(Pubblichiamo la postfazione dell’editore alla raccolta Sei nella guerra, edita da Nonluoghi Libere Edizioni nel maggio scorso, con racconti e poesie di Roberto Carvelli, Claudio Damiani, Daniela Gambino, Silvia Magi, Marco Lodoli e Fabio Zanello).
di Zenone Sovilla
La narrativa e la poesia per riflettere sulle guerre d’oggi. In un oceano mediatico e politico di parole, spesso vuote o false, il racconto dello scrittore e i versi del poeta ci aiutano ad aprire sprazzi di lucidità sulla pochezza del dibattito “bellico” e di onestà sul fallimento concreto, pratico, del movimento che si è battuto invano contro un’altra guerra. In questi mesi di guerra abbiamo letto e ascoltato concetti che si rincorrevano e si ripetevano. Quasi stancamente. Dai talk-show bellici e finto-bellici alle prime pagine dei giornali. Argomentazioni pro e contro la guerra; formulazioni ossequiose del punto di vista crudo del Pentagono; descrizioni scandalizzate o “equidistanti”, attonite o gelidamente asettiche, degli eventi, del sangue, del terrore.
L’impressione era che tutto scorresse su uno sfondo di rassegnazione; talora complice e compiaciuta, talaltra indignata e impotente.
Alla fine, l’ha avuta vinta chi sostiene che giustizia e libertà si fanno radendo al suolo interi paesi. Il sistema ci costringe a metabolizzare tutto. Anche una guerra decisa da una lobby di governo sprezzante e bugiarda che si giova del ricatto morale per cui se la critichi sei un veteromarxista antiamericano invasato o, al limite, un buonista da salotto.
Bene, allora, lasciatemelo ripetere qui, con il pensiero ai molti americani che dicono no al Vangelo secondo Bush (e che nella patria della libertà, pagano anche con sanzioni penali o discriminazioni professionali le loro opinioni sconvenienti). Lasciatemi ripetere che, nonostante la tragedia dell’11 settembre, la ricetta pistolera e neocolonialista del signor George W. Bush è devastante nel quadro dei valori che lentamente un nuovo umanesimo razionalista tenta di costruire lasciandosi alle spalle via via le crudeltà di millenni di vergognosa storia umana. È devastante, perché entra con l’accortezza di un’orda di vandali nel sentiero esposto e scosceso della complessità del reale, della fatica di guadagnare ogni piccolo passo di umanità e di democrazia nel solco della nonviolenza.
Abbandonare la logica del boia è stata una delle conquiste di una parte dell’umanità. Seminare giustizia con la forza della parola, non con la ghigliottina o con la sedia elettrica. Perché da quell’abbandono paziente e faticoso (e anche doloroso di rabbia, di rancori e di ragionamenti) trae forza la pianta della umanità nuova della fratellanza e della libertà degli eguali.
È un abbandono da sudare; molto più complicato di quanto talora lascino intendere i facili slogan e le agiografie autocelebrative di capi e capetti delle organizzazioni/istituzioni di quell’altro mondo possibile. Già, ma più che di quale mondo possibile (e qui ci sarebbe di che accappigliarsi), è urgente discutere almeno di “come” mettere in fila obiettivi minimi che insieme traccino un percorso grande. Di come riparare i danni e ritrovare il solco della umanità, della fratellanza e della libertà, sulla terra bruciata di questa ennesima guerra che il sistema farà metabolizzare a quasi tutti noi come, in fondo, il male minore.
Dopotutto quell’agguzzino di Saddam Hussein è stato spazzato via con la sua viscida corte, gli iracheni sono finiti sotto la protezione americana e dei vecchi colonizzatori inglesi che insieme si sono seduti sul Medio Oriente. Ci saranno tempi di grave incertezza del diritto imposta con rigore marziale dalle potenze occupanti; tempi di faide, lotte intestine e abusi di potere. Resterà il male minore.
Un male minore un po’ come il voto col maggioritario, quello che in Italia tanto hanno declamato i nostri rètori della LORO democrazia, fino a convincerci che allontanarci dalla possibilità di scegliere è un modo per partecipare meglio e ci abbiamo creduto. Come se al presunto declino della rappresentanza proporzionale non si potesse rispondere, al contrario, con la ricerca (difficile, certo) di forme maggiormente partecipative e democratiche. Hanno stabilito unilateralmente un paradigma della modernità, politica e economica dal quale derivano le giustificazioni di ogni controriforma antidemocratica (sistema elettorale, lavoro, stato sociale, sistema scolastico, guerra). Con i dogmi del mercato applicati a tutto, hanno ucciso il desiderio di cambiamento, di sperimentazione democratica, di rapimento ideale e solidale.
Le istituzioni democratiche si riducono a un’arena dello scontro tra volti sorridenti sui manifesti: un’altra forma di competizione interpersonale e di sottrazione di partecipazione diffusa al potere. E oggi, al massimo, ci auguriamo che qualche equilibrismo dialettico, un virtuosismo semantico, consegnino all’Italia un’alternativa di (centro)sinistra vincente alla convention di conflitti d’interessi che ora ci governa.
Siamo le democrazie del male minore e ancora non ci scandalizziamo di fronte all’idea di una guerra. Il boia, lui sì, adesso, ci scandalizza. Radere al suolo un paese per offrirgli il male minore, no.
E l’opinione pubblica che metabolizza e interiorizza i messaggi del sistema, compresi quelli subliminali, alla fine, forse ci crede. La guerra è durata poco, i morti alcune migliaia (o non sapremo mai quanti, tanto ormai le stragi in iraq non fanno notizia, ma poco importa), le mani dell’Occidente sul Medio Oriente, un avamposto che semina democrazia e tiene sotto controllo le teste calde.
La scorciatoia, dunque, funziona. Un momento. Se fosse così, anche il boia funzionerebbe. Per liberarsi socialmente dello stupratore la sedia elettrica è più sicura del reinserimento sociale. Non stuprerà più. Certo, ma una società della sedia elettrica è violenza, violenza epistemologica e pedagogica. Sarà la madre di uno, cento, mille stupratori. Sarà la società dello stupro, la società della guerra.
Se vogliamo parlare seriamente di istinto di conservazione e di tutela della vita, dobbiamo rivolgere l’attenzione a un’altra società ideale: quella faticosa che fa i conti con l’abbandono necessario della rabbia capitale. La società che ha trovato il coraggio di cogliere la sfida della storia e di coltivare la pianta della fratellanza e della libertà, perché così cresceranno sempre meno stupratori.
Ci vuole la forza di dire no alla sedia elettrica e no alla guerra. Per le medesime ragioni. Di fronte all’idea di una nuova guerra, molti si sono indignati, almeno sventolando una bandiera arcobaleno (che altri, con i consueti fervori “liberali”, avrebbero preferito bandire).
Probabilmente molte persone normali, non affette dalla tipica psicopatologia del potere/dominio, riescono con maggiore facilità a immaginare orrori come le guerre; le ferite che producono e anche gli scenari di incertezza e di rischio globale che implicano. Forse in costoro scatta l’istinto di conservazione della razza.
“Non esiste un modo socialista di fare la guerra, di opporsi al massacro con il massacro”, scriveva senza tentennamenti Andrea Caffi nel 19461.
L’impressione è che nei posti di comando del mondo in questa nostra epoca ci siano troppi irresponsabili integralisti e pochi politici assennati e dotati di un minimo equilibrio. Troppi affaristi, ipocriti, petrolieri e armaioli; pochi spiriti liberi e sinceri democratici. Poco coraggio; troppo orgoglio. Poca ragione; troppa rabbia.
Prendiamo Bush, il “maestro” del nostro Berlusconi. Molti americani, non soltanto i radicali come Chomsky, ne detestano il pensiero e l’agire politico. Bush rappresenta soltanto una minoranza degli elettori. Eppure sta portando il mondo di guerra in guerra.
Rappresenta una minoranza di americani, perché di fatto il vincitore delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti non può vantare, conti alla mano, il consenso della maggioranza dei cittadini (talmente bassa è l’affluenza alle urne). Ma Bush, in particolare, non ha alle spalle neanche i voti della maggioranza nella minoranza che va alle urne: lui le elezioni, in realtà, le aveva perse e se oggi riceve nello studio Ovale dopo la preghiera governativa del mattino, deve ringraziare chi, nel nome della ragion di Stato, ha fatto un passo indietro dalla legalità costituita.
E qui conta poco che la maggioranza – ben “istruita” da media e istituzioni – sia da considerarsi tacitamente consenziente.
Non è gran che per la democrazia americana, che attraversa, a livello federale, una crisi taciuta ma profonda. Lo è ancora meno se il presidente non eletto e non rappresentativo dell’America (figuriamoci del resto del mondo) ignora la comunità internazionale e scatena una guerra contro un Paese retto da un regime sanguinario come l’Iraq, uno dei tanti, purtroppo e certamente uno dei peggiori, per troppi anni tollerato o finanche sostenuto da chi oggi sbandiera improbabili verginità umanitarie.
Bush aveva un conto sospeso in Iraq; un conto di famiglia. A proposito, è quantomeno singolare che nella più grande democrazia del mondo, con 300 milioni di abitanti, lo scettro passi di padre in figlio nel giro di un decennio: proprio loro due, e la loro dinastia di affaristi, tra tutti quei cittadini…
Su queste basi traballanti e sul tragico lutto dell’11 settembre, l’amministrazione Usa ha potuto varare la sua teoria e prassi dell’attacco preventivo e della compressione delle libertà civili su scala locale e globale, per neutralizzare il nemico (e altri incomodi).
Ha messo le mani sull’Afghanistan e poi sull’Iraq eppure continua a ripetere che il rischio terroristico non è calato. A Baghdad non ha trovato armi di sterminio, ora dice che forse sono state distrutte prima della guerra; ma la loro mancata eliminazione era l’unico motivo formale dell’invasione. All’Onu aveva scatenato le sue spie e raccontato menzogne, per giustificare la guerra e screditare gli ispettori.
E tutto passa stancamente sui mass media, tra lunghi dibattiti calcistici e sfilate di aspiranti soubrettes della tv pubblica; senza indignazione, senza stupore; quasi senza pudore. Editorialisti, politici e analisti vari si sono permessi di scrivere e recitare le più ignobili enormità; come paragonare spensieratamente l’intervento in Iraq allo sbarco in Normandia senza finire travolti da una sonora e grottesca risata storica. Ci hanno raccontato le favole più incredibili, storie che gli stessi giornalisti embedded – quelli integrati nelle truppe anglo-americane – talvolta hanno dovuto riferire con qualche cauto dubbio, irritando i generali.
Si ha quasi l’impressione che, oggi, mettere a nudo alcune tragiche verità sia un esercizio fuori tempo, un po’ a rischio di autocensura pubblica per palese disturbo del manovratore. Voces nel deserto.
Oggi, se in tanti possono far finta che la guerra non ci sia stata – nel senso che ormai appartiene al passato, per loro, nelle loro poltrone; non per i morti e i mutilati di carne e di mente – è probabilmente perché, anche su questa idea-limite, il sistema dei poteri è stato capace di farci rassegnare all’eterodirezione.
La mobilitazione internazionale di bandiere di pace, i milioni di balconi italiani, non hanno fermato un solo militare. Nemmeno le migliaia di divise italiane che andranno a sostituire la polizia irachena nel prottettorato angloamericano (ma il governo di Roma, fino a ieri, tanto per cambiare, mentiva dicendo che avrebbero solo difeso gli aiuti umanitari).
Inutile negarlo: il movimento contro la guerra ha segnato la nascita di una forza portatrice di valori umanitari; ma ha anche rivelato la povertà di strumenti in grado di trasformare questa forza sociale in risultati concreti. È più forte il sistema chiuso della politica e dell’economia, con i suoi mass media: l’interfaccia del potere e delle rassicuranti semplificazioni che lo alimentano.
Da questo incoraggiante fallimento della battaglia contro la guerra sarebbe forse utile trarre qualche analisi capace di ispirare uno sforzo di verità sull’orizzonte più ampio del movimento eterogeneo che si oppone al modello unico preconfezionato neoliberista/oligarchico locale e globale.
Per fermare la deriva della mercificazione e della competizione generalizzate, servono nuovi strumenti di democrazia sostanziale che rendano praticabile una via alternativa.
Anche per fermare una guerra servono strumenti capaci di trasformare in azione la volontà di una maggioranza. Senza dimenticare che una democrazia realmente compiuta è quella in cui le decisioni collettive coincidono con quelle del singolo individuo e che a questa condizione ideale dovremmo sforzarci di tendere nell’architettura istituzionale.
In molti casi, però, come nella guerra o in altre emergenze locali e globali, l’azione è urgente e non può attendere le riforme del sistema democratico. Allora è necessario dotarsi di una forte proposta nonviolenta alternativa. Nel caso del dramma iracheno, un progetto di uso di un altro tipo di forza da contrapporre al riflesso condizionato del pistolero texano. Quale? Una mobilitazione popolare? Milioni di scudi umani alla rovescia che entrano in Iraq per proteggere i cittadini dal loro regime? L’intensificazione delle relazioni culturali, economiche, umanitarie? Oppure la loro drastica riduzione? La battaglia per l’invio di contingenti armati per un’interposizione umanitaria a opera della comunità internazionale?
Tutto appare piuttosto confuso e scarsamente spendibile nell’arena mediatica dominata dalle veline dei Palazzi del potere e degli strateghi con le stellette. E sullo sfondo, prende corpo tristemente un processo di nuova fascistizzazione dell’individuo e dei gruppi sociali, figli della competizione e del primato del profitto economico nella sua dimensione liberista, cinica, egocentrica, integralista.
L’opinione pubblica è vittima (e complice) della sottrazione di spazi di critica e di riflessione; con lei funzionano le scorciatoie texane, non le tortuosità tibetane.
Lo stesso vale per tutte le altre lotte nel nome della giustizia e della libertà. Affiora una fastidiosa contraddizione tra il grido dell’emergenza – che richiede interventi concreti e immediati per salvare intere popolazioni o classi sociali – e la retorica dell’utopia, che si nutre anche di vacue celebrazioni di mobilitazioni di massa inconcludenti .
Il risultato, purtroppo, è che le cose ten-dono a peggiorare. Si muore sempre più di mercato, nelle case, nei campi e nelle fabbriche; si muore di terrorismo; di guerre e di controguerre.
I poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Le iniziative che propongono un paradigma alternativo al pensiero unico assumono i contorni della testimonianza, sincera, utile, ammirevole; ma una testimonianza debole, dentro un sistema che macina e fagocita tutto nel nome della corsa folle del profitto e di chi la propaganda.
Abbiamo interiorizzato a tal punto il sistema di (dis)valori del mercato che forse, a guardar bene, non crediamo fino in fondo neanche noi a un’alternativa; troppo complicata, improbabile, confusa, lontana, incerta. Forse viviamo rassegnati senza nemmeno accorgercene, intimamente spaccati anche noi tra la parte mercantil-competitiva e l’anima democratica e filantropica. O forse ce ne accorgiamo e ce lo siamo confessati una volta per tutte e il resto sono riflessi condizionati.
Un riflesso condizionato alla crisi della democrazia è denunciare le guerre decise da pochi sulla pelle di molti e lo scempio dei principi costituzionali. Ma, forse, in fondo, non ci vediamo chiaro e sappiamo che al massimo ci attende un male minore. Questa notte, mentre scrivo, le agenzie di stampa battono l’ennesima dichiarazione del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che dopo essersi concesso di disertare le celebrazioni del 25 Aprile ha definito se stesso come “l’Amministratore delegato dell’Italia” (Ansa, 27 aprile 2003, sul soggiorno del Cavaliere a Porto Rotondo, tra gelati al pistacchio e visite in gioielleria, tutto minuziosamente descritto dalle solerti cronache). Ecco, ragioniamo un momento su questa democrazia degli amministratori delegati. Se qualcuno obietta, se la cavano riducendo la democrazia a un mandato in bianco: tra quattro anni gli elettori giudicheranno il nostro operato. Ma democrazia è poter decidere prima, non dare un parere a babbo morto!
Quanti personaggi squallidi abitano questo nostro pianeta gerarchico della partecipazione scoraggiata, tradita; il sistema di dominio coltiva, al contrario, il desiderio di apparente appagamento economico dei cittadini. Conta conquistare posizioni e oggetti simbolicamente spendibili come potere. La democrazia si esercita nei centri commerciali o nei master post-universitari. Su di essa non ci si interroga più, non sui suoi strumenti, non sul suo senso svuotato da deleghe (politiche, giudiziarie, economiche) malintese e arroganti.
Siamo ridotti a uno stato in cui un signore può definire se stesso l’amministratore delegato d’Italia. A un mondo in cui un altro signore può decidere una guerra quasi indisturbato (“o con noi o contro di noi”).
L’incoraggiante fallimento del popolo contro la guerra potrebbe servire a ragionare ancora più profondamente sullo stato della democrazia. Paradossalmente, l’emergenza potrebbe dover passare per l’utopia del ripensamento istituzionale, del confronto sui modelli decisionali, sul potere diffuso e a-gerarchico, sull’autonomia dell’individuo e delle comunità locali, sullo svuotamento delle centrali e della rete del dominio, sull’architettura reticolare al posto della costruzione (e percezione mentale) piramidale delle cose del mondo. Il potere è di tutti: chi si sente, oggi, davvero, di sottoscrivere e di mettere in pratica, in politica e in economia, questa ovvietà?
Questo ragionamento investe, naturalmente, tutte le sfere dell’esistenza. In particolare, la scuola e i mass media sono chiamati a fare i conti con la loro funzione democratica in un’epoca in cui, al contrario, le forze del sistema neoliberista spingono i programmi di studio e l’informazione verso una babele solo apparente, che è invece appiattimento ossequioso delle Grandi Verità del mercato e della sua politica. Consentire alle persone di dotarsi di senso critico, di attrezzarsi contro le manipolazioni e le mistificazioni della realtà, è un compito centrale di organizzazioni come i giornali e le scuole. A loro – e più in generale al mondo della cultura – dovrebbe riservare un’attenzione speciale chi si preoccupa delle sorti della democrazia e si rammarica della scarsa ricettività dell’opinione pubblica verso le proposte di trasformazione radicale della politica, dell’economia, di una società pronta alla guerra.
I racconti e le poesie di guerra – ogni genere di guerra – raccolti in questo libretto sono un piccolo seme che ci aiuta a riflettere sui nostri limiti. Prima di tutto proprio i nostri conflitti più intimi, che rendono la questione così maledettamente complicata.
1. Andrea Caffi, Contro la guerra. Violenza e liberazione, a cura di Alberto Castelli, Nonluoghi Libere Edizioni, 2002.
* Zenone Sovilla (Belluno, 1964) è l’editore di Nonluoghi Libere Edizioni.