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Psicoterapia, valori, utopia

Luigi Corvaglia
Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Con questo titolo James Hillman ha “celebrato” qualche anno fa in un libro il centenario della psicoterapia in generale e della psicoanalisi, psicoterapia prima (in ogni senso), in particolare. È chiaro in questo titolo l’intento critico dell’autore che sottolinea il fallimento della psicoterapia nella realizzazione delle sue promesse. Ma quali erano realmente le sue promesse?

Il fatto che si supponga che una pratica clinica debba avere una influenza sull’andamento del mondo è disvelatore della carica utopica che la permea e ci permette di effettuare un parallelismo fra teoria del cambiamento umano e teorie del cambiamento sociale, ovvero politiche. La storia della psicoterapia è infatti, come quella delle dottrine politiche, una successione di utopie. Il parallelismo, apparentemente ardito, appare proponibile allorquando si ragioni su una serie di fatti. Il primo è che ogni teoria psicologica è un’ipotesi sull’uomo e, in quanto tale, un’idea del mondo.

Ogni psicoterapia, quindi, veicola tale ipotesi e si fa partigiana di questo mondo. In pratica, ogni teorizzazione politica o psicologica presuppone una lettura del mondo e dell’uomo assolutamente specifica e differente dalle altre e difficilmente invalidabile dall’esterno, ossia è frutto di un’ episteme incommensurabile. Letture che sono strettamente collegate ad alcuni “valori”, essi stessi incompatibili. L’uomo freudiano, ad esempio, è intrinsecamente hobbesiano, legato ad un’idea di uno stato di natura di guerra perenne, di un uomo individualista e di una repressione benigna da cui deriverebbe la civiltà ed il suo “disagio”, di una libertà quindi “negativa” (nel senso di Berlin), pertanto incompatibile con quello di Marx o di Rousseau, strutturalmente sociale e legato ad un concetto di libertà “positiva”, cui è legata la teorizzazione di tanta psicologia umanistica. Con buona pace di Fromm e di tutta la scuola di Francoforte che – utopia – professava una convergenza freudo-marxista e vagheggiava – altra utopia – socialismi umanistici e superamenti del “principio di prestazione”, ovvero l’inaugurazione di una società ludica. Esempio, questo, scontato, al limite del luogo comune, ma che ci dimostra anche la non rara frequentazione fra gli ambiti psicologico e politico, ovvero la reciproca inseminazione fra utopie (1).

Carl Popper, in verità, ci aveva già messo in guardia circa entrambi i paradigmi, psicoanalitico e marxista, quando ne sottolineò la “non falsificabilità”. In altri termini, è l’eccezionale potere esplicativo delle due teorie a non convincere Popper che notava come i suoi amici marxisti trovassero in qualunque evento una conferma alla teoria della storia descritta dal filosofo di Treviri e mai delle smentite, così come ogni sintomo veniva letto dagli analisti, senza possibilità di smentita, in termini di conflitti inconsci a carattere sessuale o aggressivo. In particolare, Popper racconta di un incontro con Adler, teorico di una setta eretica analitica, quella della psicologia individuale, elemento questo che ci fa capire la natura eminentemente “chiesastica” delle dottrine non falsificabili, a cui raccontò di un caso che l’analista non ebbe difficoltà a leggere in base alla sua teoria sui sentimenti di inferiorità, senza neppure vedere il soggetto. Sconcertato, Popper gli chiese come poteva essere così sicuro e Adler gli rispose: “a causa della mia esperienza con mille casi simili”. Popper concluse, un po’ sprezzantemente, “e con questo ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi”.

In altri termini, secondo il criterio di demarcazione popperiano, una teoria priva di “falsificatori” potenziali è priva di contenuto empirico (e di utilità). Un ovvio crimine nell’epoca storica dominata dal valore della “scientificità”. Questo valore, però, ci porta ad un’altra utopia, quella della “validità” di alcune visioni del mondo, dell’essere cioè queste specchio fedele della “realtà”. Ciò, fino a tempi recentissimi, ha alimentato una visione positivistica ed empirista basata su una supposta “verità” del mondo da scoprire a piccoli pezzi mediante l’esperienza e in modo induttivo, baconiano. Ciò significa trarre conclusioni, cioè teorie generali, dall’osservazione di fatti particolari, vale a dire teorizzare con Hume che il sole sorge ogni mattina perché finora è andata così. Questo fa di una teoria del mondo una “verità”, ma anche questa è un’utopia. Bertrand Russell, raccontava la storia del “tacchino induttivista” il quale veniva cibato ogni mattina alle 9. Da buon induttivista, prima di trarre conclusioni affrettate, il tacchino valutò ogni variabile di temperatura, di giorno della settimana, ecc. finché non poté concludere con la sua “verità” scientifica: “mi danno da mangiare la mattina alle 9”. La cosa risultò vera fino alla vigilia di Natale quando il tacchino venne sgozzato. Alle 9.

Mi è quasi automatico fare un parallelo fra il tacchino induttivista di Russell ed un altro celebre pennuto, ovvero il “piccione superstizioso” di Skinner, paragone non peregrino considerato che Skinner è l’ esempio massimo dell’utopia scientista, induttivista e realista in psicologia. E’ risaputo che egli “condizionò” dei piccioni a compiere delle attività senza senso mediante rinforzi comportamentali molto simili a quello che rappresentava la conferma alla teoria del tacchino, ovvero il cibo.

Certo, mi si obietterà che una “scatola nera” – quale viene trattata la scatola cranica di piccioni, ratti ed umani dai comportamentisti ortodossi – non è induttivista né ipotetico-deduttiva, ma il mio riferimento non è ai piccioni, sto parlando di Skinner….

Mi riferisco, insomma, a quel gruppo di teorici che per fare della psicologia una scienza esatta, in completa antitesi alla metafisica freudiana, ne hanno fatto una scienza naturale, baconiana ed induttivista basata sul principio della “verificabilità empirica” . Quella concezione, per intenderci, che farà dire a Noam Chomsky che ci sono scienziati che “non sanno distinguere un poeta da un piccione”. La psicoterapia che ne deriva, meglio, la “tecnica di modificazione del comportamento” che ne è il risvolto pratico, vuole avere quale punto di forza la “prevedibilità” , altro valore cult. Ma Popper ci ricorda che aver visto sempre dei cigni bianchi ci farà prevedere di vederne sempre di bianchi. Ciò non esclude la esistenza di quelli neri.

Insomma, esiste l’utopia di un “universo”, ovvero di un mondo oggettivo, vero e prevedibile fuori dall’osservatore, concetto questo assolutistico al quale il neuroscienziato Maturana contrappone il concetto libertario di “multiversa”. Hans Kelsen, in ambito politico, ha chiarito che solo il relativismo permette la tolleranza in quanto chi ritiene di detenere la verità cercherà di imporla agli altri. E’ allora estremamente interessante considerare che tipo di utopia sociale possa venire ad essere legata a doppio filo a quella della scienza umana come scienza naturale e della razionalità di un paradigma rispetto ad un altro: la allettante idea di una società completamente scientificamente organizzata, prevedibile, “condizionata”. Un panorama orwelliano che lo stesso Skinner presentò in un suo romanzo “utopico” intitolato Walden Two. Vi si ipotizzava una “società perfetta” in cui tutti individui sono “condizionati” . La società come un’enorme “Skinner box”. Una psicoterapia globale che conducesse il mondo alla sua “giusta” organizzazione!

La tecnica come controllo sociale! (2) Queste concezioni sono anche espresse in un noto saggio che è stato l’oggetto di una feroce critica di Chomsky, psicolinguista, uno degli uomini cui si deve la “rivoluzione cognitiva” in psicologia e, giacché si è in argomento, utopista anarchico. Ancora una volta, dunque, una contrapposizione non solo scientifica – non solo, cioè, concernente paradigmi ipoteticamente neutri – ma anche e prevalentemente ideologica, ovvero una contrapposizione fra utopie. La psicoterapia non sfugge a questi impaludamenti ideologici. Si confronti, a mò d’esempio, questa concezione psico-totalitaria con la psicoterapia “liberale” degli umanisti americani, come Abraham Maslow o Carl Rogers che ha quale fine il “divenire ciò che si è”, fine che si raggiunge abbandonando i falsi sé costruiti adeguandosi ai valori societari (3).

Una buona spallata alla concezione assolutistica ed a-relativistica della conoscenza l’ha data l’epistemologo Paul Feyerabend. Questi ha messo in crisi l’idea di una scienza che progredisce in modo “razionale” e metodico dimostrando che l’impresa scientifica ha un carattere “opportunista” ed illogico (everything goes) e che non esista “regola” scientifica che non sia stata violata, concezione che è passata alla storia come “anarchismo metodologico” ma che sarebbe meglio definire dadaismo epistemologico. Soprattutto però Feyerabend contesta l’idea di una “realtà” vera come quella del raggiungimento di tale realtà quale fine della scienza che dovrà piuttosto occuparsi di ciò che è “utile” invece che del “vero” (4).

La prima fase della elaborazione cognitivista, che cerca di supplire alle evidenti carenze esplicative comportamentiste introducendo la “O” di “organismo” fra la “S” e la “R” di “stimolo” e “risposta”, non si allontanava invece granché dal paradigma della “realista”, cioè della “verità”. Si veda la concezione dell’ansia nella psicologia cognitiva di Beck. Seconda la nota definizione di Beck si tratta di un “campanello di allarme ipersensibile” , che, cioè “produce troppi falsi positivi e niente falsi negativi”. Checché se ne possa dire, un impianto di allarme che suona in assenza di pericolo è qualitativamente differente da un analogo impianto che si comporti nel modo in cui ci si aspetta che si comporti. Potremmo dire che uno funziona bene e l’altro male.. Ad ogni modo, l’origine di tale differenza viene rintracciata nella strutturazione di una teoria del mondo disfunzionale, ossia una interpretazione del mondo come pieno di pericoli quando ciò non sarebbe “vero”. Meglio, quando invece i pericoli sono probabilisticamente poco importanti.

Sarebbe insomma “errata” l’interpretazione, il “belief” sul mondo che in realtà non è poi così pericoloso. Insomma, un paradigma è “giusto” e l’altro è “sbagliato”. E’ questa un’ottica “realista” e che mira alla correzione dei “pensieri illogici”. Ciò non toglie che i “sani” muoiano spesso in incidenti stradali perché non portavano le cinture di sicurezza allacciate in quanto avevano induttivamente realizzato, in base alla propria esperienza precedente, che non portare la cintura non è pericoloso, fino a che non sono incappati nel cigno nero di Popper; né esclude che gli stessi “sani” che valutano la probabilità che si verifichi un evento negativo talmente bassa da non mettere in pratica alcuna attività difensiva, valutino probabilità statisticamente paragonabili a queste abbastanza possibili quando si tratta di giocare alla lotteria. Insomma, la pretesa scientificità o anche solo “logicità” del pensiero sano è abbastanza discutibile. La psicoterapia, in quest’ottica “realista”, viene a configurarsi come la sostituzione, indotta con una metodica pedagogica, di una ipotesi del mondo con un’altra. Sostituzione arbitraria? Niente affatto; innanzitutto, perché è sempre meglio una teoria utile piuttosto che una vera, in secondo luogo perché altrimenti si cade in un’altra utopia, ossia si rischia di scivolare su certe sbavature dell’”anti-psichiatria” (Laing, Esterson e loro adepti convinti o per “moda”) o addirittura della “non psichiatrica” (Thomas Szasz). L’utopia, cioè, nel primo caso, che la malattia psichiatrica possa essere messa “tra parentesi” e la terapia passi per l’opposizione alla struttura sociale che la origina, nel secondo caso, addirittura, che la malattia non esista per nulla e che il delirio, l’allucinazione ecc. siano tratti personali non giudicabili quali gli occhi chiari o i capelli biondi. In tal caso, la terapia non sarebbe altro se non un abuso ai danni della libertà personale.

Se curiosiamo nelle fedi politiche di chi ha espresso queste visioni “alternative” non ci si dovrà sorprendere nello scoprire il terreno di coltura (pseudo)socialista nel primo caso, né scoprire che T. Szasz è un fautore del libertarianism, ovvero quello strano anarchismo capitalista americano che si configura come un liberalismo ultrà, jeffersoniano, tutto centrato sulla difesa della libertà individuale. Due visioni contrapposte, quindi, anche se appaiono una l’estremizzazione dell’altra. In conclusione, ogni idea dell’uomo è un’idea sociale; ogni teoria della modificazione dell’uomo veicola un’utopia. E’ in tal senso, ad esempio, che perfino Giovanni Jervis può affermare, in anni a dire il vero piuttosto sospetti, che “l’ ossessività è la virtù media del capitalismo” e che la terapia dell’ossessività “è educazione al coraggio, all’anticonformismo e al dissenso”.

Tutte queste considerazioni mi inducono a guardare con occhio particolarmente benevolo gli sviluppi costruttivistici della psicoterapia cognitiva (Kelly, Guidano e Liotti, ecc.). In tale ottica si abbandona la presunzione di poter cogliere una realtà ontologicamente data e con essa l’idea di portare gli individui a coglierla, a conformarvisi o ad opporvisi. Si riconosce, in pratica, un relativismo che ammette l’esistenza di tante realtà quante sono le costruzioni individuali; queste non sono più o meno vere, bensì più o meno utili, adatte, funzionali, viabili, percorribili. Ognuno struttura la propria esperienza, il proprio flusso in modo attivo e dà significato al mondo. Ogni paradigma ha quindi la sua dignità. La patologia sorge laddove una costruzione non riesce più a garantire la propria coerenza, il proprio adattamento e continui a venire utilizzata.

In questo caso la terapia non sarà più la ricostruzione di una coerenza fra un mondo interno ed uno esterno (incoerenza inter-paradigma), bensì la riequalibratura dei propri costrutti che vengono a trovarsi in una incoerenza interna (intra-paradigma). Von Glaserfeld ci fornisce l’esempio più chiaro di cosa comporti l’adozione di questa visione scevra da utopie e missioni: egli mette a confronto i termini match (“corrispondenza”) con fit (“adattamento”).

Il realista cerca una conoscenza che corrisponda alla realtà (quello che conosco è una copia identica di ciò che è fuori) ma se diciamo invece che una cosa è adatta, ciò corrisponde ad una diversa relazione: “una chiave è adatta se apre la serratura. L’adattamento descrive una capacità della chiave, non della serratura. Grazie agli scassinatori di professione, sappiamo anche troppo bene che esistono molte chiavi che, pur avendo delle forme molto differenti dalla nostra, aprono le nostre porte”. Insomma, questo non ci dice niente sulla serratura, su chi l’ha costruita e su come sarebbe meglio modificarla. Ancora, ci può solo dire se una chiave sia “non adatta”, “da riparare” ma non detta leggi su quale sia la chiave ideale.

Si ricostruisce così quel relativismo che è realmente libertario nonché il rispetto per la dignità delle costruzioni individuali di significato di ogni unico, irripetibile ed inconoscibile uomo che, come dice il poeta Sergej Evtushenko, “è un pianeta”.

NOTE

(1) APPROFONDIMENTO: si pensi a quante dottrine politiche ritengono che il fine dell’azione sociale sia la costruzione di un homo novus.

(2) APPROFONDIMENTO: Egli, inoltre, era convinto che “il controllo della popolazione nel suo insieme dev’essere delegato a specialisti: poliziotti, preti, imprenditori, insegnanti, terapeuti, ecc., che dispongono di rinforzi specializzati e di contingenze di rinforzo codificate”. Il controllo, in altri termini, è benefico perché rende il mondo più sicuro. Quest’ultimo è molto critico circa una tecnologia del comportamento il cui dichiarato fine è di “progettare un mondo in cui il comportamento probabilmente soggetto a punizione dovrebbe presentarsi raramente o addirittura mai” . Skinner è esplicito: “Uno stato che trasformi tutti i suoi cittadini in spie, o una religione che promuova il concetto di un Dio onnisciente, eliminano ogni possibilità di sottrarsi alla punizione e dànno quindi efficacia estrema al sistema punitivo. La gente si comporta bene benché non vi sia una supervisione percepibile”.
Questa sarebbe la condizione ideale perché, “ovviamente” la libertà “cresce al diminuire dei controlli visibili”. Concetto un po’ bizzarro di libertà. Più che un’utopia, insomma, questa è una distopia, uno scenario da romanzo cyberpunk alla Gibson o alla Sterling.

(3) APPROFONDIMENTO: la cosa si fa particolarmente evidente con la cosiddetta terapia della Gestalt, una delle più diffuse pratiche umanistiche, in cui la libertà di autodeterminazione e individuazione assume connotati libertari estremi e i cui fondatori Fritz Pearls e Paul Goodman non hanno mai fatto mistero della loro adesione all’anarchismo militante. Si può perfino affermare che, sia come luogo “ideale”, sia come espressione massima delle propria filosofie, Walden Two sia il contraltare, l’opposto esatto di Esalen, la comunità proto-hippie e libertaria che è il centro propulsore della Gestalt Therapy.

(4) APPROFONDIMENTO: Feyereband rappresenta anche, in ambito politico, il superamento dell’idea popperiana di “società aperta” per sostituirla con la “società libera” scevra da fondamentalismi, inclusi quelli della “scienza”, insomma l’ampliamento dell’anarchismo dal metodo scientifico alla società.

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