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Equo commercio, non aiuto…

Tratto dall rivista Una Città – www.unacitta.it
Il successo del commercio equo e solidale dimostra che si può fare qualcosa di diverso da quel neoliberismo che ha provocato disastri a non finire. La suddivisione del rischio che non si consiglia mai ai produttori del Terzo mondo. La difficoltà a commercializzare prodotti non “coloniali”. Il rischio di un’intransigenza autoreferenziale che perda di vista l’obiettivo di dimostrare che un’alternativa è possibile.
Intervista a Fabio Gavelli e Lorenzo Guadagnucci. Fabio Gavelli e Lorenzo Guadagnucci, giornalisti, sono gli autori del libro La crisi di crescita. Le prospettive del commercio equo e solidale, Feltrinelli.

Il commercio equo e solidale attraversa una fase di boom, eppure rappresenta solo una piccolissima parte del commercio internazionale: potrà mai raggiungere volumi significativi?

La crescita è stata davvero impetuosa, in Italia soprattutto. In pochi anni si è raggiunto un giro d’affari che si può stimare vicino ai 50 milioni di euro all’anno. Oggi le Botteghe del Mondo sono 450, mentre alcuni alimenti equosolidali, banane, cioccolato, caffè, tè, riso, succhi di frutta, miele e palloni, si vendono in 3500 punti vendita della grande distribuzione. 70.000 studenti consumano alcuni di questi prodotti nelle mense scolastiche, mentre aziende e università hanno sostituito i tradizionali dispencer di caffè e dolciumi con quelle fornite dal commercio equo. Una recente ricerca ha indicato che nel 2003 circa 7 milioni di italiani hanno fatto almeno un acquisto di questi prodotti e un milione si dichiara acquirente abituale. Se si pensa che appena una decina d’anni fa c’erano solo poche decine di Botteghe del Mondo piccole e quasi sconosciute, si ha già una misura di questa impennata. E’ vero che, nonostante tutto, a livello mondiale il commercio equo probabilmente non va oltre lo 0.01% degli scambi complessivi. Ma questo non deve confondere. Il suo significato è molto superiore al suo volume, basta riflettere su un punto. I sostenitori del sistema economico attuale, basato su mercato, concorrenza, privatizzazioni, sostengono che non esistono alternative praticabili. Eppure il commercio equo e solidale dimostra con trent’anni di esperienza in Europa e 5 milioni di famiglie di produttori del Sud del mondo, che i dogmi del Mercato Liberista possono benissimo essere disattesi e che un modello che si fonda su altri presupposti funziona. Il raggiungimento di volumi molto più grandi dipende soprattutto da due fattori: l’arrivo di nuove famiglie di prodotti sul mercato e l’ancor maggiore diffusione tramite la grande distribuzione. I tessili, i cosmetici, i mobili e i casalinghi sono le nuove frontiere, già in parte sperimentate. Quanto ai supermercati, è lo stesso movimento che “frena”: si teme che siano le scelte delle maxi catene commerciali a impadronirsi del commercio equo, inoltre la vendita dei prodotti equi a fianco di quelli sotto boicottaggio è ancora fieramente avversata da tanti volontari e militanti.

Chi conosce il commercio equo è abituato al caffè, al tè, al cioccolato. Prodotti di larga diffusione, ma non abbastanza da incidere sul grosso dei consumi delle famiglie. Perché i prodotti industriali sono rimasti fuori finora?

Non è un caso se le importazioni sono iniziate proprio con i beni cosiddetti coloniali. Per milioni di agricoltori e artigiani dei Paesi poveri sono ancora la base del loro sostentamento. Però i prezzi del caffè, del tè o del cacao, per fare un esempio, sono fissati sulle Borse internazionali e sono soprattutto il risultato delle scelte dei grandi gruppi transnazionali. Quando il prezzo crolla, come è accaduto per molti di questi beni negli ultimi anni, decine di milioni di famiglie precipitano nella disperazione. Ecco perché il commercio equo, come sostengono molti produttori, è l’unica possibilità di sopravvivenza. Tuttavia per tentare di incidere sulle regole del gioco del commercio internazionale, bisognerebbe misurarsi con prodotti di largo consumo, che sono il frutto di processi industriali. E qui nascono i problemi. Il primo è legato al fatto che tra i criteri che gli importatori del commercio equo chiedono ai produttori c’è quello di avere una struttura democratica. E infatti tante sono cooperative, piccoli gruppi o comunità di villaggio. Ma oggi c’è chi si accontenta di criteri meno rigidi pur di affrontare questo tema. Si può avere come interlocutore un’azienda, se questa si impegna a rispettare parametri economici, sociali e ambientali che sono quasi la normalità in Europa, ma in Asia o in America Latina rappresentano un grande passo avanti?
Sono nati con queste premesse i progetti che hanno portato in Europa i palloni e i jeans “etici”, presto arriveranno altre linee di abbigliamento. Un jeans o una scarpa sportiva prodotti senza lo sfruttamento dei lavoratori e venduti in Occidente con un marchio ben riconoscibile, sarebbero probabilmente un successo. Ma un controllo “etico” di tutta la filiera di un prodotto industriale soggetto a varie lavorazioni, da parte di diverse imprese sparse in giro per il mondo, è molto complesso. E i problemi non sono finiti. Vendere scarpe o vestiti comporta uno sforzo notevole per le Botteghe del Mondo, in termini di assortimento, spazi nei negozi, capacità commerciali. C’è chi ritiene che non sia ancora il momento per tentare questo salto.

In che modo la recessione economica può incidere sulla diffusione del commercio equo e solidale? Le famiglie hanno meno potere d’acquisto: taglieranno gli acquisti equosolidali?

Questo è un punto molto importante e delicato. L’Italia, come buona parte dell’Occidente industrializzato, sta vivendo negli ultimi mesi -diciamo nell’ultimo anno- una fase di evidente difficoltà economica diffusa. I consumi stanno lentamente calando, e quando questo non avviene è perché si fa ricorso a “droghe” come l’estensione del credito al consumo, ma è chiaro che siamo in un momento in cui molte famiglie sono obbligate a tenere sotto controllo le proprie spese. Per il commercio equo questo periodo di recessione può essere una piccola cartina di tornasole. La crescita impetuosa del 2002 e del 2003 può essere ripetuta? E soprattutto: gli acquisti fatti in bottega sono considerati un lusso, qualcosa che si può eliminare quando è necessario tenere sotto controllo il portafoglio? Sarà molto interessante vedere quale sarà il bilancio complessivo del commercio equo nel 2004. I primi dati disponibili dicono che le cifre degli ultimi anni non saranno ripetute, ma senza che ciò metta in difficoltà la rete delle botteghe e degli importatori, che possono contare su una base larga e diffusa di consumatori che fanno acquisti regolari. Il commercio equo si porta dietro la nomea d’essere una pratica per benestanti, per i prezzi alti dei suoi prodotti e per le merci spesso voluttuarie che offre (il riferimento, in questo caso, è principalmente all’artigianato). Questo è vero solo in parte. I prezzi dei principali prodotti -pensiamo a caffè, tè, banane- sono assolutamente competitivi con quelli dei prodotti “non equi” di pari qualità. Questo è il punto: la qualità. Il caffè del commercio equo, ad esempio, va confrontato con quelli di prezzo più alto delle normali marche, perché è biologico e della migliore qualità, l’arabica. In questa fascia di prezzo il caffè equo è concorrenziale. E’ vero naturalmente che nelle botteghe non si trovano miscele a basso prezzo. Il motivo è evidente: si ricompensano equamente i produttori, non si lucra, non si fanno economie di scala, non ci si accaparra partite di bassa qualità e basso costo, come avviene sul mercato tradizionale, e quindi il caffè “primo prezzo” -per usare il gergo dei supermercati- non esiste. Questa scelta -la qualità assoluta di tutti i prodotti- ha un forte valore politico. Non ha niente di snobistico. Viviamo in un’epoca in cui l’agroindustria sta trasformando la nostra alimentazione, obbligandoci a mangiare prodotti di qualità sempre peggiore, spesso con l’esca del prezzo basso. Il buon cibo, prodotti ottenuti secondo tecniche sicure, viene così trasformato in lusso e venduto con grandi sovrapprezzi. La verità è che chi fa parte di un gruppo di acquisto solidale e si rifornisce da produttori della sua zona, che conosce di persona, quindi sapendo bene cosa mangia e con ampie garanzie che si tratti di alimenti della migliore qualità, così come chi consuma caffè o banane equosolidali, è in qualche modo un anticipatore di una linea di resistenza che sarà sempre più importante con il passare del tempo. L’opposizione al progetto non dichiarato di renderci succubi di un modello agroindustriale senza qualità -ad alti profitti ma senza garanzie sotto il profilo sanitario ed ambientale- è un passaggio decisivo per la costruzione di un’economia di giustizia. Se il commercio equo riuscirà a passare indenne dalla crisi dei consumi, e quindi continueremo a vedere nuove botteghe e nuove iniziative, vorrà dire che ha ben lavorato in questi anni, gettando le premesse per uno sviluppo di lungo periodo, saldo e duraturo.

Fondo monetario e Banca mondiale spingono i Paesi poveri ad aprirsi agli scambi internazionali e incrementare le esportazioni. Nel libro riportate anche idee diverse.

Secondo la teoria economica neoclassica, non ci sono dubbi. La dottrina dei “vantaggi comparati” di Ricardo dice in sostanza che se il Messico ha attitudine a produrre caffè, deve farlo al massimo, perché esportandolo si procurerà più beni di quanti sarebbe in grado di produrre “in casa”. Questa teoria, applicata come spesso avviene in modo rigido e ideologico, ha generato vari disastri, il più evidente dei quali è la monocoltura, di cui ha scritto Vandana Shiva, che è una delle più contrarie. Il Sud del mondo nel corso degli ultimi decenni si è ricoperto di grandi piantagioni che quando il mercato non tira o è in flessione, come è accaduto anche recentemente, si trasformano in un deserto di disperazione. Curioso che gli stessi economisti che al Nord predicano la diversificazione dei rischi e degli investimenti, al Sud promuovano ricette opposte. Il commercio equo nasce col motto “Trade not aid”, dunque in generale incoraggia l’export dei Paesi poveri, cercando tuttavia di valorizzare le loro risorse e di evitare il rischio della monocoltura.
Ma va detto che negli ultimi anni si stanno sviluppando decisamente i progetti interni alle economie del Sud, partnership incoraggiate e promosse dalle stesse organizzazioni del commercio equo. L’obiettivo è di costruire mercati regionali, a forte impatto sociale oltre che economico, che lascino l’intero valore aggiunto nei Paesi coinvolti.

Che rapporti ci sono fra il commercio equo e solidale e il movimento di Porto Alegre?

Se guardiamo alla breve storia dei forum sociali, notiamo che col passare del tempo i temi del commercio equo e del consumo critico si sono progressivamente imposti. Al primo forum mondiale, nel 2001, gli esponenti del commercio equo italiano e di qualche altro paese erano presenti, ma non figuravano nel programma ufficiale. Nel 2002, sempre a Porto Alegre, è stato organizzato il primo workshop, che ha aperto la strada a una presenza più numerosa e ad altre iniziative negli appuntamenti successivi. L’avanguardia del movimento del commercio equo e solidale è ben consapevole che la dimensione politica è fondamentale per gettare un ponte fra la critica, spesso radicale, all’attuale sistema economico e finanziario e quella rete di esperienze e movimenti che hanno messo in piedi delle risposte concrete, direi delle buone pratiche, che vanno in un’altra direzione. Non tutti i soggetti del fair trade però condividono questa impostazione, e c’è chi si tiene alla larga dell’arengo politico. D’altra parte alcuni spezzoni del movimento di Porto Alegre -pensiamo a quelle aree che si richiamano esplicitamente alla tradizione comunista, ai Cobas, all’area dei centri sociali, per restare al panorama italiano- hanno avuto una certa diffidenza nei confronti del commercio equo e solidale. La mia impressione è che sia visto come un’iniziativa che si muove nell’alveo del sistema capitalista, insomma gruppi di buona volontà che non hanno abbastanza forza d’urto. Negli ultimi tempi mi pare stia cambiando qualcosa, ma i retaggi di questo pregiudizio culturale si avvertono ancora. E’ un grave errore, perché in realtà il commercio equo è il soggetto economico che finora ha dato i risultati più concreti, estesi e credibili per dimostrare che lo slogan “un altro mondo è possibile” non è l’ennesima utopia, ma una proposta percorribile. E ciò perché la forza degli ideali non ha impedito di realizzare progetti e accettare nuove sfide, pur scontando il peso dei compromessi. Sotto questo profilo, il ruolo di centrali d’importazione come Ctm Altromercato e Roba, che recitano ruoli non secondari in tutti i forum, mondiali e continentali, mi sembra importante anche per temperare con la loro capacità di azione, una certa deriva verbosa e velleitaria che ogni tanto affiora.

Perché i movimenti che mostrano un grande dinamismo e una indubbia presa soprattutto nei confronti delle nuove generazioni, non hanno ancora una rappresentanza politica?

Le ragioni probabilmente sono numerose, sia interne al movimento che legate all’ambiente esterno. Di sicuro scontiamo l’eredità delle culture politiche novecentesche, tutte concentrate sulle dinamiche di potere. Questo movimento, nella sua parte più innovativa e rivoluzionaria, ha una concezione del cambiamento che non passa per i luoghi classici della politica, ma che svolge un’intensa attività di base, con un lavorio che insiste sulla necessità di mettere in gioco per prima cosa se stessi e poi i luoghi in cui ciascuno svolge la propria vita. Il momento politico in senso proprio è percepito come distante. Oggi si guarda più agli zapatisti che alla politica intesa nel senso più classico. Si ha la sensazione che sia prima necessario un grande investimento di tipo sociale e culturale, per mettere in circolazione nuovi punti di vista, un modo diverso di “leggere il mondo”. In alcuni momenti questa impostazione si rivela un limite, perché l’assenza di una rappresentanza politica è anche una debolezza e può mettere a repentaglio questo grande patrimonio di competenze e di passioni. Ma ci sono segnali positivi. La cultura antiliberista, l’idea che i concetti di limite, di eguaglianza, di libertà vadano declinati su scala globale stanno piano piano facendo breccia. Si assiste già oggi a una trasformazione della cultura politica, grazie al lavoro svolto in questi anni. I temi di Porto Alegre, in sostanza, non sono più patrimonio di una ristretta minoranza ma questioni che via via s’impongono nella società e anche nelle cittadelle della politica.

Avete citato il caso di Ctm: volumi e aziende più grandi comportano anche compromessi. Il gioco vale la candela?

Dipende da qual è l’obiettivo. Se si vuole provocare un profondo cambiamento economico e culturale nelle nostre società e promuovere uno sviluppo per i Paesi poveri con i tratti dell’equità, del rispetto per le persone e per l’ambiente, è inevitabile affrontare problemi sempre maggiori e farsi carico delle contraddizioni. Un esempio per tutti: importare beni da migliaia di chilometri comporta costi ecologici e ambientali. Ha senso farlo? Finora penso che la risposta sia positiva, ma il problema resta e infatti la novità degli ultimi anni è che accanto a un filone Sud-Nord si stanno sviluppando reti Sud-Sud, dove lo scambio commerciale e le partnership rimangono all’interno degli stessi Paesi e comunque nell’area geografica di riferimento. Altro caso emblematico è quello dei supermercati. Una parte dei militanti è decisamente contraria al fatto che vi si vendano i prodotti equosolidali. Ma è pur vero che anche grazie a questo canale distributivo si permette a milioni di produttori di avere un’alternativa al mercato che li strozza. Si sta viaggiando su un versante delicatissimo, perché si rischia di svilire il messaggio oppure di farlo regredire al semplice atto di testimonianza. Dicevamo infatti degli scopi.
Per alcuni gruppi l’obiettivo purtroppo sembra l’impegno in un’azione radicale, che più è estrema e di rottura col sistema e più gratifica. Durante un incontro con i soci di una cooperativa abbiamo sentito obiettare che il problema attuale del commercio equo è che è diventato troppo grande e diffuso. Ecco, occorre dire chiaramente che se il fair trade si riduce a uno strumento adatto a risolvere crisi di identità, si confonde il mezzo col fine e si dimentica che il primo obiettivo è migliorare le condizioni di vita dei popoli sfruttati.

Come stanno reagendo le multinazionali al successo di mercato, sia pure di nicchia, dei prodotti del commercio equo e solidale?

Rudi Dalvai, che è con Heini Grandi e Antonio Vaccaro uno dei tre fondatori del commercio equo e solidale italiano, quest’estate a Bolzano, durante una serata di presentazione del libro, ha raccontato un episodio risalente a poche settimane prima. Rudi oggi è presidente di Ifat, l’organizzazione internazionale che riunisce produttori, importatori e distributori del fair trade, e in questa veste ha partecipato a un incontro tecnico che si è tenuto a Roma, organizzato dalla Fao.
All’incontro si parlava in particolare del lavoro nelle piantagioni di banane e si intendeva mettere a fuoco il contributo che il commercio equo potrebbe dare alle strategie di lotta alla diffusione della fame nel mondo. La cosa sorprendente è che fra i partecipanti c’era un alto dirigente della Chiquita, una delle multinazionali che controllano la filiera delle banane. Questa filiera, come sappiamo, ha caratteristiche ben precise: un controllo stretto da parte di quattro-cinque multinazionali; condizioni di vita e di lavoro pesantissime nelle piantagioni; uso massiccio di sostanze chimiche; controllo, da parte delle stesse multinazionali, anche del sistema di trasporto, con la proprietà diretta delle navi bananiere; barriere normative internazionali all’accesso di nuovi produttori. Ebbene, Rudi ha raccontato del suo stupore nell’ascoltare questo dirigente che esponeva l’intenzione da parte di Chiquita di applicare in alcune piantagioni i criteri del commercio equo e solidale. Ha anche aggiunto che questo dirigente si è rivolto a lui facendo notare che Chiquita sarebbe stata anche più rigorosa di certi produttori già inseriti nei circuiti del fair trade. Questo episodio è interessante e inquietante al tempo stesso. Da un lato dimostra che il commercio equo ha messo in allarme questi giganti che a prima vista paiono inattaccabili. Da quando il fair trade, con molta fatica, è riuscito a inserirsi nella filiera delle banane acquistando alcune licenze da operatori minori, ha rapidamente dimostrato che è possibile importare e vendere banane garantendo i diritti dei lavoratori e la tutela dell’ambiente. La banana equa ha anche smascherato il protezionismo che tutela le multinazionali. E soprattutto i consumatori del Nord del mondo hanno apprezzato la novità. Oggi la banana è il prodotto di maggiore successo del commercio equo: è stato il primo in Italia a superare la barriera dell’1% rispetto alle vendite totali, e ormai si avvicina al 2% con punte del 4% in Alto Adige (in Svizzera siamo sopra al 10%). L’aspetto inquietante è che un eventuale ingresso di Chiquita nel commercio equo potrebbe mettere a soqquadro l’attuale sistema del fair trade. Pensiamo a che cosa potrebbe accadere se Chiquita lanciasse una grande campagna pubblicitaria per la sua banana equa. Con i mezzi di cui dispone potrebbe facilmente imporsi e cacciare dai supermercati le altre banane del fair trade, facendo crollare le strutture che ne curano produzione, importazione, distribuzione. Per raggiungere questo risultato, a Chiquita basterebbe la “conversione” di una piccola parte della propria produzione: con poca fatica, potrebbe cancellare un fastidioso concorrente. Certo, per ora sono supposizioni, e si potrebbe far notare che avere contagiato Chiquita è comunque un risultato positivo: se anche una piccolissima parte della sua produzione rispettasse i criteri del fair trade, molti lavoratori ne trarrebbero benefici. Purtroppo la storia delle grandi corporation induce al pessimismo. Più in generale l’esempio della Chiquita è il segnale di un fenomeno più vasto: la nicchia di mercato costituita dal fair trade è sicuramente appetitosa per le grandi aziende. Anche loro hanno capito che fra i consumatori si sta diffondendo una nuova sensibilità per gli aspetti sociali e ambientali della produzione delle merci, per cui hanno necessità di intercettare questa sensibilità. Dal punto di vista del fair trade c’è un pericolo doppio: operazioni di killeraggio come quella che teoricamente Chiquita potrebbe attuare, oppure -più insidiosamente- uno svuotamento del valore politico del commercio equo e solidale, che non è semplice rispetto di alcuni criteri di produzione, importazione e distribuzione.

Nel libro delineate una nascente rete di economia solidale, che comprende anche la finanza etica, i gas etc. Ma la partecipazione a questi movimenti non sarà sempre patrimonio di una quota del tutto minoritaria dei cittadini?

Il commercio equo, almeno nella sua accezione più forte e radicata, si colloca in un filone culturale e politico che sviluppa in vari modi una forte critica al sistema economico oggi dominante. Questo filone è convinto che l’attuale sistema di produzione non abbia futuro, in primo luogo per ragioni ecologiche: non ci sono risorse sufficienti a sostenere economie che si basano sul meccanismo della crescita quantitativa. Questo filone sostiene anche che la globalizzazione liberista, ormai dominante, accresce le diseguaglianze e condanna la maggior parte della popolazione mondiale a vivere nella povertà o in condizioni di grandi privazioni. Perciò il commercio equo è parte di un movimento che punta a costruire un sistema produttivo diverso. E’ l’idea dell’economia di giustizia. Si tratta di un progetto in cui gli aspetti economici sono tutt’uno con quelli politici. Perciò potremmo vedere le cose in questo modo: non si tratta di nicchie di mercato, o di scelte di consumo possibili solo per un’élite, ma di un laboratorio aperto, in cui si praticano e si sperimentano forme diverse di produzione, commercio, consumo. E’ vero che oggi questo movimento per un’altra economia ha una limitata diffusione sociale, ma è altrettanto vero che ha saputo darsi strutture sempre più forti e un’elaborazione convincente. Potremmo guardare a questo mondo, a queste reti nascenti, come a una palestra in cui potrebbe forgiarsi una nuova generazione di cittadini e di soggetti economici consapevoli, una generazione di persone non rassegnate all’idea che il sistema economico oggi dominante sia l’unica cornice all’interno della quale è possibile operare. Certe tendenze dell’economia generale, come i crac finanziari, i dubbi suscitati dagli ogm, casi clamorosi come la mucca pazza, stanno scuotendo molte certezze. E’ chiaro che queste reti, per diffondersi e radicarsi, dovranno dimostrare che un’economia di sobrietà è raggiungibile con il consenso delle persone, che la loro proposta non è un invito al sacrificio, alla penitenza, a qualcosa di punitivo, ma un’ipotesi di vita in cui è possibile combinare stili di vita sostenibili con un maggiore grado di partecipazione sociale, di convivialità, di felicità. E’ chiaro poi che per andare oltre la dimensione soggettiva e psicologica dei piccoli gruppi, occorre cimentarsi anche con le questioni strategiche del nostro tempo, e non solo con i consumi alimentari o la destinazione dei propri risparmi.
Ad esempio si dovrà immaginare una risposta credibile all’ormai certa demolizione del sistema pensionistico al quale siamo abituati. Forse, in un’economia di relazione, saranno recuperabili anche esperienze antiche, come il mutualismo, e l’intera esperienza del movimento cooperativo degli albori. Ma questo è un percorso ancora tutto da costruire.

Il commercio equo è davvero un’alternativa o è una delle tante forme che il mercato può permettere e tollerare?

Gli economisti che si avvicinano al commercio equo e solidale, anche quando ne apprezzano finalità e risultati, non mancano mai di far notare che siamo di fronte a un “correttivo” di certi mal funzionamenti del mercato. Qualcuno ha parlato di “capitalismo ben temperato”, per indicare la funzione “sociale” del fair trade, che in sostanza entrerebbe in azione laddove il mercato classico non riesce ad arrivare. In sostanza il commercio equo, occupandosi elettivamente dei produttori marginali normalmente esclusi dall’economia ufficiale, compenserebbe una lacuna, e perciò sarebbe perfettamente compatibile con l’economia capitalistica e in definitiva anche con la globalizzazione liberista, visto che in questo preciso contesto il commercio equo è cresciuto e si è affermato. Gli economisti dicono anche che il commercio equo, e in particolare il principio del prezzo equo -che viene cioè fissato a un livello tale da garantire una vita dignitosa ai lavoratori, indipendentemente dalla quotazioni ufficiali- costituisce una forma mascherata di sussidio alla produzione. Un sussidio che può anche essere politicamente e socialmente opportuno, ma che rappresenta di per sé una distorsione del mercato, con effetti quindi negativi -almeno in teoria- sull’efficienza complessiva dell’economia. In questa visione il commercio equo è sicuramente tollerabile dal sistema, che alla fine addirittura se ne avvantaggia per finalità sociali. Non solo: il commercio equo può continuare ad esistere in quanto limitato a esperienze di nicchia, in cui sussidi e distorsione del mercato si mantengono entro limiti accettabili, privi di influenza sul sistema generale.
Tutto questo, da un punto di vista teorico, può essere anche vero, ma la questione centrale è un’altra. Il commercio equo, come abbiamo detto finora, non è una semplice tecnica di importazione di alcuni prodotti, ma un movimento d’intervento economico e politico che mira a una radicale trasformazione sociale. Il commercio equo è lì per dire che non ha molto senso discorrere di distorsioni di mercato, di funzione del prezzo, di incontro di domanda e offerta, quando nell’economia reale si fanno esperienze che hanno ben poco a che fare con la concorrenza perfetta o il libero mercato. Il prezzo equo potrà anche essere un sussidio ai produttori, ma quando sul cosiddetto libero mercato il prezzo del caffè fissato alle Borse merci di Londra e New York ha oscillazioni vorticose fino a scendere per lunghi periodi sotto i costi di produzione, magari per effetto di speculazioni finanziarie, ecco che il prezzo fisso praticato dal commercio equo diventa una strategia in grado di dare risposte migliori dell’impoverimento improvviso di centinaia di migliaia di lavoratori.
Il commercio equo in questi anni ha svolto anche una funzione importantissima di svelamento dei meccanismi di sfruttamento e di falsificazione propri dell’economia dominante. Un’economia che ad esempio teorizza il libero mercato ma pratica nei fatti il protezionismo a vantaggio dei più forti; che invoca la libera circolazione dei capitali salvo poi provocare dissesti finanziari giganteschi, fino a causare il fallimento di un intero paese, com’è accaduto in Argentina.
Il commercio equo, nel suo piccolo, in questi anni ha dimostrato che è possibile mettere in piedi filiere produttive fra Nord e Sud del mondo in cui i diversi soggetti -produttori, importatori, consumatori- possono avere rapporti tendenzialmente paritari, basati sul reciproco rispetto, pur nelle grandi diversità che esistono fra Nord e Sud del mondo. Di per sé, è evidente, il commercio equo non è un’alternativa di sistema, ma è un preziosissimo esempio che ci serve a capire quanto sia menzognera la tesi diffusa dai poteri economici e politici, e anche dalla classe degli economisti (salvo rarissime eccezioni), secondo cui l’attuale sistema economico è l’unico possibile. Tutti agiscono, pensano, magari propongono correttivi, avendo come assunto di base l’idea che questo sistema non ha alternativa. Il commercio equo ci sta dicendo che è invece possibile non solo immaginare ma anche cominciare a costruire qualcosa di radicalmente diverso. Avvolti come siamo da un sistema di consumi che ci stordisce, ci siamo adattati all’idea che il capitalismo liberista sia l’unica cornice di riferimento. E’ l’idea che permea ormai anche l’azione dei partiti della sinistra storica.
(…)
Tratto dall rivista Una Città – www.unacitta.it

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