Nonluoghi Archivio Val di Susa, ricatti e derisione della democrazia

Val di Susa, ricatti e derisione della democrazia

di Mirta Da Pra Pocchiesa *

Dopo la manifestazione del 16 novembre ero molto fiduciosa che un dialogo si potesse riaprire per valutare le posizioni degli uni e degli altri in merito alla nota vicenda dell’Alta Velocità in Valle di Susa e che forse, dando a tutti la buona fede, si potesse addivenire a qualche revisione, oltre che di metodo, anche di sostanza del progetto. Ma dopo le reazioni delle forze politiche ed economiche alle migliaia di persone che hanno chiesto trasparenza, tutela della salute e progetti lungimiranti per il futuro di tutta la collettività, il mio ottimismo è sfumato. Si è ribattuto alla protesta pacifica e civile, che poneva innumerevoli criticità, deridendola e liquidandola con l’accusa di essere localistica (niente di più falso). Si è cercato di dire che la valle è contro il trasporto su rotaia: falso, falso, falso. Non si è dato ascolto e parola (i politici e spesso anche i media) ai molti esperti (docenti universitari che non hanno alcun tornaconto) che si sono espressi sollevando perplessità per le falde acquifere, per la salute (amianto in testa), per lo smaltimento delle tonnellate di materiale che verrebbe tolto per fare il tunnel e, non da ultimo, sull’antieconomicità dell’opera. Non si è detto che si poteva non perdere il contributo della comunità europea: bastava chiedere entro il 30 ottobre 2005 la proroga di un anno e non si sarebbe perso nulla. Non si è parlato delle proposte alternative presentate negli anni, sempre su rotaia. Si potrebbe continuare.

Democrazia derisa

Insomma: si è derisa la democrazia e la trasparenza, ma forse non si è capito che da questa vicenda stanno emergendo richieste nuove, forti, rivolte in primis alla politica. Chi si è espresso contro la Tav ha chiesto di farlo investendo naturalmente su rotaia, ma in un’ottica di revisione e potenziamento della linea esistente ma soprattuto all’interno di una revisione, previsione e riordino della politica dei trasporti attraverso l’arco alpino. Quel che più sconcerta è che non vi è nessun dubbio da parte delle istituzioni: solo certezze. Di fronte alle 70/80.000 persone, di tutta Italia, arrivate in Valle di Susa a manifestare contro quell’opera (e anche contro la Legge Obiettivo per la realizzazione delle «grandi opere», dove viene bypassata la trasparenza e la concertazione), non una piega. Anzi, chi non si allinea, a destra come a sinistra, viene redarguito con la minaccia dell’espulsione. Sistemi da regime, a destra, al centro, a sinistra. Che tristezza!

Comunque, vengo a ciò che volevo esprimere con queste mie riflessioni e sul perché abbino la vicenda della Val di Susa al disastro del Vajont.Sono cadorina, quindi bellunese, e so che cosa significa non essere ascoltati, essere calpestati, ho negli occhi l’immagine delle piccole bare bianche e dell’enorme distesa di fango quando, piccolissima, passai da Longarone con i miei genitori, dopo il disastro. Sento ancora le sirene dei volontari dei vigili del fuoco che in tutti i nostri paesi suonarono quella notte, per chiedere a tutti di accorrere, per aiutare. In Valle di Susa ci sono gli stessi ingredienti del disastro del Vajont: la gente che porta «prove» (di cosa era fatto il monte Toc ieri, di cosa è fatto il Musinè oggi), sottopone pareri asserendo che l’opera sarà, oltre che dannosa per la valle, fallimentare dal punto di vista economico (la diga del Vajont ieri, l’enorme galleria, gli enormi treni domani?). Gente che non viene ascoltata da chi siede sulle seggioline in alto, a livello locale e nazionale. Per il Vajont, come in Valle di Susa.

Cambierà, se non ci si ferma, solo la modalità per contare i morti: lo si farà a distanza di anni, uno dopo l’altro, non tutti assieme. Persone della Valle di Susa e di una parte di Torino, dove arriva il vento che, quando soffia, soffia forte e porta le polveri lontano (l’amianto è inodore, insapore, è un nemico silenzioso che si respira e si annida e fa ammalare e uccide, anche a distanza di anni). E la nuova opera costruita (che avrà sottratto risorse a quella esistente, su cui viaggiano migliaia di persone ogni giorno per il trasporto inter vallivo e che toglie tantissimo traffico auto che altrimenti andrebbe su Torino) sarà pressoché inutilizzata sia perché i trend disegnano altri scenari rispetto a quelli che ci vengono propinati dagli esperti pagati dalla Tav e dai suoi sostenitori politici, sia perché gli stessi stanno portando avanti una politica dei trasporti che non ha la minima intenzione di togliere i mezzi pesanti dalle strade e autostrade (che continuano a costruire e programmare ovunque, incluse le Alpi). Senza contare che le linee ferroviarie esistenti nell’arco alpino sono utilizzate per meno di un terzo della loro capacità!

Ambiente fragile

Prima di bucare ancora le Alpi per ferrovie, strade e autostrade bisogna addivenire a una politica dei trasporti che guardi all’insieme dei fattori, lungimirante e il più possibile condivisa. Accanto a ciò non dimentichiamo – nei fiumi di parole di questi mesi l’ho sentito dire solo raramente e mai da chi è per la Tav – che tutto l’arco Alpino esige una cura e un’attenzione particolare in quanto l’ambiente è fragile e delicato ed ogni modifica va valutata con attenzione, nell’interesse di tutti. E non solo perché è un ambiente naturale meraviglioso ma anche perché fornisce – attraverso i ghiacciai e i corsi d’acqua – elettricità e acqua a milioni di persone, a valle. Le Alpi, le montagne, i montanari, hanno sempre messo a disposizione le proprie ricchezze in tal senso, con generosità. Valutando però di volta in volta i progetti, a volte accettando, altre volte opponendosi, spesso a ragione – vedi il Vajont.

Non solo. Diciamo tutto quello che di solito non si dice: con tutti gli altri paesi alpini abbiamo firmato una Convezione internazionale per la protezione delle Alpi che – partendo proprio dal presupposto che le Alpi sono un territorio sensibile – prevede l’adozione di politiche orientate allo sviluppo sostenibile in tutta l’area alpina anche in settori come quello dei trasporti. Ma il nostro governo ha chiesto di stralciare proprio il protocollo della Convezione delle Alpi relativo ai trasporti (in quanto impedirebbe la realizzazione di ulteriori collegamenti autostradali transalpini) bloccando in questo modo tutto il processo della Convenzione.
Non si agisce così ovunque. In Svizzera, ad esempio, si è di fronte a ben altra politica dei trasporti: ma chi non vuol vedere e sentire…

Di tutte queste cose i signori e le signore seduti sulle seggioline in alto non parlano mai. Vogliono farci passare la galleria di Venaus (lunga 10 chilometri e con 6 metri di diametro) come «sondaggio geognostico»! Ma chi credete di prendere in giro? La gente di montagna a volte cura poco la forma e le elucubrazioni verbali di cui voi siete tanto capaci, ma vi ricordo – e c’è documentazione a sostegno di ciò – che era proprio dalle montagne che partivano, alcuni decenni fa, i maestri per andare in città ad insegnare, perché i disagi che la vita in montagna impone, le continue migrazioni per vendere i prodotti del proprio lavoro, hanno fatto sì che, per tenersi in contatto con la famiglia, dovessero – prima di chi era in città – imparare a leggere e scrivere…

Nuovi posti di lavoro?

Nonostante ciò ci dicono sorridendo, i signori e le signore delle seggioline in alto, che porteranno nuovi posti di lavoro (all’amianto). Su questo il discorso viene liquidato dicendo che oggi ci sono i mezzi per lavorare in sicurezza (con costi altissimi, precisa qualcuno). E come si fa a fidarsi di assicurazioni in merito se tutta la vicenda è stata gestita senza alcuna trasparenza e in un paese, il nostro, dove migliaia di tonnellate di rifiuti altamente pericolosi spariscono (nel terreno) o si trasformano col cosiddetto «giro-bolla», vale a dire con un trattamento che avviene solo sulla carta perché è più conveniente pagare tecnici e corrompere funzionari che smaltire correttamente ciò che inquina… Sono dati di Legambiente e dell’Arma dei Carabinieri, non dei soliti estremisti, come direbbe qualcuno.

Ma i politici sono determinati ad andare avanti, e non hanno dubbi in proposito, anche perché le grandi organizzazioni sindacali sono dalla loro parte (solo la Fiom si è espressa contro, anche se molti delegati che si lasciano attraversare dal dubbio erano presenti in valle il 16 novembre, a sfilare per chiedere che ci si fermi per tempo).
Al sindacato ricordo solo (sarebbero tanti gli esempi purtroppo) l’Acna di Cengio: non si barattano posti di lavoro con la salute e con la vita delle persone. Non l’avete, non l’abbiamo ancora imparato?

Torno al Vajont, torno a Longarone, ai 2000 morti che ha causato quella follia del potere politico ed economico, ai paesi spazzati via, al dolore, al furore, alla diffidenza che lasciano certe ferite.

Longarone oggi è un paese ricostruito, un paese nuovo, di cemento, di gente operosa – come è sempre stata quella gente – con qualche casa e chiesa miracolosamente salvate, che servono per ricordare, monumenti per non dimenticare. C’è la diga, la «grande opera» imponente, con dentro un pezzo del monte Toc, su cui crescono gli alberi. Ogni tanto si parla di riempire l’invaso. La gente non ne vuole sapere, ovviamente. Localismi, direbbero di nuovo i signori delle seggioline in alto. A Longarone ci sono oggi tante fabbriche di occhiali, molte delle quali trasferite dal Cadore perché nel paese dell’alluvione c’erano gli incentivi (denaro pubblico speso prima per uccidere 2000 persone, denaro pubblico speso dopo per compensare, risarcire).
Ma la gente di Longarone, del Bellunese, sa che i morti non si risarciranno mai. Oggi la gente del Cadore, anziché lavorare nella propria zona, viaggia per non perdere il posto di lavoro (che tra un po’ non ci sarà comunque più perché molte fabbriche si stanno spostando nei paesi dell’est). Bella qualità della vita, per tutti.
Bel modello di sviluppo. Pensateci signori e signore lassù in alto.
Rivedete, per piacere, gli studi e i pareri che vi sono stati sottoposti. Leggete ed ascoltate le decine di docenti universitari che hanno espresso articolati pareri in merito, senza avere tornaconti di tipo personale.
Procedete per gradi, con trasparenza e coinvolgendo le popolazioni. Fermatevi per tempo, soprattutto. Perché se quel che decine di esperti sostengono, se quel che migliaia di persone dicono è vero bisogna fermarsi, subito. Non potete prendervi una responsabilità morale così grande, così pesante. Non fate della Val Susa un altro Vajont.

* Articolo tratto dal quotidiano Il Manifesto del 30 novembre 2005. L’autrice, montanara, giornalista sociale e ambientale, non tesserata (a parte il Cai e il Parco delle Marmarole), è nata e cresciuta in Cadore (Belluno) e ora risiede in Valle di Susa.

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