Nonluoghi Archivio Danimarca, la facoltà della Mondialità dell’Università del Bene comune

Danimarca, la facoltà della Mondialità dell’Università del Bene comune

di Bruno Amoroso e Andrea Gallina *
[Centro Federico Caffè & Facoltà della Mondialità dell’Università del Bene Comune]

Chi ha detto che c’è del marcio in Danimarca? L’Università del Bene Comune continua a seminare le sue antenne in giro per il mondo e questa volta tocca proprio alle terre tanto amate da Shakespeare. A Copenhagen il 26 agosto si inaugura la facoltà della Mondialità con un dibattito pubblico al quale sono invitati i rappresentanti della società civile di varie parti del mondo e accademici di primo piano (James Galbraith, Riccardo Petrella, Pietro Barcellona, eccetera).
L’oggetto della Facoltà della Mondialità è duplice: da un lato si tratta della mondialità della condizione umana e della vita, condivisa con le altre specie viventi, in un mondo finito; dall’altro si tratta della mondialità della coscienza dell’appartenenza a una comunità globale (l’umanità), di cui certi valori e certe pratiche costituiscono un bene comune, un «patrimonio» comune. L’obiettivo di questa Facoltà è creare uno dei luoghi e uno dei tempi di ricerca e di apprendimento in cui ci si educa a pensare e a promuovere il bene comune tramite l’approfondimento e la comprensione dei processi che favoriscono il vivere insieme al livello del pianeta e del sistema-mondo.
L’accelerazione dei cambiamenti tecnologici – specialmente nel corso della seconda metà del XX secolo – ha facilitato la presa di coscienza della mondialità. All’opposto, gli attuali processi di «globalizzazione», in cui la globalizzazione è «promossa» come lo sbocco inevitabile di una logica finanziaria, produttiva e commerciale guidata dai rapporti di scambio su mercati sempre più mondiali, preoccupano l’opinione pubblica. Sono molti (e il loro numero va crescendo) i gruppi sociali e i movimenti organizzati che si oppongono alla subordinazione del destino dell’umanità alle «leggi del mercato». La globalizzazione dell’economia secondo le dinamiche attuali non può ragionevolmente essere considerata come l’espressione della modernità e il simbolo del progresso umano.
In tale contesto, la società civile consapevole dei pericoli dell’ideologia del «vangelo della competitività», delle devastazioni ambientali che quest’ultima produce sul nostro pianeta e delle paure che ha suscitato con la deificazione del mercato e la reificazione dell’essere umano; consapevole della rapidità dei cambiamenti tecnologici (basta pensare alle tecnologie dell’in-formazione e alle biotecnologie moderne…) e preoccupata per il fatto che gli esseri umani rischiano di non avere più il controllo della loro potenza; consapevole, infine, anche se ancora limitatamente, dell’emergere di una «cittadinanza» mondiale, planetaria in questi ultimi tempi ha fatto udire la sua voce a Seattle, Praga, Göteborg, Genova, Québec, Porto Alegre, Firenze, Cancun, non senza difficoltà e non senza alcune contraddizioni.
In maniera «proattiva», ma anche per reagire a un tale stato di fatto, la Facoltà della Mondialità dell’Università del Bene Comune vuole essere un tentativo «responsabile» di ripensare le dinamiche del mondo, di mettere in discussione certi paradigmi dominanti e l’opera di omologazione culturale mondiale, e di agire sugli attuali processi di «globalizzazione».
La Facoltà della Mondialità si propone di contribuire a (ri)creare una capacità di pensare il bene comune a livello locale e mondiale; a ridefinire i fondamenti e i valori del mondo secondo altre parole-chiave; a reintrodurre «l’altro» nella dinamica dei rapporti interpersonali all’interno delle comunità umane e in tutte le relazioni della società mondiale e dell’ecosistema planetario.
Il fatto di considerare “beni comuni” -che trascendono sia ogni eurocentrismo o occidentalismo sia ogni particolarismo culturale e relativismo- i diritti alla vita delle persone e delle loro comunità, i valori che costituiscono la base di convivenza e esistenza di ogni cultura, il policentrismo come la base umana di coesistenza di popoli e culture diverse nel rispetto reciproco, permette di superare quei comportamenti che la globalizzazione della condizione umana e della vita sul pianeta rendono inaccettabili.

Gli assi tematici

Il punto di partenza sarà costituito dall’analisi dei fenomeni di «mondializzazione» nel corso della storia umana a partire da una conoscenza specifica e comparata dell’eredità delle diverse civiltà che hanno dato forma alla storia delle società umane (cinese, indiana, araba, europea, africana, americana). Il percorso storico dovrà permettere di pervenire a un’analisi dettagliata dei «discorsi» attuali sulla «globalizzazione» e del modo come questi hanno espropriato il linguaggio sui temi della mondializzazione dell’economia e della mondialità…
La geografia, la storia, l’etnologia, l’antropologia, la biologia, la fisica, la sociologia, la scienza politica, l’economia, l’ecologia getteranno una luce particolare sui fenomeni di mondializzazione, mentre lo studio della diversità e delle particolarità delle pratiche sociali e delle esperienze umane permetterà di comprendere meglio la natura della mondialità.
La mondialità, infatti, è uno «stato». È fondamentalmente diversa dalla «globalizzazione», che definisce, secondo i discorsi oggi dominanti, i processi di estensione globale delle attività economiche. La mondialità della condizione umana non ha avuto –e non ha– bisogno della globalizzazione attuale per esistere. Invece la «globalità» dell’economia attuale non esisterebbe se non ci fosse stata la globalizzazione dei mercati finanziari, dei capitali e dei flussi finanziari, delle imprese capitalistiche.
La Facoltà della Mondialità cercherà di superare le pratiche linguistiche che confondono mondialità, mondializzazione e mondialismo da un lato, e internazionalizzazione, multinazionalizzazione, transnazionalizzazione, globalità, globalizzazione e globalismo dall’altro.
La Facoltà incoraggerà anche la ricerca sul modello di globalizzazione oggi dominante, allo scopo di identificare e proporre delle alternative in termini di sviluppo, di innovazione, di rimedio, di sostegno, di valorizzazione.
Allo stesso modo, una ricerca-azione su «cultura» e «culture» e sul cambiamento sociale in corso, sulle alternative e sulle esperienze di trasformazione sociale, permetterà di conoscere meglio i processi di affermazione e di resistenza all’omogeneizzazione, all’uniformazione, all’integrazione totalitaria, alla diversità, alla pluralità, all’universalità…
Non si tratterà di un «insegnamento» tradizionale, basato su corsi ex cathedra, ma di una maieutica partecipativa maestro-discepolo, alimentata da una ricerca condotta in comune. La condivisione delle conoscenze avverrà in maniera aperta, grazie alla diffusione più ampia possibile dei «saperi» prodotti dalla Facoltà. I sindacati, gli organismi pubblici, le organizzazioni internazionali, le ONG, saranno associati ai lavori dell’UBC in quanto protagonisti e beneficiari di un processo di costruzione di conoscenze fondato sulla distribuzione-condivisione.
Gli assi principali delle attività di ricerca e di apprendimento si articoleranno intorno a «tre tematiche»: 1) i beni comuni; 2) i distretti del sociale, 3) il funzionamento dei mercati.
1) I Beni comuni, da ridefinire OGGI rispetto a quelli degli inizi del secolo scorso, che comprendono sia i beni necessari sia i nuovi settori strategici per la vita delle comunità. Una prima lista comprende l’acqua, la scuola e la sanità. Non si tratta di proporre su questi temi un semplice ritorno al “pubblico” nelle forme stataliste adottate agli inizi del secolo scorso (nazionalizzazioni e public corporations), ma di criteri di proprietà e gestione pubblica basati su alti livelli di gestione e partecipazione affidati alle comunità locali ed alla società civile.
2) I distretti del sociale. “De-privatizzare” significa estendere l’area dei processi di de-mercificazione a forme di organizzazione del settore privato dell’economia, che valorizzino e stimolino la nascita di tutte quelle forme di economia cooperativa e associativa legate al concetto di “altra economia”, “economia degli affetti”, “idee di solidarietà”, “distretti del sociale”.
Queste economie possono svilupparsi se si riesce a creare un loro spazio nell’economia di mercato, che favorisca la partecipazione degli interessati, forme di utile sociale coerenti con la propria ispirazione, ecc. Forme di organizzazione e gestione delle economie che vanno però liberate dai lacci e laccioli giuridici creati per difendersi da o per proteggere posizioni di monopolio, sia dal lato economico sia da quello istituzionale.
In questo senso per queste “altre economie” va richiesta un affrancamento dalle norme create da governo e sindacati per l’economia capitalistica, e che impediscono a queste nuove strutture di funzionare in un contesto di crescente de-mercificazione, de-monetizzazione, di scambio solidale di beni e servizi, eccetera.
Il rafforzamento di queste istituzioni dell’economia di mercato potrà avere un effetto positivo di orientamento anche per il resto del settore privato dell’economia, cioè sulle imprese private. Riportare insomma il mercato dentro la comunità ed il sistema di “legami sociali” che deve contribuire a conservare e rafforzare.
3) I mercati. Ridare contenuti e slancio al settore privato dell’economia su linee di gestione che favoriscono il ricongiungimento all’economia reale, il perseguimento di utili di impresa dentro canali di produzione e di servizio liberati dal sistema delle “tangenti” creato dai sistemi finanziari, da un eccessivo peso statale sui costi e le decisioni di impresa. La creazione di una cultura d’impresa capace di incorporare le problematiche dei costi sociali, dell’economia di pace, che ristabilisce un giusto rapporto ai valori culturali dell’impresa, della produzione e del consumo, aperta al dialogo con le comunità e le società in cui opera, si ripropone come obiettivo perseguibile. La “responsabilità sociale dell’impresa” deve divenire organica al funzionamento delle imprese mediante un chiaro orientamento promozionale in questa direzione delle politiche economiche (e punitivo del contrario). I tentativi di appropriarsi di queste problematiche mediante il concetto di “etica dell’impresa”, pensata e attuata come un orpello ex-post, destinato a legittimare conduzioni di impresa e scelte di politica economica di orientamento opposto, vanno analizzati e messi in luce.
Questi temi sono tracce da sviluppare e che saranno posti alla base dei programmi di ricerca dei nodi della rete della Facoltà della Mondialità e del centro di coordinamento (Centro Federico Caffè – Università di Roskilde, Danimarca). Ovviamente costituiscono temi trasversali quello della “non violenza” e delle “economie di pace” come alternative alla “violenza” della globalizzazione e alla “guerra”. La nonviolenza e la cultura della pace, se non vogliono restare stretti tra l’accusa di utopia religiosa da un lato, e di forme inefficaci di lotta dall’altro, devono affermarsi come il metodo più “forte” ed “efficace” di reagire alla violenza generale provocata dalla globalizzazione.
La Facoltà della Mondialità inizierà le sue attività elaborando dei moduli formativi legati alle problematiche delle migrazioni e dell’incontro interculturale (insieme alla Facoltà dell’Alterità), alla comprensione del funzionamento e delle forme di partecipazione necessari per una diversa organizzazione delle nostre comunità e società, alla valorizzazione e crescita dei saperi utili ad un diverso orientamento delle nostre forme di vita. L’incontro del 26 e 27 agosto servirà a dare contenuti propri a questo programma sulla base delle attività e delle esperienze che ciascuno di noi porta avanti da anni. Viva l’Università del Bene Comune!

Per informazioni contattare il Centro Federico Caffè (www.ssc.ruc.dk/federico oppure lo 0045-40755833).

* Questo articolo è uscito nel settimanale Carta il mese scorso.

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