Nonluoghi Archivio Mercato e povertà: binomio impossibile?

Mercato e povertà: binomio impossibile?

di Andrea Gallina*
Finalmente – ci comunica l’autorevole rivista americana Foreign Policy nel numero di maggio/giugno 2004 – i poveri non vanno più considerati come le vittime passive dello sviluppo ma, grazie alle nuove strategie delle Transnazionali (TNC), assumono il ruolo attivo di consumatori. Questo è una novità di non poco conto che cambia radicalmente la percezione del pastore africano o dell’indios della foresta amazzonica, compassionevolmente considerati un po’ sfortunati ma anche un po’ incapaci, e allo stesso tempo ha delle implicazioni non indifferenti per la comprensione dei fenomeni di globalizzazione. Vediamo come e perché. Prima di tutto, scopriamo che 4 miliardi di poveri diventano un obiettivo reale di mercato delle transnazionali che producono dai profumi ai computer ai telefonini. L’ampiezza di questo mercato in termini monetari è enorme. L’articolo citato riporta che in India 171 milioni d famiglie povere rappresentano un mercato di 378 miliardi di dollari. In Cina 286 milioni di famiglie povere hanno un potere di acquisto di 691 miliardi di dollari mentre 25 milioni di famiglie povere brasiliane portano a casa 73 miliardi dollari tutti da spendere nei cosiddetti “beni di consumo di massa pronti per l’uso”. Complessivamente, le 680 famiglie povere nei 18 paesi cosiddetti “emergenti” rappresentano un mercato più grande di quello della Germania. Insomma, il potere d’acquisto del singolo indiano o brasiliano sarà pure minimo ma se messo insieme diventa una torta da far gola a chiunque.

Fenomeno questo in controtendenza alle recenti analisi sulla globalizzazione le quali descrivendo l’evoluzione del capitale negli anni 1970-1990 ne metteva in evidenza le sue caratteristiche poco espansive. Cioè concentrandosi nei mercati ricchi della triade Stati Uniti-Unione europea-Giappone, le Transnazionali nel “migliore dei casi” avrebbero sfruttato alcune zone della periferia del mondo per delocalizzare le produzioni con meno valore aggiunto, più inquinanti e a intensità di lavoro, per poi riesportare i prodotti nella Triade. Questa nuova fase del capitalismo non espansivo e marginalizzante venne battezzata Globalizzazione Triadica. Oggi invece l’Avon sta studiando nuovi prodotti e nuove tecniche di marketing e distribuzione per arrivare fin nei villaggi più sperduti dell’India in cerca di nuovi clienti. Quindi è giunto il momento di dare ai poveri il benvenuto nel mondo del consumo di massa!

In secondo luogo, se è vero che le TNC hanno percepito le potenzialità di questi mercati – come ci fa credere l’articolo citato – potrebbe esserci uno sviluppo tecnologico in grado di adattare le nuove invenzioni ai bisogni di 4 miliardi di persone. Gli effetti di traboccamento delle nuove tecnologie sui sistemi di produzione locale porterebbero dei benefici in termini di soluzioni innovatrici non indifferenti. Ma in realtà stiamo parlando di beni di consumo per produrre i quali in modo economico servono enormi economie di scala e dipendenti da investimenti in ricerca che sono appannaggio delle transnazionali.

Terzo, per evitare le accuse di sfruttamento, sempre più frequenti anche nei paesi del terzo mondo, le TNC indossano i panni di imprese socialmente responsabili per trovare la legittimazione necessaria, morale ed etica. E spesso con la complicià delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali e agenzie multilaterali. Ad esempio, Nestlè e Coca Cola hanno nominato un ombudsman per verificare che le attività promozionali non etiche vengano condannate. Oppure danno le licenze a imprese locali, come la Hindustan Lever, per la distribuzione, evitando quindi di essere oggetto di accuse.

Dunque, sembra che ancora una volta nella storia siano i poveri a far arricchire i ricchi. Prima con gli schiavi, poi con i diamanti e il rame, oggi comprando i loro cosmetici e telefonini. Questa volta però nella piena legalità e senza sfruttamento, anzi complici i poveri stessi.
Le TNC americane Amway e Avon assumono direttamente i poveri per distribuire i loro prodotti. In India la Hindustan Lever prevede di assumere 500 mila poveri per distribuire direttamente i prodotti nei prossimi cinque anni.
Il mercato capitalista è inafferrabile e inarrestabile. E la capacità di mutamento che possiede è molto più rapida ed efficiente delle analisi che cercano di studiarlo. Mentre gli intellettuali pensano le TNC agiscono e si riorganizzano.

Quinto, in questo modo i poveri hanno maggiore accesso ai nuovi prodotti, maggiore scelta e un maggiore potere d’acquisto. Ma questo semplice, seppur forte, argomento è inconsistente. Perché? Innanzitutto i nuovi prodotti o servizi sono controllati, prodotti e pensati da altri e non dai poveri. In questo modo un vero “empowerment” non è realizzabile. Poi, una maggiore scelta non significa una maggiore possibilità di acquisto. Infatti, se le TNC offrono invece che un pollo intero, perché troppo caro, una confezione di pezzi di pollo più leggera e quindi più economica il potere di acquisto dei poveri è lo stesso ma in pratica si “sblocca” consentendo una maggiore scelta d’acquisto.
Polli più piccoli, bottiglie di shampo minuscole, carte telefoniche prepagate meno care, cioè il grande business a piccoli prezzi. È questo l’empowerment di cui parlano gli economisti dello sviluppo? La donna indiana che passa la giornata a spazzare la strada spaccandosi la schiena per mezzo euro al giorno, ma che ha finalmente la possibilità di comprarsi una mini confezione di crema solare che le protegge la pelle, è diventata “più potente”?. E di esempi come questo ce ne sono moltissimi. Oltre al fatto che riempiremmo di tonnellate di plastica questi paesi.

Ma allo stesso tempo chi ci dà l’autorità per dire ai poveri indiani, cinesi o brasiliani di non comprarsi il telefonino? Chi ci dà l’autorità per non fargli comprare gli stessi cosmetici con cui noi ci trucchiamo?

Partendo da questi interrogativi dobbiamo riflettere sui tipi di consumo che il pianeta può sostenere nei prossimi anni. Ma un cambiamento radicale deve avvenire prima di tutto a partire dai paesi già ricchi e altamente consumatori, e non solo in India e Cina.

Credere che i poveri possano diventare più ricchi perché hanno accesso a beni di consumo economici è una proposta attraente. Ma dietro al cavallo di Troia degli shampoo e degli specchietti e collanine di Cristoforo Colombo sappiamo fin troppo bene cosa si è nascosto.

* Andrea Gallina è direttore del Centro Federico Caffè,
Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Roskilde, Danimarca.

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