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Cosa vuole Montezemolo? I nostri salari

da www.liberazione.it

di Giorgio Cremaschi

Ma quanta concordia nelle analisi sui guai del Paese! Dalla Confindustria alla Banca d’Italia, dal Corriere della Sera, al Sole 240re, ad economisti ed intellettuali, è un coro quasi unanime quello che lamenta la crisi strutturale del sistema economico italiano. Un coro che suscita entusiasmi nel segretario dei Ds, e fa invece inviperire quella parte del centro destra, il presidente del Consiglio prima di tutto, che ha deciso di negare la realtà. In questa pessima campagna elettorale, anche su questo c’è un giudizio generalmente concorde, solo il dominio radiotelevisivo delle sciocchezze impedisce che il governo attuale sia travolto nella rabbia e nel ridicolo generale. In ogni caso c’è da sperare che tra un mese i cittadini, come il bambino della fiaba di Andersen, rendano definitivamente evidente che il re è nudo. Se e quando questo avverrà, scopriremo allora che tante convergenze di analisi mascherano profonde divergenze di giudizio e di proposta.

Il presidente della Confindustria, in un’intervista, ha delineato un vero e proprio manifesto del liberismo post Berlusconi. Si chiedono nuove privatizzazioni e liberalizzazioni, in particolare nel settore dei servizi, compresi quelli essenziali (si fa l’esempio delle farmacie pubbliche). Si rivendicano tagli alla spesa pubblica e riduzioni fiscali e naturalmente del costo del lavoro. Si afferma la necessità di una nuova centralità dell’impresa – non basta mai evidentemente -, e si propone meno contratto nazionale e più “collaborazione” nelle relazioni sindacali.

A sua volta il nuovo governatore della Banca d’Italia si fa lanciare dal Corriere della Sera come il nuovo campione del mercato della libera concorrenza, dopo i guai provocati dal protezionismo casereccio del suo predecessore. L’Italia deve uscire dalla crisi prima di tutto aumentando la produttività, dice il governatore. E il punto sta tutto qui. In questo semplice indice matematico, la produttività, sono contenute tutte le astratte convergenze e i reali conflitti che si annunciano dopo l’auspicata e generalmente concorde mandata a casa di Berlusconi. Infatti né il governatore della Banca d’Italia né tante altre voci autorevoli, chiariscono cosa intendono, quando rivendicano il miglioramento della produttività. Se esso debba avvenire con la crescita del valore del suo numeratore, (i servizi e i beni prodotti) o calando quello del denominatore (i salari).

Che l’Italia abbia perso competitività è un dato di fatto. Che nel passato il recupero di essa sia avvenuto soprattutto con la svalutazione delle monete e con l’ampiamento del deficit pubblico oltre che con la compressione delle retribuzioni, è altrettanto vero. Oggi però le prime due strade non sono più percorribili, se non a costi superiori ai risultati. Senza nulla togliere alla necessaria critica alle politiche dell’Europa di Maastricht e della Banca centrale, non si può certo pensare oggi di tornare alla finanza pubblica allegra degli anni Ottanta o alle svalutazioni degli anni Novanta.

Ma se queste misure non si possono più utilizzare, che cosa propongono allora i neoliberisti? Il senso ideologico della proposta sta nella esaltazione dell’economia a basso costo. Insomma, per reggere la competizione, bisognerebbe copiare ed estendere in tutti i settori il modello della compagnia aerea low coast Ryanair.

A me pare questa una colossale perdita di contatto con la realtà del Paese. E’ vero infatti che in Italia le grandi privatizzazioni hanno dato luogo spesso a monopoli privati che hanno sostituito quelli pubblici. Però è anche vero che le privatizzazioni nei settori industriali non hanno nemmeno prodotto questo risultato, ma autentici disastri, in particolare nei settori più avanzati. Basti pensare al polo elettronico dell’Aquila, esempio di devastazione liberista dello sviluppo tecnologico del Paese.

Il punto allora è: davvero l’Italia riprenderà a crescere se, in alternativa al perfido protezionismo di modello francese, si praticherà un liberismo ancora più spinto ed integrale di quello finora realizzato? No, una nuova ondata di liberalizzazioni e privatizzazioni accentuerebbe tutti i fenomeni negativi che si sono finora realizzati, metterebbe all’asta delle multinazionali ciò che nel Paese è ancora invenduto. Il tutto senza farci crescere di un solo millimetro. Anzi, troverebbero così nuova linfa quella rendita e quella finanza speculativa che, ancora una volta con generale concordia, vengono oggi indicate come uno dei mali dell’economia italiana.

Se si vuole che davvero cresca la qualità dei prodotti e degli investimenti, se si vuole conservare e sviluppare un forte sistema industriale, se si vuole una crescita del Mezzogiorno e della qualità complessiva del nostro sistema economico non è alle virtù del mercato che bisogna appellarsi, ma all’intervento della buona politica nell’economia. Occorrono scelte meditate e costruite di programmazione economica ed industriale. Del resto in alcuni casi questo si è già fatto. Come ricordava maliziosamente di fronte al sommo pontefice il presidente di Banca Intesa, le banche italiane hanno salvato Fiat e Rizzoli anche rischiando moltissimo. I fatti dimostrano che senza una nuova dimensione dell’intervento pubblico, finanziata da una forte iniziativa fiscale, non si ridà competitività al Paese.

Ma tutto questo non basta. In realtà tante analisi comuni saltano spesso una questione di fondo: la distribuzione del reddito. Nel 1972 il reddito da lavoro dipendente in Italia era il 60 per cento di quello complessivo. Nel 2003 era sceso a meno del 50 per cento. Più è caduta la competitività più è caduta la quota di reddito del lavoro dipendente, ci sarà pur un rapporto tra queste due tendenze! Allora non è vero che tutte le analisi coincidono. Per i neoliberisti la distribuzione del reddito non è rilevante, e per questo da essi viene riproposta ancora una volta la politica dei due tempi, prima lo sviluppo e poi la crescita delle retribuzioni. Il presidente della Confindustria, nella sua intervista rivendica addirittura la necessità di nuove misure impopolari. Così una delle cause fondamentali del declino del Paese, la caduta del reddito del lavoro, viene cancellata dall’analisi della crisi, e conseguentemente vengono riproposte le ricette negative di sempre. Persino un moderato come l’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu ha finito per chiedere cautela al segretario dei Ds nel consenso verso le posizioni del presidente degli industriali. E’ bene dirci che se attuate esse comporterebbero dei costi sociali altissimi, e un aggravamento ulteriore della crisi industriale del Paese. Il presidente della Confindustria si è detto deluso dal congresso della Cgil, a noi invece le sue posizioni non hanno provocato particolare delusione perché non ci aspettavamo granché di diverso. Sappiamo che per far ripartire lo sviluppo in Italia occorrono politiche profondamente diverse da quelle del passato. Da quello più vicino, ma anche da quello un po’ più lontano. E sappiamo anche che nelle scelte della Confindustria c’è una continuità negativa di fondo che è davvero difficile cambiare.

[ Da Liberazione del 7 marzo 2006 ]

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Confindustria non è amica

di Fausto Bertinotti

La Confindustria è entrata prepotentemente nella campagna elettorale. Da un lato questo produce un’utile conseguenza perché mette al centro del dibattito le grandi questioni economico e sociali purtroppo oscurate da una brutta campagna elettorale. Ma dall’altro, tutto ciò si rovescerebbe in una perdita per il Paese se le forze politiche, e in particolare quelle dell’Unione, manifestassero nei confronti di Confindustria una abdicazione alla necessità di autonomia della politica dai grandi centri di potere economici e una riduzione della capacità critica.

Bisogna ricordarsi che la Confindustria, piuttosto che interpretare l’interesse generale, rappresenta un solido terreno di parte. La posizione illustrata dal presidente Luca Cordero di Montezemolo si distanzia infatti significativamente dal programma dell’Unione. La critica dura del presidente di Confindustria alla conclusione del congresso della Cgil, accusata di conservatorismo, rivela una propensione della Confindustria a ridimensionare il potere contrattuale del sindacato per ottenere mano libera per le imprese sulla flessibilità del lavoro. E’ una linea già perseguita nei rinnovi dei contratti, sconfitta dalla conclusione del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, che ora viene rilanciata dalla Confindustria a livello generale. Non è una sfida da poco.

Le relazioni sociali, il potere contrattuale delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro non hanno soltanto una specificità sindacale, sono un punto decisivo delle politiche sociali ed hanno un forte rilievo politico. L’Unione non può in questa contesa essere cerchiobottista, ma anche sugli indirizzi generali di politica economica, le posizioni di Confindustria indicano una linea per l’uscita dalla crisi che non convince per l’unilaterale richiesta di centralità del profitto senza che si possa vedere oltreché una convincente strategia di riforma dell’economia, necessari risultati sul terreno della crescita occupazionale, della lotta alla precarietà, della necessaria redistribuzione del reddito a favore di salari, stipendi, pensioni.

In realtà, quello che emerge nell’intervista di Luca Cordero di Montezemolo, è una richiesta di ridurre i costi per l’impresa, sia sul terreno del lavoro che su quello dell’energia e quello fiscale. Le risorse necessarie andrebbero trovate prevalentemente con lo spostamento della tassazione sui consumi, ma così si opererebbe soltanto un trasferimento delle ricchezze dall’insieme della produzione alle imprese. Colpisce la mancanza di una chiara presa di posizione a favore di una politica fiscale sulla rendita. Dunque, ci sono tutte le ragioni per aprire un grande dibattito pubblico sullo stato del Paese, sulla natura della sua crisi e sulle strategie per uscirne. E’ bene che la Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo abbia abbandonato la collocazione politica della gestione precedente e la linea di rottura antisindacale da essa operata d’intesa con il governo Berlusconi. Ma ciò non può indurre l’Unione a considerare la Confindustria “amica”. La difesa dell’autonomia dell’Unione e del governo che essa propone al Paese passa per la piena valorizzazione del programma concordato. E’ questo programma che non casualmente ha riscosso l’interesse ed il giudizio positivo di grandi organizzazioni dei lavoratori, come nel congresso della Cgil, e di grandi organizzazioni dell’associazionismo, come nel congresso dell’Arci. L’Unione farebbe bene a mostrare al Paese la convinzione politica e la determinazione necessaria per far vivere un buon programma in una buona politica».

[ Da Liberazione dell’8 marzo 2006 ]

www.liberazione.it

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