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Riflessioni per una decrescita senza confini

[da www.gondrano.it ]

Lettera aperta a Maurizio Pallante

Caro Pallante,
ormai da alcuni anni decresco, individualmente, in maniera abbastanza felice; non ancora fino al punto che vorrei ma penso di poter ancora migliorare. Non ho dunque domande di tipo pratico, operativo da porti – magari anche, ma a suo tempo. Vorrei invece andare a monte di ogni considerazione di carattere pratico e perfino della stessa critica dell’economia che è alla base dell’idea di decrescita. Vorrei insomma porre la questione etica, il problema del giusto atteggiamento verso la biosfera, che è poi ciò che mi ha motivato alla mia decrescita personale.
Vorrei partire citando un uomo agli antipodi rispetto a me: il cattolico Lanza del Vasto, dal quale ho tratto un fondamentale insegnamento: il male, egli dice, non esiste; esiste il conseguimento di un bene parziale. Quel che percepiamo come male non è altro che l’operare per il bene di una singola parte del mondo vivente prescindendo dal danno che può venire a ogni altra. Da questa visione consegue un metodo, la non violenza, di cui Lanza del Vasto è stato uno dei maggiori protagonisti, una non violenza non limitata al contesto convenzionale del pacifismo ma estesa a tutto il mondo vivente, umano e non umano e a ogni aspetto dell’esistenza. Credo si possa dire che egli, con le comunità dell’Arca, da lui fondate, è stato il primo fautore della decrescita intesa come applicazione della non violenza alla vita materiale. Sua è la breve frase, di cui non è forse esagerato affermare che ne riassume tutto il pensiero: “Prova a schiacciare un bruco. Ecco fatto, facile vero? Bene, ora prova a rifare il bruco”.
Da questa idea del male come bene parziale deriva una conseguenza immediata: la necessità di non porre un confine all’oggetto della propria etica, perché lì dove si mette un confine si cade nella parzialità; di più, si crea una contrapposizione, un conflitto. Non si può perseguire alcun risultato positivo se esso non è per l’intero mondo vivente. Inoltre, poiché tutto ciò che oggi razionalmente sappiamo sul mondo vivente stesso ci parla dell’inesistenza di confini al suo interno, quando si stabilisce un confine lì dove esso non può essere posto se non in base a regole arbitrarie nulla vieta di arretrarlo altrettanto arbitrariamente. Fra l’antropocentrismo e il razzismo o il nazionalismo insomma c’è una sola differenza: la diversa, ma ugualmente arbitraria, scelta del confine.
Quasi contemporaneamente a Lanza Del Vasto ho scoperto un altro profondo pensatore contemporaneo: Tiziano Terzani, e in lui ho ritrovato idee molto simili:
«Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo» (1).

Bene, io credo che non dovremmo limitarci a una critica dell’economia, a dimostrare che il PIL non significa nulla e tutto ciò che ne consegue; fare tutto questo sicuramente, ma anche risalire un gradino più a monte perché l’economia della globalizzazione, le teorie dello sviluppo, “illimitato” o “sostenibile” che sia, sono solo un sintomo di una malattia che risiede a un livello più profondo, nel vedere come un tutto ciò che è solo una parte: la specie umana; nel non avere insomma una onesta consapevolezza della nostra posizione nell’universo e soprattutto in quella parte di esso che è la biosfera; nell’agire secondo istinto predatorio per “il mio” (di individuo, di classe sociale, di nazione, di razza… di specie) piuttosto che secondo ragione per “il nostro” (di esseri viventi che condividono la stessa casa e la stessa sorte). Uno dei primi testi sulla decrescita che mi sono trovato di fronte è un tuo articolo che parte dal piccolo, dal parlarci dello yogurt fatto in casa. Io ora parto dal grande, dal parlare di un atteggiamento che abbia la visione, in ogni nostra scelta, della totalità del mondo vivente. Vorrei che questi due discorsi coesistessero, che si aiutassero e completassero a vicenda. Perché solo la visione del tutto – del vero tutto, quello che non si ferma al recinto antropocentrico dell’uomo – può darci il criterio guida delle nostre scelte quotidiane, così come, specularmente, solo la capacità di tradurre questa visione in concrete scelte quotidiane può calarla nel mondo reale.
Invece insistiamo nel vedere le cose “a pezzi” e ad applicare a ciascun pezzo una terapia specifica e chiusa in sé, come se esso fosse sospeso nel vuoto, o comunque in qualche modo estraibile dal tutto. Un esempio di questa visione l’ho trovato perfino nel vostro/nostro manifesto di Serge Latouche, lì dove dice: “La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l’ambiente ma anche per ripristinare un minimo di giustizia sociale (…) sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate”. Strettamente legate? No. Indissolubili? Neanche. Coincidenti? Sì. Dobbiamo smettere di pensare a società e ambiente come due entità (eccolo qui il solito confine) e sostituire all’una e all’altro il concetto unitario, ecosistemico, naturale di biocenosi, di cui noi siamo una parte.

Qualche giorno fa sul vostro forum ho letto un messaggio in cui ci si domandava perché la decrescita non decolla. Io non so se davvero non sta decollando, ma se così è, vorrei qui ipotizzare una possibile risposta. Perché è, come il pacifismo, i diritti umani, l’antispecismo, il mercato equo e solidale e altro ancora, un pezzo di un intero che stenta a formarsi. Se ho in mano una ruota non vado da nessuna parte; me ne servono due, e un manubrio, due pedali, un telaio, un paio di freni, e ho bisogno di saper mettere insieme tutto questo in maniera funzionale; solo così potrò disporre di ciò che mi serve per andare dove voglio: una bicicletta. Oggi non abbiamo alcuna bicicletta ma tanti pezzi sparsi, ognuno dei quali tenta di conseguire il proprio obiettivo parziale lasciando immutato tutto il resto. Impossibile.

Uno di questi pezzi è notoriamente l’ambientalismo classico (nel cui seno, fra l’altro, è nato il concetto di sviluppo sostenibile) e per capire la sua inadeguatezza basti pensare che la sua visione del mondo vivente, in cui il valore di una vita non umana è inversamente proporzionale all’abbondanza puramente numerica di quella forma vivente, non è altro che l’applicazione alla vita stessa della legge economica della domanda e dell’offerta, dove l’esigenza di biodiversità è la domanda e l’entità numerica della specie è l’offerta. E’ così che vogliamo vedere il mondo? Non io, non noi. Perché dietro l’angolo di questa visione c’è il comportamento predatorio (tradotto in linguaggio economico: lo sviluppo), mai negato da questo ambientalismo e sempre pronto a riaffacciarsi non appena l’ “offerta” sarà tale da renderlo “sostenibile”.
E si potrebbe continuare. Inadeguato ad esempio è il pacifismo, quando tenta di raggiungere l’obiettivo del disarmo senza rendersi conto che le guerre sono congenite al sistema etico-economico dominante… si potrebbe continuare, appunto. A lungo.

Mi fermo invece. Anche perché fin qui ho enunciato dei principi astratti, ho fatto il filosofo pur non essendolo. So per esperienza che è facile concordare su principi astratti, un po’ meno quando si scoprono alcune implicazioni concrete di essi. Allora deduciamo da tali principi qualcosa a livello di comportamento concreto concentrandoci, a titolo di esempio, su un contesto specifico.
Decrescere significa uscire dalla logica dello sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta; significa, ad esempio, operare delle scelte quotidiane nell’uso dei mezzi di trasporto mettendo l’automobile all’ultimo posto delle nostre preferenze. Ma significa anche operare delle scelte, fra l’altro, nel tipo di cibo. Non solo nel modo di produrlo ma anche in quale cibo produrre.
Andiamo indietro di 30 anni, ai tempi dei noti (e dimenticati) rapporti del MIT al Club di Roma. In quegli anni Lester R. Brown pubblicava I limiti alla popolazione mondiale, in cui scriveva:
«Occorre preoccuparsi del modo in cui si possono contenere le diete nelle nazioni ricche così da ridurre la domanda pro capite delle già scarse risorse di suolo e di acqua. Quali possibilità vi sono di sostituire ad esempio alla carne bovina tipi di proteine meno costose e più efficaci?
Gli schemi di consumo degli USA fanno pensare che esistano due possibili soluzioni per ridurre la richiesta di risorse alimentari pro capite: una consiste nel sostituire gli oli vegetali ai grassi animali; l’altra nel sostituire le proteine vegetali alle proteine animali» (2).
C’era dunque già allora la consapevolezza della natura fortemente dissipativa di un certo tipo di alimentazione, di quanto cioè sia grande l’inefficienza del sistema di trasformazione di proteine vegetali in proteine animali e di come nutrirsi in questo modo sia la maniera più efficace di dissipare risorse di ogni tipo.
Andiamo avanti di un ventennio: nel 1992 esce Ecocidio di Jeremy Rifkin in cui questo tema trova pieno sviluppo:
«Il complesso bovino moderno ha aperto la strada a una campagna mondiale senza precedenti volta a trasferire la produzione cerealicola dall’alimentazione umana a quella animale, negando a milioni di persone la propria sacrosanta quota di ricchezza. (…) Un terzo della produzione mondiale di cereali viene utilizzato per alimentare bovini e altro bestiame, mentre più di un miliardo di esseri umani soffre di malnutrizione. (…) In termini umani, il pedaggio imposto dal complesso bovino mondiale è impressionante. Nei paesi in via di sviluppo, milioni di persone sono state allontanate dalla loro terra per lasciare posto a pascoli» (3).

Insomma, un’alimentazione a base di carne equivale a usare un’automobile di grossa cilindrata per andare all’edicola dietro l’angolo. Vogliamo dunque inserire all’interno degli obiettivi della decrescita il suo superamento a favore di una scelta felicemente vegetariana? Mi pare inevitabile.
E qui si innesta il discorso, da cui siamo partiti, sull’inscindibilità dei vari contesti, perché con questa semplice scelta, calata in quella fitta rete di relazioni che è il mondo, abbiamo realizzato una quantità di obiettivi pratici e simultaneamente – sinergicamente – etici che ha dell’incredibile.

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abbiamo liberato grandi aree del pianeta oggi usate per la produzione di foraggio destinato agli allevamenti intensivi. Esse possono essere ora destinate al rimboschimento o alla produzione di alimenti per l’uomo,
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abbiamo con ciò fra l’altro eliminato una delle cause della distruzione della foresta amazzonica e abbiamo fatto un passo avanti nel rendere possibile la soluzione della crisi alimentare del terzo mondo,
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poiché servono circa 9 litri di benzina per produrre 1 kg di carne bovina abbiamo dato un forte contributo al risparmio energetico,
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poiché 1 kg di carne costa all’ambiente 3150 litri di acqua abbiamo contribuito a non prosciugare le non infinite risorse idriche del pianeta,
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abbiamo migliorato la nostra salute sottraendoci a tutti i noti pericoli dell’alimentazione carnea abbassando così quella parte del PIL dovuto alla produzione di farmaci e prestazioni sanitarie,
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abbiamo messo fine allo sfruttamento e al massacro di miliardi di esseri viventi non umani che questo sistema tratta né più né meno come oggetti produttivi da sfruttare – letteralmente – fino all’osso, senza alcun riguardo per le sofferenze loro inflitte,
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abbiamo assestato un colpo micidiale a uno dei più grassi (in senso sia metaforico che letterale) settori della globalizzazione: la megaindustria della carne,
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E infine, avendo con tutto ciò dato un piccolo (piccolo?) contributo a far venir meno alcune delle cause di tensione internazionale, abbiamo anche contribuito alla pace,
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Ah, dimenticavo: abbiamo scoperto l’esistenza di nuovi (nuovi?) cibi non meno gustosi e certamente più salutari di quelli che abbiamo abbandonato.

Abbiamo rinunciato a qualcosa? No (io non ho mai mangiato così bene come da quando sono vegetariano), abbiamo soltanto sterzato un po’ pensando a conseguire un bene totale anziché parziale, con ciò migliorando la condizione di tutti noi, umani e non umani. E siamo giunti a capire una cosa: che contrariamente a quanto comunemente crede il signor Rossi (quello perennemente con la borsa del supermercato in mano), una scelta tanto più è spinta in avanti sul piano dell’etica tanto più è capace di creare qualità della vita.
Dunque, che aspettiamo?

Filippo Schillaci

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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