partire dagli anni ’80) dei conflitti comunitari rafforza questa tendenza. Il comunitarismo – la convinzione che individui appartenenti a una stessa comunità religiosa condividano interessi politici ed economici – è all’origine di sanguinosi conflitti. La vittoria del partito del Congresso nelle ultime elezioni politiche ha solo oscurato il processo ma ci sono molti segnali della intensificazione delle tensioni comunitarie nelle campagne. Anche l’appartenenza comunitaria è strumento di regolazione economica che svuota il mercato del lavoro, creando un network non economico per il reclutamento dei lavoratori. Come le caste, le comunità hanno un ruolo ideologico che si manifesta nella repressione nei ceti bassi della consapevolezza della propria subalternità. L’uso ideologico della religione spiega il basso livello di sindacalizzazione e il consenso sociale verso un capitalismo che fa profitti sullo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente.
Il libro di Rampini non dice nulla di questa realtà e ci porta su di una strada sbagliata per la comprensione del capitalismo indiano e le gravi contraddizioni dell’India: la convivenza fra elevati tassi di profitto e diffusa povertà urbana e rurale; il contrasto fra la laicità dello stato voluta da Nehru e l’uso della religione come strumento di regolazione sociale; l’assenza di democrazia economica in un paese che ha fatto della democrazia politica la propria bandiera, ma nel quale le masse lavoratrici vivono in condizioni spesso disumane; la corruzione di una classe imprenditoriale che non ha bisogno di innovare, perché dispone di un enorme esercito di lavoratori precari e informali, e che evita controlli sulla propria attività.
Queste contraddizioni evidenziano il lato vero del capitalismo indiano, molto lontano dall’immagine romantica descritta da Rampini. È una varietà di capitalismo contemporaneo che può assumere una particolare durezza perché si coniuga – trasformandole – alla cultura e alle istituzioni indiane. Ciò che appare chiaro è che per comprendere la natura e il funzionamento di questo capitalismo non basta osservare il comportamento di alcune élite, ma bisogna esplorare la struttura sociale ed economica dell’India – nelle campagne come nelle città – e osservare come essa interagisce con le leggi dell’economia capitalistica.

nonluoghi

nonluoghi

Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

More Posts

ARTICOLI CORRELATI