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Foibe, bilancio e rilettura

Ritenendolo un contributo utile all’approfondimento storiografico, riproponiamo questo saggio sul tema delle foibe, già pubblicato da Nonluoghi nel 2007 per gentile concessione dell’autore.

di Antonio Burigo *

Il saggio qui presentato vuole prendere in esame, servendosi di scritti, testi e documenti della storiografia sull’argomento, un problema discusso della recente storia italiana ed europea, la questione delle foibe e degli infoibati nella Venezia Giulia, in due periodi ben precisi: settembre-ottobre 1943 e maggio-giugno 1945.

Vanno innanzitutto spiegati i due termini: “foiba” e “infoibati”. Il termine “foiba”, dal latino fovea, fossa, abisso, dal punto di vista geologico è una cavità naturale, spesso una vera e propria voragine a forma di imbuto. Le foibe sono molto numerose in tutta la regione e possono avere dimensioni variabili, dovute alla conformazione geologica del terreno, costituito prevalentemente da carbonato di calcio, che viene eroso dalle piogge e dai corsi d’acqua sotterranei; questo fenomeno geo-morfologico è chiamato carsismo.

Esistono nella Venezia Giulia oltre cinquemila grotte, foibe, voragini, inghiottitoi ed abissi ad ognuno dei quali il catasto grotte ha assegnato un numero di identificazione. In queste cavità, anche profonde centinaia di metri, veniva gettato tutto ciò che non serviva più e di cui era difficile liberarsi altrimenti: rifiuti, carcasse di animali, sterpaglie, calcinacci, scarti di qualsiasi genere; in tempo di guerra anche caduti in azioni militari, da togliere di mezzo con rapidità. In seguito il termine “foiba” ha perso il significato geologico per assumerne uno storico, di tragica risonanza evocativa, che rimanda immediatamente la memoria alle drammatiche vicende che accaddero nella Venezia Giulia tra l’autunno 1943 e la primavera 1945. Gli “infoibati” furono, letteralmente, tutti coloro che vennero gettati, vivi o cadaveri, nelle foibe, ma il termine ha assunto, nel linguaggio politico e in quello di una certa parte della storiografia, un significato più esteso fino a comprendere tutte le vittime italiane, quindi anche le persone cadute in combattimento o fucilate o affogate o fatte sparire nelle cave di bauxite o semplicemente scomparse nelle due ondate di violenza avvenute nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945.

Al contrario con il presente saggio si vuole dimostrare che gli infoibati propriamente detti, cioè coloro che effettivamente vennero gettati nelle foibe, furono in numero minore rispetto alle cifre generalmente “gonfiate” che vengono riportate da una parte della storiografia. Spesso infatti la questione delle foibe è stata oggetto di interpretazioni strumentali, più politiche che storiche.
Tuttavia le esplosioni di violenza, nella Venezia Giulia, non risultano pienamente comprensibili se non le si pone in rapporto con l’accumulo di tensioni verificatosi negli anni del fascismo e giunto al culmine durante l’occupazione italiana della neonata provincia di Lubiana. La questione delle foibe colpì, nel settembre 1943, soprattutto le aree rurali in Istria, dove, come vedremo, la “rivolta” rurale dei contadini contro i possidenti terrieri assunse anche connotati politici, oltre che sociali, esprimendo la volontà di distruggere le tracce del controllo fascista e di perseguire i “nemici del popolo”, cioè coloro che rappresentavano in qualche modo il regime fascista.

Infine, è necessario analizzare delle foibe del maggio-giugno 1945, quando furono le città, Gorizia ed in particolare Trieste e il suo circondario, a subire le deportazioni, le uccisioni e gli infoibamenti. Nel 1945, a differenza del 1943, ci fu un’epurazione di impronta più propriamente politica, in quanto vennero perseguiti i fascisti, ma anche gli antifascisti non comunisti, cioè coloro che non volevano l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Va inoltre ricordato che in entrambe le ondate di violenza ci furono anche vendette personali ed efferatezze compiute da autentici criminali che troviamo sia tra gli infoibati che tra gli infoibatori.

Con l’avvento del regime fascista che si impegnò, anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali, sia slovene che croate che tedesche (dell’Alto Adige), che francesi (della Valle d’Aosta), le scuole furono tutte italianizzate, così come i cognomi ed i toponimi; fu proibito l’uso pubblico di lingue diverse dall’italiana; i partiti politici e la stampa periodica vennero messi fuori legge; fu promossa l’emigrazione nelle campagne istriane (colonizzazione agricola nella Venezia Giulia), che vide anche un notevole flusso soprattutto di contadini e militari dal sud Italia, infine venne proibito l’uso della lingua non italiana.

Mai era accaduto che venisse negato il più elementare dei diritti, quello dell’uso della lingua materna. Una fitta rete di arbitrii ed umiliazioni da parte di autorità e gerarchie periferiche, di segretari fascisti locali, unita spesso alle precarie condizioni economiche, accompagnava la vita quotidiana degli sloveni emarginati dalle città. Bisognava adeguarsi, compiere una serie di dolorose rinunce o emigrare. Alcuni, per uscire da questa condizione servile ed anche per ragioni di interesse, si fecero fascisti, assimilandosi alla mentalità e ai riti del regime.

Ma il regime non era solo durezza repressiva, era massificazione pedagogico – politica dei giovani inseriti nelle sue organizzazioni militaresco – sportive della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) in cui furono inquadrati anche i giovani sloveni e croati. Veniva usato a questo scopo anche il sistema socio-assistenziale e ricreativo, esteso anche nel retroterra.

Scuole agricole, dopolavoro, opere per la maternità, pasti per i poveri, non erano privi di efficacia nel disorientare gli “allogeni” indebolendone il senso di identità nazionale. Quanto era “diverso” dalla cultura, dal costume nazionalista e fascista a Trieste e nella regione, non poteva che essere antitaliano.

“L’odio verso l’Italia non era un fine bensì la logica conseguenza dell’oppressione. Dal momento che alla popolazione slava si impediva di salvaguardare la propria identità nazionale, in qualche modo era logico che l’antifascismo si identificasse nell’antitalianità”.

Durante il periodo di occupazione si era offerta l’opportunità di mettere in atto l’antico proposito del regime di sradicare e “sbalcanizzare” la regione limitrofa all’Italia, che avrebbe consentito la sostituzione delle popolazioni “slave” (slovene e croate) deportate con famiglie italiane, dando la preferenza alle famiglie dei soldati caduti.

A partire dall’estate 1942 le autorità italiane decisero di risolvere radicalmente la “questione slovena”, avviando l’internamento indiscriminato di tutto un popolo, complice, secondo le gerarchie, di sostenere compatto il movimento partigiano. I campi di internamento che andarono costituendosi in corrispondenza dei massicci rastrellamenti nella provincia di Lubiana nell’estate – autunno del 1942 furono numerosi non solo in Italia, ma anche in Jugoslavia e in Albania.

La sera dell’8 settembre 1943, quando il maresciallo Badoglio annunciò agli italiani l’armistizio, l’esercito italiano apparve disarticolato nella disposizione, privo di guida e di indicazioni, inerme. La sensazione che la guerra fosse finita fece dilagare in poche ore tra tutti i militari la voglia di tornarsene a casa, abbandonando le armi Molti militari, stanziati nella penisola Balcanica, dopo la frenetica ricerca di un abito civile, cercarono di raggiungere Trieste, città dalla quale era più facile partire verso le altre regioni italiane, e nel loro peregrinare, spesso a piedi per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si prodigò, spesso rischiando anche di prima persona, per portare loro soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta.

L’obiettivo immediato che i partigiani ebbero nei primissimi giorni della disfatta italiana fu quello di impossessarsi dell’ingente quantitativo di materiali bellici che i militari italiani avevano abbandonato in ogni dove. Laddove i soldati italiani non opposero resistenza alle richieste degli insorti, questi ultimi fraternizzarono con i primi ed anzi li aiutarono ad intraprendere la via del ritorno verso casa. Diversi militari scelsero poi di unirsi ai partigiani per combattere i tedeschi.

È in questo improvviso vuoto di potere, dove non c’è più il riferimento ad alcuna autorità costituita civile o militare, che si inserisce il fenomeno inquietante delle “foibe” dell’autunno 1943, l’eliminazione brutale non solo di diverse centinaia di persone bollate come “nemici del popolo”, fucilate dopo processi farsa o fatte sparire nelle grandi voragini carsiche, ma anche di persone “condannate” a causa di vendette personali. Infatti è bene ricordare che molte persone non furono “infoibate”, ma furono uccise anche in altri modi diversi.

Molti vennero fucilati, altri morirono per malattie, per stenti durante la loro prigionia, altri ancora per esecuzioni sommarie, altri vennero fatti affogare in mare, a causa sia della loro passata partecipazione al regime fascista che, come è già stato detto, per vendette personali.

Nell’anarchia del dopo armistizio, dominata dalla confusione e dall’incertezza, si sviluppano due diverse dinamiche: da una parte l’intervento organizzato delle formazioni partigiane slave, sia quelle che operavano nell’area istriana, sia quelle che avevano le proprie sedi operative nelle regioni situate appena oltre il vecchio confine; dall’altra l’insurrezione spontanea dei contadini croati, che si impadronirono delle armi abbandonate dai militari italiani dando vita ad una vera e propria “rivolta”, con incendi di catasti e archivi comunali, assalti ai proprietari terrieri e violenze sulle persone. La prima dinamica è più facilmente ricostruibile.

Le forze partigiane provenienti dalla Croazia attraversarono il confine all’indomani dell’8 settembre, congiungendosi con i nuclei del ribellismo locale e con unità slovene, occuparono magazzini, depositi e caserme del regio esercito ormai sguarniti di difese ed asportarono armamenti e materiali bellici di ogni tipo. Tra l’11 e il 12 settembre i partigiani occuparono Pisino, nel cuore dell’Istria, che diventò il centro organizzativo di tutte le operazioni militari, politiche e di polizia e fu sede del Comando operativo dell’Istria. Negli stessi giorni il movimento si impadronì di tutte le città e i villaggi, assumendo ovunque il potere civile.

L’altra dinamica, vale a dire l’insorgenza dei contadini croati, con la quale l’occupazione dell’Istria da parte delle formazioni partigiane si intrecciò, è invece più difficile da ricostruire per i tratti di spontaneismo che la caratterizzano. Gran parte della popolazione rurale slava vide nel crollo della presenza italiana l’occasione per vendicare i torti subiti durante il ventennio fascista e dare sfogo alle rabbie represse. Distrussero le tracce del controllo statale fascista, bruciarono gli archivi dei municipi, cancellarono la toponomastica stradale ed infine si unirono ai partigiani. Tuttavia si scagliarono anche contro latifondisti e proprietari terrieri, che erano a maggioranza italiani, ma anche sloveni e croati.

L’inizio delle operazioni di polizia coincise con l’insediamento delle nuove autorità: fermi, perquisizioni, confische, interrogatori, arresti furono gli strumenti attraverso i quali il movimento partigiano affermò il proprio controllo sul territorio. Vennero istituiti “tribunali del popolo” i quali con processi sommari condannarono alla pena capitale gli imputati a cui non venne concessa nessuna possibilità di difesa; la lettura dei capi d’accusa era già di per sé una sentenza di colpevolezza.

“Nemico del popolo” era una formula sufficientemente ampia per risultare generica e comprendere categorie diverse. I primi ad essere colpiti furono squadristi e gerarchi locali, ma accanto a loro ci furono anche i rappresentanti dello Stato italiano, podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali.

È evidente la diffusa volontà di spazzare via chiunque avesse ricordato la passata amministrazione, “odiata dalla popolazione slovena e croata per il suo fiscalismo, oltre che per le sue prevaricazioni nazionali e poliziesche”. I connotati politici della rivolta si saldarono a quelli sociali e i possidenti italiani, ma anche croati e sloveni, diventarono a loro volta obiettivo delle retate. Sorte simile toccò a molti dirigenti, impiegati e capi squadra di imprese industriali, cantieristiche e minerarie.

Nell’Istria interna il movimento di liberazione fondò largamente la sua organizzazione sui “narodnjaci” cioè sui maggiorenti locali che erano gli esponenti più convinti del tradizionale nazionalismo croato e la cui influenza concorre ad imprimere alla rivolta un preciso orientamento anti italiano.

Uno dei compiti principali che le autorità popolari si prefissero fu la liquidazione di ogni forma di riferimento della comunità italiana. Si colpì così chi venne percepito come fascista, o come possidente, o come italiano, in una confusione di ruoli che nell’immaginario collettivo della rivolta si sovrapposero l’uno all’altro. Per questa ragione scomparvero anche commercianti, insegnanti, farmacisti, veterinari, medici condotti e levatrici, vale a dire le figure più visibili e influenti della comunità italiana, che vennero aggredite proprio in quanto tali.

La lotta contro il fascismo assumeva pertanto il carattere di una lotta di liberazione nazionale tesa a cacciare via l’Italia, identificata con il fascismo stesso, dall’Istria e annettere quest’ultima alla nuova Jugoslavia di Tito.
Davanti a questi fatti, molti istriani di etnia slava che non avevano in passato manifestato né una posizione politica particolare né la propria avversione verso lo Stato Italiano, si schierarono di colpo a favore del Movimento Popolare di Liberazione di Tito che appariva sempre più in grado di vendicare i torti e le offese subite dai singoli durante il periodo fascista.
La combinazione tra la violenza mirata dell’arresto e quella selvaggia dello stupro e dell’uccisione spiega come gli eccidi nascano dal sommarsi di logiche diverse, riconducibili per un verso al furore della rivolta contadina, per l’altro alla lucidità di un progetto politico.

Nelle prime settimane di occupazione prevalse il giustizialismo politico partigiano, con procedure che prevedevano un simulacro di processo, mentre all’inizio di ottobre, quando l’offensiva tedesca mise sotto pressione le formazioni croate e slovene, costringendole prima ad arretrare e poi ad abbandonare del tutto l’Istria in una ritirata disordinata, il ritmo delle esecuzioni si fece convulso: i prigionieri potevano diventare testimoni scomodi e vennero eliminati senza più il processo, o lo scrupolo di agire di notte. E’ il momento delle affrettate liquidazioni di massa a causa delle esplosioni dei rancori personali e all’efferatezza delle vendette private.

L’uso delle foibe apparve perciò, in questi frangenti, la soluzione più immediata, anche e soprattutto perché evitava la perdita di tempo della sepoltura. In tutto il fenomeno c’è un rituale macabro che spesso accompagna le esecuzioni: accanto alle vittime vengono infatti infoibati uno o più cani neri, le cui carogne saranno ritrovate vicino ai cadaveri.

Il fenomeno delle foibe istriane del settembre-ottobre 1943 appare così delinearsi nei suoi tratti distintivi: il clima di una tumultuosa rivolta contadina, con i suoi improvvisi furori e la commistione di odi politici e personali, di rancori etnici, familiari e di interesse. Ciò non significa, però, che negli avvenimenti, certo confusi, di quei giorni non siano ravvisabili anche elementi significativi di organizzazione.
Secondo la pubblicistica di fonte partigiana vennero fermate ed arrestate quasi soltanto le persone legate al passato regime quali gerarchi e militanti fascisti vari. La storiografia di fonte italiana ha invece evidenziato che, più in generale, vennero colpiti tutti coloro che rappresentavano in qualche misura lo stato italiano.

Tra gli arrestati vi erano poi molte persone che non avevano colpe politiche particolari, né avevano aderito al regime, ma furono vittime di vendette personali da parte di singoli criminali che si servirono del particolare frangente storico per regolare vecchi conti in sospeso o vendicarsi di torti subiti.
I tempi e le modalità degli arresti variarono di paese in paese, a seconda anche delle diverse personalità che dirigevano i locali Comitati Popolari di Liberazione e dei rapporti che intercorrevano tra carcerieri e vittime, spesso compaesani o conoscenti. Va anche aggiunto poi che molto spesso vennero eseguite in diverse località istriane sentenze di morte mai pronunciate da alcun tribunale, a riprova del totale arbitrio che gli aguzzini, spesso autentici criminali, si presero.

I tedeschi, per mantenere il controllo del territorio, fecero ricorso all’esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma anche slovene e croate.
Se nel resto della penisola italiana le autorità tedesche perseguirono un progetto di “satellizzazione economica e politica”, nella Venezia Giulia, così come nella zona delle Prealpi, esse mirarono all’eliminazione delle identità nazionali, con una strategia più brutale nei confronti della comunità slava (che sul piano militare costituiva il nemico), ma furono determinate anche nel ridimensionare quella italiana (che all’opposto attraverso la Repubblica Sociale rappresentava l’alleato).

Dopo le prime segnalazioni di presenza di cadaveri negli inghiottitoi, ad inizio ottobre 1943, l’azione di ricognizione e di recupero venne affidata dal procuratore di stato all’ingegner Gaetano Vagnati, comandante del distaccamento di Pola del 41° Corpo dei Vigili del Fuoco. Le squadre si misero al lavoro, il 16 ottobre, dirette sul campo dal maresciallo Arnaldo Harzarich e assistite da un rappresentante della Procura; tutto intorno una adeguata scorta armata alla quale si unirono medici, sacerdoti, autorità civili, parenti delle vittime e numerosi fotografi. I primi lavori iniziarono in località Faraguni, nell’agro di Vines (Comune di Albona), nella foiba “dei Colombi” profonda 226 metri.

Le operazioni di recupero dei corpi richiesero sette giorni di lavoro, tra il 10 e il 25 ottobre; il lavoro era estremamente pericoloso e l’aria irrespirabile, infatti gli operatori dovettero indossare gli autorespiratori ed alternarsi nelle innumerevoli discese nella foiba. Vennero recuperate 84 salme. Il 4 novembre vennero riesumate 26 salme dalla foiba di Terli (Barbana), profonda 125 metri. Gran parte dei corpi presentava colpi di arma da fuoco alla testa o al viso. Successivamente vennero estratte a Treghelizza (Castellier) 2 corpi. Verso la fine di novembre i Vigili del Fuoco esplorarono i dintorni di Gimino ed il giorno 30 recuperarono in una foiba in località Pucicchi, a meno di un chilometro dal centro abitato di Gimino, 11 salme che presentavano diversi segni di arma da taglio. Verso la metà di dicembre 1943 ci furono altri recuperi. In particolare a Villa Surani, località nei pressi di Antignana, nell’Istria centrale, vennero riesumate 26 salme, ormai decomposte da tempo, da una foiba profonda 135 metri. Successivamente furono recuperate 8 salme in due diverse giornata a Cregli (Barbana). Infine nel dicembre 1943 furono riesumati 2 corpi a Carnizza D’Arsia.

I Vigili del Fuoco di Pola fra l’ottobre e il dicembre 1943 per il recupero delle salme, con l’appoggio saltuario della squadra soccorso delle miniere di Albona, estrassero 159 salme.
Tuttavia non in tutte le foibe fu possibile, soprattutto per insormontabili difficoltà tecniche, procedere ad un recupero anche parziale dei corpi. In altre esplorate dai vigili non fu possibile accertare il numero delle salme giacenti.
Ci furono anche ritrovamenti presso le cave di bauxite di Gallignana, nella zona collinosa vicino a Pisino, dove il recupero delle salme non presentò particolari difficoltà. Nei primi giorni di novembre 1943 i Vigili del Fuoco di Pola e di Pisino, al comando dell’ingegner Maracchi, recuperarono 21 cadaveri in una cava a Lindaro e successivamente altre 23 salme in una seconda cava a Villa Bassotti, entrambe le località site ad ovest di Gallignana.

Un tentativo di ricostruzione statistica può essere fatto, tenendo conto del numero degli scomparsi nelle varie località istriane nel periodo settembre-ottobre 1943.

Tuttavia è molto importante stabilire e chiarire una questione fondamentale: cosa intendiamo per “infoibati”. Esistono infatti due significati diversi della parola “infoibati”, uno letterale e uno simbolico. Letteralmente “infoibati” significa l’uccisione delle vittime e/o l’occultamento dei cadaveri che venivano gettati nelle cavità carsiche. In questo senso gli infoibati veri e propri furono solo una parte di tutti coloro che vennero uccisi nelle due ondate di violenza avvenute nel settembre-ottobre 1943 e nel maggio-giugno 1945. Invece nel linguaggio politico e in quello di una certa parte della storiografia il significato del termine diventa quasi simbolico e spesso si dilata fino a comprendere tutte le vittime italiane del biennio ‘43-’45, quindi anche le persone cadute in combattimento o fucilate o affogate o fatte sparire nelle cave di bauxite o semplicemente scomparse, insomma anche coloro che non furono gettati effettivamente nelle foibe.

Al contrario solo una parte degli uccisi e degli scomparsi subì quella fine. La differenza tra i due significati, non solo ha portato ad una diversa interpretazione del fenomeno, ma ha anche contribuito ad una diversa quantificazione delle vittime. Infatti molti studiosi interpretano il significato di “infoibati” in modo diverso. Per essere più precisi bisognerebbe parlare di scomparsi e uccisi da un lato e “infoibati” dall’altro. E’ da ritenere il significato letterale di “infoibati” il più corretto, pertanto stando a tali elementi si può approssimativamente calcolare che il numero delle persone realmente infoibate nell’autunno 1943 possa variare dalle 200 alle 300 persone, mentre per quanto riguarda gli scomparsi, i fucilati, gli annegati e gli uccisi in altro modo la cifra più attendibile è di 400-500 vittime.

Non bisogna dimenticare che i fascisti sfruttarono a fondo gli eccidi delle foibe a scopo propagandistico, ma in ogni modo le cifre degli infoibati, che sono appunto ben diverse da quelle degli uccisi e degli scomparsi, potrebbero esser ricostruite “facilmente” con l’aiuto delle esplorazioni fatte subito dopo gli infoibamenti, anche se non in tutte le cavità carsiche è stato possibile effettuare tale indagine.
Infatti le cifre delle vittime nell’autunno 1943 sono molto diverse, secondo i vari autori: si va da un minimo di 400 ad un massimo di 1000 persone uccise e scomparse.
In conclusione, bisogna ritenere che la cifra più veritiera sia di 500 per le persone uccise e scomparse, mentre, nel settembre-ottobre 1943, le donne e gli uomini, gettati nelle foibe, in quel periodo, furono molto meno, anche se la cifra esatta è impossibile da stabilire con esattezza.

Nella primavera del 1945 la presa della Venezia Giulia, ma soprattutto il possesso della città di Trieste si rivelò di importanza fondamentale, per fattori economici e di influenza politica, sia per gli anglo-americani sia per l’esercito di Tito. Infatti la contemporanea presenza di due distinti eserciti nel medesimo territorio rappresentò in quel periodo un’anomalia abbastanza inconsueta proprio perché le diverse forze, formalmente alleate, erano portatrici di interessi politici ed economici del tutto opposti e contrastanti.

Venne creata una Guardia del Popolo, appoggiata dalla Polizia Segreta jugoslava (O.Z.N.A.) e in seguito furono istituiti i “Tribunali del Popolo”. Nel quadro dei poteri popolari i tribunali militari furono chiamati a portare a termine il compito storico di fare giustizia nei confronti dei criminali di guerra e dei nemici del popolo. Venivano considerati criminali di guerra, senza distinzione di nazionalità, gli iniziatori, gli organizzatori, i mandanti, i collaboratori e gli esecutori materiali di eccidi di massa, di torture e di deportazioni, i funzionari dell’apparato amministrativo e delle formazioni armate dell’occupatore e della popolazione locale al suo servizio. Invece i nemici del popolo venivano definiti così: “gli ustascia, i cetnici, gli appartenenti alle altre formazioni armate al servizio del nemico, i loro organizzatori e collaboratori, le spie, i delatori, i corrieri, tutti i traditori della lotta popolare collegati all’occupante, tutti i disertori del popolo, tutti i demolitori dell’esercito popolare e collaboratori dell’occupante”.

Le indagini venivano svolte dall’O.Z.N.A. e dall’accusatore pubblico e lo scopo del tribunale era di “esaltare il potere jugoslavo e svelare tutti i crimini fascisti”.
Incominciarono i rastrellamenti con la cattura dei nazisti, dei fascisti e dei collaborazionisti. Iniziò pertanto una “resa dei conti” in tutta Italia, ma anche in tutta Europa, tramite la caccia e la cattura di tutte quelle persone che avevano partecipato, sostenuto o appoggiato il nazismo e il fascismo.

Nella Venezia Giulia la “resa dei conti” fu particolare per vari motivi. Innanzitutto perché la regione era una zona di confine “politico” che si andava delineando tra due diverse sfere di influenza. In secondo luogo perché la Venezia Giulia era strategicamente importante, sia dal punto di vista militare (gli anglo-americani potevano usare il porto di Trieste per i rifornimenti nell’avanzata e per un successivo consolidamento della loro posizione militare) sia dal punto di vista economico (il porto di Trieste era il più grande nel nord dell’Adriatico e sarebbe servito per distribuire le merci nell’Europa Centrale).

Il possesso della regione fu importante anche per stabilire una posizione di prestigio e una dimostrazione della propria forza politica e militare in quel periodo, ma anche successivamente. Il pretesto, sia da parte jugoslava sia da parte anglo-americana, e poi italiana, fu di inglobare questi territori per poter venire incontro ai propri connazionali, che si sarebbero trovati in uno stato confinante. È importante comunque far notare che la Venezia Giulia fu, nei secoli passati, sempre abitata da italiani, sloveni e croati in un clima di pacifica convivenza; anche oggi in queste zone gli abitanti vivono gli uni accanto agli altri senza alcuno scontro violento.

L’atteggiamento della popolazione verso le autorità jugoslave fu diverso a seconda della nazionalità e dell’ideologia politica. Tutti i filoitaliani furono contrari alle autorità jugoslave, infatti i soldati jugoslavi non furono considerati liberatori, ma nemici e nuovi occupatori. Diverso fu l’atteggiamento della gran parte dei lavoratori italiani. Per loro, fra i quali c’erano anche molti sloveni assimilati, la coscienza di classe ebbe il sopravvento sul sentimento nazionale e così si schierarono dalla parte della Jugoslavia che per loro era sinonimo di comunismo.

Dagli sloveni della Venezia Giulia, nazionalmente oppressi dall’Italia, la liberazione nazionale fu vissuta sotto un duplice aspetto: essa rappresentò non solo la cacciata dei tedeschi, ma anche e soprattutto la cacciata dell’Italia. Essi vedevano l’unica forza reale in grado di realizzare le loro aspirazioni nazionali nel movimento di liberazione sloveno e jugoslavo, per la sua forza e per la sua posizione all’interno della coalizione alleata, per cui vi partecipò anche chi non condivideva le idee comuniste che stavano ormai prevalendo. Perciò con l’eccezione degli anticomunisti più marcati, l’arrivo dell’esercito jugoslavo per gli sloveni del Litorale significò la liberazione e fu salutato con entusiasmo.

Il maggior numero degli arresti avvenne dal 2 al 10 maggio 1945 e coinvolse soprattutto Trieste e Gorizia. Le motivazioni che potevano condurre all’arresto furono le più varie: dall’appartenenza alle formazioni militari e di polizia alla frequentazione, a vario titolo, degli ambienti della questura, fino alla diretta partecipazione all’attività politica e organizzativa del fascismo; in molti casi la denuncia individuale risultò sufficiente per rendere immediato l’arresto.

Lo scopo principale della repressione fu la punizione di coloro, fossero sloveni o italiani, che erano stati collaboratori del fascismo o degli occupatori nazisti. Tuttavia fu considerato “fascista” e nemico, come si può leggere nelle direttive dell’O.Z.N.A., anche chi non accettava l’occupazione jugoslava e la prevista annessione, chi non aveva deposto le armi e non considerava l’esercito jugoslavo come liberatore. Furono inoltre arrestate, per errore, per vendetta personale e per l’incongruenza delle direttive anche alcune persone, italiani e sloveni, non impegnate politicamente.
Il ruolo decisivo nell’epurazione e così anche negli arresti e nei procedimenti successivi fu affidato all’O.Z.N.A., ma anche alla “Guardia del popolo” che però ebbe un ruolo solo negli arresti.

Gli esponenti delle autorità civili slovene e delle organizzazioni politiche a Trieste e a Lubiana si resero conto, ancora prima dell’inizio della campagna antijugoslava nella stampa italiana, del pericolo rappresentato dagli arresti di massa e cercarono di impedire i trattamenti troppo drastici.
Le direttive di Kardelj prevedevano il massimo rispetto degli ordini, l’arresto e la consegna di tutti i nemici dell’O.Z.N.A., sulla base discriminante non della nazionalità, ma del fascismo, successivamente gli arresti si basarono sulla distinzione tra favorevoli e contrari all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito.

Un concetto da chiarire è la tesi del “genocidio nazionale”, espressione che in tempi recenti è stata in genere sostituita da quella di “pulizia etnica”. Infatti non si può parlare assolutamente di “pulizia etnica”, perché non vennero deportati e uccisi solamente italiani, ma trovarono la morte, accanto agli italiani, anche non pochi sloveni e croati. Pertanto la tesi di “pulizia etnica” sembra non avere alcun fondamento, anche perché le cifre, fatte da una parte della storiografia, sembrano gonfiate apposta per sposare questa tesi: “negli ambienti nazionalistici le vittime delle foibe furono uccise solo perché italiane”. Un altro motivo per il quale è errato parlare di “genocidio nazionale” è che nei riguardi della popolazione civile della Venezia Giulia le truppe jugoslave non si comportarono affatto come un esercito occupante in territorio nemico. Fra tale correttezza di atteggiamenti e l’ampiezza dell’azione repressiva non vi è peraltro contraddizione: l’esercito di Tito fu protagonista di una durissima campagna per la liberazione delle terre fino all’Isonzo, perché nella regione si sentiva non in terra straniera, ma a casa propria e fu fermamente impegnato a mettervi ordine, seguendo una prassi brutale.

Infatti vennero deportati, uccisi e scomparvero non solo italiani, ma anche sloveni e croati. Dunque bisogna parlare di uccisioni “politiche” e non “nazionali” dato che vennero perseguiti non solo tutti coloro che in qualche modo erano legati o avevano militato nel regime fascista, come membri dell’esercito, di tutti i corpi di polizia e dell’amministrazione italiana, ma furono arrestati, uccisi e scomparvero anche persone antifasciste non comuniste, come i membri del C.L.N. (cioè quelli che erano contrari, si opponevano o avrebbero potuto opporsi all’annessione della Venezia Giulia da parte della Jugoslavia), per impedire al più presto il formarsi di una potenziale opposizione che potesse presentare un ostacolo alle nuove autorità comuniste. Alcune persone furono uccise per errore, altre per motivi di vendetta personale, eliminate arbitrariamente e senza l’assenso delle autorità superiori da attivisti locali.

Per gli storici sloveni l’ondata di violenza della primavera del 1945 ebbe due fattori: la “resa dei conti” per le colpe del fascismo e la volontà del nuovo regime comunista di eliminare tutti i suoi avversari. Mentre gli storici italiani distinguono lo “scenario del furore popolare”, cioè la vendetta per i crimini fascisti, dalla “sostanza politica del dramma”, cioè dal disegno di “epurazione preventiva” della società giuliana dagli oppositori del progetto politico del movimento partigiano di Tito. All’interno di tale progetto, gli storici italiani sottolineano la saldatura fra due aspetti diversi: quello ideologico, che spiega l’uccisione anche di molti sloveni anticomunisti, e quello nazionale, che spiega invece l’accanimento contro la popolazione italiana, perché in maggioranza contraria all’annessione alla Jugoslavia. Un’altra differenza è che mentre gli studiosi sloveni definiscono i fatti del 1945 come “componenti spontanee di violenza”, quelli italiani sottolineano invece il loro aspetto di “violenza di Stato”.

Stando ai dati sinora accertati, sul territorio dell’ex provincia di Gorizia, quindi in entrambe le sue odierne parti italiana e slovena, furono uccise o persero comunque la vita in condizioni di prigionia 901 persone, di queste 653 appartenenti a formazioni armate (compresi 32 domobranci sloveni) e 248 civili. Invece in tutta l’Istria e a Fiume sarebbero state deportate circa 850 persone delle quali 670 non avrebbero fatto più ritorno. Si parla di 601 persone decedute in seguito agli arresti operati da parte jugoslava nel maggio 1945 riferibili all’odierna provincia di Trieste. Le persone effettivamente scomparse in tutta la Venezia Giulia furono 2.036.

Mentre la Croce Rossa di Trieste risultava in possesso di un elenco di 1.376 persone mancanti. In un rapporto dell’ufficio addetto alle “Displaced Persons” al quartier generale di Trieste, compilato l’11 aprile 1947, venivano riassunti i dati contenuti negli elenchi riferiti alla sola Zona A: per Trieste veniva denunciata la scomparsa di 724 civili e 768 militari (totale 1492), per Gorizia di 759 civili e 341 militari (totale 1100) e per Pola di 637 civili e 190 militari (totale 827). Complessivamente 3419 erano i nominativi fondati sulle richieste d’informazione inoltrate dai familiari e riguardanti soltanto le località rimaste sotto controllo inglese e americano. Tuttavia bisogna fare attenzione, perché solo una percentuale molto limitata di rimpatriati si presentava a dichiarare il rientro dalla prigionia.
Esiste tutt’oggi un contrasto, più politico che storico, per quanto riguarda la cosiddetta “cultura” della foiba.

È tuttavia errato parlare di una “cultura” della foiba in quanto questo fenomeno non può appartenere “culturalmente” a nessuna persona, a nessun ceto sociale o gruppo etnico né tantomeno a nessun gruppo o movimento politico, perché fu un fatto storico che coinvolse vari ceti sociali, politici e nazionali. Gettare nelle foibe i cadaveri e le vittime, non fu un fatto di “cultura politica”, ma un’azione compiuta per “comodità”: in questa regione, dove esistono circa 5000 tra grotte, foibe e voragini, era il modo più semplice e rapido per sbarazzarsi dei cadaveri “scomodi”. Le foibe, cioè, servirono come sepoltura sbrigativa dei morti in battaglia.

Nel novembre del 1945 iniziarono le esplorazioni delle foibe da parte della Polizia Civile della Venezia Giulia in collaborazione con i Vigili del Fuoco, con i rastrellatori di bombe e mine e con gli speleologi del “Comitato recupero salme di persone infoibate”. Tuttavia già nell’agosto 1945 il G.M.A. avviò l’esplorazione della miniera dismessa di Basovizza, il che si rivelò estremamente difficile, per cui le ricerche vennero interrotte.

I Vigili del Fuoco nelle loro esplorazioni recuperarono in totale 464 corpi, ma non tutte le cavità esplorate sono da considerarsi vere e proprie foibe, perché molte sono fosse comuni, addirittura profonde solo un metro e altre sono anfratti che non si trovano nella Venezia Giulia. Pertanto il numero di corpi che vennero riesumati dalle foibe o comunque da voragini profonde più di due metri furono 369, dei quali vennero identificati 175 civili e 162 militari, compresi 30 tedeschi e 3 alleati, mentre le rimanenti 32 salme non furono identificate. Questi rilevamenti furono eseguiti nella Zona A, infatti manca una ricerca per quanto riguarda la Zona B, tuttavia si possono azzardare delle cifre, che però sono molto approssimative, tenendo conto degli scomparsi nella Venezia Giulia in quel periodo. In ogni modo si può ritenere che la cifra che si avvicina di più alla verità sia di un migliaio di individui infoibati. Ovviamente le persone infoibate furono molto meno di quelle scomparse, deportate o uccise in altro modo.

Gli storici sloveni della commissione mista italo-slovena sui rapporti fra il 1880 e il 1956 stimano in 2.000 circa il numero degli infoibati, mentre “quanto alle cifre, le ricerche italiane mettono in genere in guardia dagli equivoci generati dal termine infoibati: ad essere uccisi immediatamente e gettati nelle foibe nella primavera del 1945 fu infatti solo un numero limitato di persone, in prevalenza militari o comunque appartenenti a formazioni armate (le esumazioni furono meno di 500 e anche considerando i corpi non recuperati difficilmente si potrebbe arrivare a 1000 unità), mentre molto di più, nell’ordine di alcune migliaia, furono gli scomparsi nei campi di concentramento jugoslavi.”

La storiografia, o meglio una parte della storiografia, dal 1945 fino ad oggi, ha spesso travisato questi dati includendo nel conteggio degli infoibati anche tutti coloro che erano scomparsi, deportati o che erano stati uccisi in altri diversi modi: fucilati, impiccati e annegati. Molti testi che parlano della questione delle foibe sono stati scritti da autori che hanno vissuto quell’esperienza storica e perciò non possono essere del tutto veritieri, perché chi ha il ricordo (la memoria) di sofferenze ed è stato colpito negli affetti, non può essere obbiettivo e quindi attendibile da un punto di vista storico.
Lo specchio dimostrativo dei ritrovamenti riporta la cifra di 464 corpi riesumati, ma furono 369 coloro che vennero effettivamente infoibati. Tuttavia molte sono le interpretazioni e le fonti che si discostano, anche di molto, da questi dati, soprattutto perché confondono o interpretano in modo diverso i termini: infoibati, scomparsi, uccisi e deportati.

Uno dei primi elenchi di “martiri o vittime” della Venezia Giulia fu redatto da G. Bartoli che elencò, nel suo libro, (Il Martirologio), 4122 nominativi, tra i quali, però, alcuni sono di persone che morirono in ospedale o durante la deportazione. G. La Perna (Pola-Istria-Fiume 1943-1945) elenca i militari e i civili uccisi o scomparsi in Istria, a Fiume, in Dalmazia e a Trieste negli anni che vanno dal 1943 al 1945 e oltre. Sono in tutto 3.545 nomi: di essi 1.269 appartengono a militari, “compresi anche i partigiani scomparsi o uccisi dagli slavi”, mentre i civili elencati sono in tutto 2.276. Quindi la cifra delle persone che vennero infoibate è minore rispetto alla cifra degli scomparsi.

Pertanto tutti gli autori che dichiarano che gli infoibati, propriamente detti, nella Venezia Giulia, nella primavera del 1945, sono più di quattromila probabilmente sono in errore.

Infatti L. Papo (L’Albo d’oro) riporta un elenco di tutte le “vittime, militari e civili, per mano slavo-comunista che furono non meno di 16.500”. Tuttavia se si analizza lo schema riassuntivo all’inizio del libro si può notare che le salme esumate furono 546, ma dalle foibe furono 339, mentre le “vittime presunte” sarebbero 4940. Secondo Papo, infatti, ci furono 1.000 vittime presunte a Monrupino e ben 2.500 vittime presunte a Basovizza.

D. De Castro (Maggio 1945, campi jugoslavi e foibe) rivela che i rilevamenti iniziarono nel novembre 1945 e terminarono nel mese di marzo 1950 con il ritrovamento di 438 corpi. Spesso dunque si travisa il significato “infoibati”, infatti la grande maggioranza degli autori si confondono e dichiarano che le vittime (attenzione: le vittime e non gli infoibati) nel 1945 furono dalle 4.000 alle 5.000, però non specificando il numero degli infoibati. Inoltre sul finire del 1945 ci fu una richiesta, anglo-americana alla Jugoslavia, di restituire 2.472 persone che risultavano scomparse nel maggio 1945.
Esiste poi una storiografia che, probabilmente influenzata politicamente, aumenta le cifre in modo vertiginoso ed esagerato, arrivando senza un qualsiasi riferimento storiografico, a 10.000, 12.000: a tale cifra si arriva soltanto conteggiando fra gli infoibati anche i morti e i dispersi in combattimento.

Bisogna anche precisare la definizione di “civile” utilizzata nei primi elenchi di scomparsi redatti in base alle denunce dei familiari, la quale va talvolta integrata da ulteriori precisazioni riguardanti ad esempio l’impiego presso le organizzazioni sociali e politiche fasciste, oppure la passata militanza in associazioni a sfondo patriottico; pertanto anche chi viene definito “civile”, negli elenchi di scomparsi o nelle liste dei ritrovamenti, probabilmente era un militare o comunque essendo stato legato al regime fascista o essendo anche collaborazionista dei nazisti, all’epoca venne considerato alla stregua di un militare e trattata come tale, senza peraltro una distinzione di sorta.

Si trova però anche una differenza, tra i vari autori, per quanto riguarda la cifra degli scomparsi in quel periodo, che può essere confrontata con i vari elenchi che sono stati redatti in questi anni. Una differenza ulteriore è data dal riconoscimento dei criminali di guerra: mentre nella storiografia italiana questo problema è quasi assente, perché gli infoibati vengono in un certo senso “assolti” in quanto considerati vittime “innocenti”, in quella slovena la questione è presente e documentata.

La questione delle foibe si svolse in due diversi periodi, nel settembre-ottobre 1943 e nel maggio-giugno 1945, in parte tramite diverse dinamiche, per motivi differenti e con una diversa quantificazione delle vittime. In quei periodi avvennero uccisioni, deportazioni, sparizioni di persone: queste non si devono però collocare in un unico insieme, ma è necessario differenziarne i diversi aspetti. Infatti le uccisioni, le deportazioni, le scomparse e gli infoibamenti furono fatti non separati, ma distinti, perché si tratta di azioni diverse pur essendo scaturite dalla medesima tragica situazione di guerra.

La causa della diversa quantificazione delle vittime delle foibe sta, come si è visto, nel fraintendimento, in cui è spesso caduta la storiografia, del significato di “infoibati”. Il termine letteralmente indica le persone che effettivamente vennero gettate nelle cavità carsiche, che sono in numero minore rispetto alle persone uccise e scomparse nei periodi sopra indicati. Il significato simbolico e maggiormente conosciuto di “infoibati” ha, invece, inglobato con le persone realmente gettate nelle foibe, anche coloro che furono uccisi per diversi motivi e in vari modi, coloro che vennero deportati e quelli che scomparvero.

Ecco che la differenza concettuale non solo ha portato ad una diversa interpretazione del fenomeno, ma ha contribuito ad una diversa quantificazione delle vittime.
Vennero infoibati coloro che in qualche modo erano legati al regime fascista o collaborarono con i nazisti, come la Guardia di Finanza, la Guardia Civica o comunque tutti i corpi di polizia, le persone che lavorarono nell’amministrazione, i collaborazionisti italiani, sloveni e croati, e i militari. Va però sottolineato che chiunque avesse voluto lavorare in quel periodo doveva sottostare e collaborare con le amministrazioni nazifasciste; non sempre si può pertanto parlare di “punizioni giustificate” da un punto di vista ideologico, in quanto i ruoli ricoperti dalle vittime spesso non erano liberamente scelti dal singolo, ma dettati dalle situazioni personali, storiche e politiche del momento.

Tra gli arrestati vi erano poi molte persone che non avevano affatto colpe politiche particolari, né avevano aderito al regime, ma furono vittime di vendette personali da parte di singoli criminali che approfittarono del disordinato frangente storico per regolare vecchi conti in sospeso o vendicarsi di torti personali subiti.

Morirono nelle foibe anche antifascisti, ma non comunisti, come membri del C.L.N. o elementi che non volevano l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, insomma coloro che si opposero o si sarebbero opposti ad un regime comunista in quella regione. Non mancarono tuttavia sia le vendette personali, che autentici criminali tra gli infoibatori, ma anche tra gli infoibati. Pertanto non si può parlare di genocidio nazionale, perché non vennero colpiti solo gli italiani, ma anche sloveni e croati e perché le cifre non sono così alte da dimostrare un genocidio: dimostrano invece una sorta di “resa dei conti” contro i crimini e i criminali nazifascisti mescolata ad un’azione che mirava all’eliminazione di una qualsiasi opposizione all’annessione alla Jugoslavia di Tito.

Ora, confrontando i documenti relativi ai recuperi delle salme, come la relazione del maresciallo Harzarich dei Vigili del Fuoco del 41° Corpo di stanza a Pola per i rilevamenti del 1943 e lo specchio dimostrativo delle foibe esplorate, dal novembre del 1945 all’aprile del 1948, dalla Polizia Civile in collaborazione con i Vigili del Fuoco, si può stabilire quanti infoibati furono recuperati: 159 nel 1943 e 369 negli anni successivi.

Pertanto, tenendo conto sia delle vittime che non furono recuperate a causa delle difficoltà tecniche, o perché le foibe non vennero scoperte; sia di quelle recuperate da fosse comuni; sia di una piccola percentuale di errore nei conteggi; e considerando che gli scomparsi e gli uccisi, nel 1943, furono circa 400-500 e che nel 1945 risultarono tra i 4.000 e i 5.000 (quindi il numero degli infoibati è certamente minore), si può approssimativamente calcolare che il numero delle persone realmente infoibate nell’autunno del 1943 possa variare dalle 200 alle 300 unità e che invece nel 1945 furono circa un migliaio. Insomma solo una parte delle vittime fu infoibata.

A distanza di mezzo secolo possiamo analizzare la storia con più coscienza critica, attraverso una storiografia più scevra da passioni e avere, rispetto alla cronaca, una visione dei fatti più ampia e chiarificatrice. Gli avvenimenti esposti non possono sembrare distanti ed estranei alla nostra contemporaneità, se si pensa che tuttora queste barbarie vengono commesse, anche se ci appaiono diverse. D’altra parte, è opportuno sottolineare che un fatto non è mai indipendente, ma è sempre inserito in un vasto contesto ed è creato da vari presupposti, provocando sempre una catena di eventi successivi.

* Antonio Burigo è nato a Belluno nel 1975. Si è laureato in Storia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cà Foscari di Venezia con il prof. Francesco Leoncini, docente di Storia dei Paesi Slavi, discutendo la tesi di laurea dal titolo: “Primo bilancio e reinterpretazione della questione delle foibe”.
Collabora con “Seminario Masaryk”, organizzazione interna all’Università Cà Foscari di Venezia, che promuove conferenze, discussioni e rassegne cinematografiche nell’ambito della cultura, della società e della storia dell’Europa Centrale.
Collabora con la rivista “Annales” di Capodistria (Slovenia), che analizza temi storico-culturali italiani ed europei.

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