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Contro il sistema: appunti sulla “nuova” critica sociale e gli anni '60
Oggi come ieri la cosa più importante è scegliere se stare “dentro” o “fuori”...
 

di VITTORIO GIACOPINI

   Seattle, Davos, la “globalizzazione” e il rifiuto, la contestazione. 

   Tra mille ambiguità e infinite reazioni stereotipate e ideologiche, apriorismi settari, pure  e semplici idiozie, nel movimento contro la globalizzazione riaffiora dopo trent’anni di silenzio un’ipotesi di critica sociale radicale. 

  Un “linguaggio della protesta” fuori dagli schematismi della teoria politica, irriverente e beffardo, attento ai grandi temi planetari come al sottile processo di omologazione della vita quotidiana, alla colonizzazione delle coscienze e dei “cinque sensi”. Una rivolta “dopo” la politica, quindi, una scommessa aperta, tutta da verificare. C’è molto nell’atmosfera di questi primi anni del secolo che ci riporta indietro agli anni Sessanta. In bene e in male, naturalmente. È il caso di provare a iniziare fare il punto. Per capire meglio il presente. Quello che ci succede adesso.

Girlfriend in coma

   Venticinque, quasi trent’anni, di coma profondo e di silenzio. Dalla metà degli anni Settanta alla fine del secolo. Per il “linguaggio della protesta”, per la rivolta, per la politica e la contestazione, una lunga stagione di immobilismo e di stasi. 
E un’attesa estenuante, fatta di niente. La nostra storia recente sembra compressa nel modello critico di Cristopher Lasch. Il declino della sinistra radicale. Il ripiegamento in una soggettività semplificata e apprensiva. L’età del narcisismo. L’individualismo depotenziato e attutito di un “io” sempre più “minimo” e stereotipato. L’estinzione dello spazio pubblico. Il conformismo e l’ansia del successo. La fine della politica. L’ossessione dei soldi. Gli imperativi della carriera e del consumo.

   Forse sono categorie  troppo neutrali e schematiche. Troppo fredde. Magari la metafora più giusta è davvero  l’immagine - estrema e catatonica - del coma. La vita sospesa. Rimandata. Un percorso interrotto.  Come nel romanzo di Douglas Coupland: "Fidanzata in coma". Karen (la “fidanzata”) perde improvvisamente coscienza a metà degli anni Settanta. Agli altri – agli amici e ai compagni di scuola, alla famiglia - resta da trascinare un’esistenza che perde spessore. Il mondo cambia. Tutto diventa diverso. Ma è un processo automatico. Nessuno sembra capace o cosciente di incidere sugli eventi. La storia si fa da sola. La ribellione di un tempo scade in angoscia privata. Diventa insoddisfazione inespressa, disadattamento. Quando Karen si risveglia incrocia un panorama irriconoscibile. Un mondo di “zombie”. Il calore dei rapporti, l’intensità dei rapporti. La speranza. Di quell’energia del passato non c’è più niente. Nei  suoi amici riconosce le tracce di un’adolescenza perenne e la ferita di una nostalgia impotente. I segni di una maturità vissuta come rassegnazione obbligata, pura perdita. Quasi tutti hanno fatto soltanto un lungo, oscillante, giro a vuoto attorno a se stessi per ritrovarsi paralizzati, smarriti nell’ostinazione comica di chi cerca nei sogni falliti dell’infanzia il riscatto dal mesto fallimento del presente. 
   Sono goffi e patetici. Non hanno più l’arroganza degli anni Ottanta. L’euforia irrazionale, il gusto del nuovo degli anni Novanta. Aspettano la fine del mondo ma non muovono un dito. Per una che è appena risorta dal baratro degli anni Sessanta-Settanta, il paesaggio morale di fine (inizio) secolo è disorientante.
“Nella gente di oggi vedo una specie di durezza… Il mondo è diventato tutto un lavorare: lavora, lavora, lavora, compra, compra, compra, … si fa carriera… ci si fa licenziare… ci si collega in rete… si imparano i linguaggi di programmazione… si vincono gli appalti. Cioè non è affatto il mondo che mi sarei immaginata... Sono tutti nervosi e incazzati, con problemi enormi di soldi e nel migliore dei casi assolutamente indifferenti al futuro” (2)

   Ma quello che Karen trova quando inciampa per caso nel presente non è niente. L’aspetto più spiazzante sono le cose che mancano all’appello. Quello che abbiamo perso. E non c’è bisogno di entrare e uscire da un coma profondo per scoprirlo. Dopo quasi trent’anni se ci guardiano indietro possiamo solo stilare un bilancio in perdita. Impulsi che hanno finito per spegnersi, per trasformarsi in ricordi inerti. La speranza di cambiare la vita, la convinzione di riuscire a modificare la grammatica dell’esistenza comune, la tirannia del buon senso borghese e il conformismo. L’indipendenza mentale e la capacità di rivolta. La politica. L’irriverenza della contestazione. L’ambiguità dell’estremismo. L’immaginazione sociologica. E un intero “linguaggio della protesta” che nessuno sembra più avere la voglia o la capacità di inventare e mettere in atto. 

   Girlfriend in coma si conclude con un finale “New Age”. L’ultimo atto è un sacrificio umano che prelude a un miracolo di rigenerazione. Karen ricade nel coma per scongiurare la fine del mondo e lasciare ai sopravvissuti la forza e la voglia di reagire. L’energia e la rabbia sepolte nel passato. La capacità di farsi domande. L’indipendenza mentale e il coraggio di “essere diversi”. Un altro atteggiamento mentale: “fuori dal Planet Hollywood, fuori dal Palazzo della Borsa, fuori dalla boutique Gap… inventate codici a barre che simboleggino favole e non prezzi di prodotti… qualsiasi cosa che vada contro i sistemi di pensiero vecchi e inutili”. Il congedo di Karen è un invito molto anni Sessanta alla riscoperta della politica della mente, all’attivismo e alla ribellione cosciente, alla protesta:

Incidete le vostre domande sui ripiani di vetro delle fotocopiatrici. 
Raschiatele sui pezzi di ricambio per le automobili e buttatele 
giù dai ponti, in modo che anche gli archeologi del futuro… 
siano in grado di porsi dubbi sul mondo. Disegnate occhi 
nei copertoni delle macchine, nelle suole delle scarpe, 
in modo che ogni traccia del vostro passaggio porti con sé
il concetto del pensare, del domandare, dell’essere consapevoli… 
Non dovrete buttare nell’immondizia neanche una briciola, 
se non ci sarà stampata sopra una domanda, 
un appello al resto del mondo a scoprire un luogo migliore (3)

 Seattle 1 & 2. Il “ritorno” degli anni Sessanta

   Fine novembre 1999. Seattle. Nel regno di Bill Gates si tiene il “Milleniun Round” della World Trade Organization. 
   È la messa cantata della globalizzazione, la consacrazione della New Economy. L’ordine del giorno è ambizioso. Le definizione delle regole, la messa a punto dell’organigramma dei poteri per il secolo che sta per cominciare, per il nuovo millennio. Il progetto di un nuovo assetto per un mondo unificato, interconnesso nel segno del capitale, del mercato.
   E all’improvviso, le manifestazioni di piazza, il linguaggio della protesta, il sabotaggio cosciente, la contestazione. Altri volti e altre divise. Altre “voci”. Estreme e esasperate, intransigenti e ideologiche, fantasiose, schematiche, irriverentemente indipendenti, ostinate. Violentemente rigide e confuse. Un granello che inceppa il meccanismo, in ogni modo; un testimonianza – ambigua e importante – di rivolta. Dieci anni dopo Berlino e Tiananmen qualcosa si muove anche da noi. Non sarà la fine dell’apatia (o il risveglio dal coma) ma è un primo indizio, una spia decisiva. 

   Seattle lascia il segno, comunque, diventa un modello. Per la prima volta da decenni bisogna ricominciare a leggere la storia con un codice strabico, guardando contemporaneamente da due lati diversi. I meeting, gli incontri al vertice, la politica ufficiale, l’economia delle grandi “corporazioni”, l’unificazione del mondo, la realtà (e la retorica) di una globalizzazione inevitabile.
   Rischia addirittura di diventare una formula di comodo, una scorciatoia: il “popolo di Seattle”, il movimento contro la globalizzazione. Non si può più leggere la realtà da un lato soltanto. La scena si complica. Il palcoscenico si affolla di altre comparse. Incongrue e spiazzanti. Contraddittorie. Anomale. Di fatto non ci sono più solo Loro: i banchieri e i governi, i mediatori d’affari, i miliardari, gli uomini dell’organizzazione, le “corporations”, i media ufficiali, i protagonisti e le voci canoniche del “sistema”. In ogni circostanza, in qualsiasi situazione, è inevitabile registrare quest’altra presenza ribelle, inconciliabile. Il “popolo di Seattle” segue le mosse dei signori del Sistema come un’ombra insistente e imbarazzante. Dopo Seattle diventa quasi un rito. Sidney, Bologna, Praga, Nizza, Davos. È un contrappunto politico spietato. Appuntamenti obbligati, una cadenza precisa: i controvertici, la controinformazione, la protesta metodica, la rivolta.  La storia scorre almeno su due binari paralleli. La rivolta e il potere si intrecciano e a tratti sembrano invischiati e confusi, inseparabili. Seattle 1 & 2: il regno inviolabile di Microsoft, la cattedrale  postmoderna della New Economy, il sancta santorum del capitalismo; e insieme, la voce imprevista e ribelle della piazza: gli anarchici e gli ecologisti, il terzo mondo, i sindacalisti arrabbiati, gli ex-comunisti nostalgici, i neo-nazionalisti, i centri sociali e i pacifisti. Non è detto che la “camicia di forza dorata” (4) della globalizzazione debba necessariamente piacere per forza a tutti quanti. E non giusto pensare che esista un’unica strada. Un binario soltanto. 

   La prossima volta il fuoco. Imprevedibilmente. Inaspettatamente. La ribellione e la rabbia, la contestazione. Uno stile di azione anni ’60 in “a web based world”. Il ritorno improvviso del rimosso. L’anacronismo di forme politiche arcaiche dislocate nel paesaggio accelerato di una modernità immateriale e postmoderna. Qualcosa che stride. Un graffio sul gesso. Una dissonanza. Ma in realtà il “linguaggio della protesta” degli anni Sessanta non è emigrato soltanto nelle piazze ribelli di Seattle o di Praga, tra le fila del movimento, sulle barricate erette lungo le strade contro il codice della globalizzazione e le corporations. Nel rifiuto di MacDonald's o dalla New Economy. Il ritorno al passato presenta un tratto più ambivalente e paradossale. Anche il capitalismo parla il linguaggio della controcultura e dell’irriverenza, gioca a spiazzare, confonde le carte. Non bisogna lasciarsi ingabbiare dagli schemi consunti del passato. Gli eroi del Nasdaq, gli avventurieri della New Economy non sono dei metodici  funzionari al soldo di un meccanismo impersonale e ottuso, senza fantasia. La vecchia immagine dell’”uomo dell’organizzazione” non spiega il presente e non lo esaurisce. 

   Chi ha guardato in faccia senza ideologismi la realtà questo l’ha capito. I consumi e  il “brand” come forme di identità e differenziazione,  il riciclaggio continuo dei modelli controculturali degli anni Sessanta da parte delle forme espressive del marketing e della pubblicità, la retorica liberatoria del “populismo di mercato” e dell’individualismo definiscono la situazione degli anni Novanta (e del primo decennio del 2000) molto meglio dell’antiquata figura del travet sbiadito, del capitalista rampante o dello stesso yuppie anni Ottanta. 

   Seattle così è anche il simbolo di un altro aspetto della realtà in cui il passato tende a tornare perfettamente invertito, capovolto. Gli eroi di “ieri” erano gli spostati e i ribelli, i rivoluzionari, quelli che insistevano a cantare fuori dal coro, a rompere le righe. Militanti e artisti, hypsters, avventurieri della pop art, hippyes, capelloni e sbandati, marginali. Un certo tipo di critica sociale, la “nuova sinistra”. Oggi la forza dell’innovazione sembra traslocata dall’altro lato della barricata. L’energia e la capacità di immaginare il futuro, l’irriverenza e l’indifferenza alle gerarchie della tradizione, l’entusiasmo. I nuovi, informali, protagonisti del presente non sono i ribelli di una volta ma i cow boys della Silicon Valley, gli esploratori delle frontiere estreme del mercato e del ciberspazio, i creativi del marketing, i pubblicitari. Se ci sono vecchie mura da abbattere o antiche barriere da scavalcare ci pensano da soli, senza bisogno di ideologie di sostegno, senza il bagaglio ingombrante dell’impegno. Negli anni Novanta sono loro che hanno occupato la scena lasciata vuota da un rivolta esaurita o intasata di impresentabili, spompate reliquie del passato. 
Anche i codici stilistici più spensierati e aggressivi della controcultura (il “detournement” e la parodia, il gioco situazionista, la satira, la citazione ribaltata) hanno finito per rientrare nel repertorio migliore del potere, del “nuovo” potere. 

   La pubblicità prende in giro se stessa. I “marchi” puntano su meccanismi di identificazione diretti, civettano con il messaggio ambientalista o con la retorica della solidarietà, con l’individualismo libertario, col gusto sfacciato della provocazione, dello scandalo. La parola “rivoluzione” sembra appannaggio esclusivo dei capitalisti. E anche il mercato viene esaltato come unica zona di democrazia, sola residua forza d’urto contro le ingiustizie accumulate nel tempo e le vecchie ricchezze immotivate, grande – egualitaria – occasione di affermazione individuale e di riscatto (5)

   Persino la stessa “critica sociale” sembra emigrata sull’altra sponda. Una volta era la sinistra (vecchia e nuova) a corrodere il presente con gli acidi dell’analisi e della teoria, con la forza eversiva dell’anticonformismo. A proporre un’idea di futuro da provare a inventare o da inseguire. Oggi la sinistra difende per lo più una sua vecchia immagine che non corrisponde più a niente o fa collezione di estremismi retorici, ideali sbiaditi o cause perse. È diventata conservatrice e consolatoria. La “critica sociale” (quel che ne resta) oggi è il prolungamento di una parte – la più fantasiosa e indiscreta – del nuovo capitalismo: vive nel mondo-web, non ha più bisogno di steccati ideologici, della teoria politica, della filosofia o dell’antropologia, della semantica o dello strutturalismo o del post-marxismo.
  La critica sociale degli anni Sessanta aveva denunciato nei “consumi” il luogo centrale della resa, del conformismo e dell’omologazione. Oggi ai consumi si affida per lo più il compito inverso. Le scelte di consumo ci distinguono e ci fanno diversi, tendono a liberare, garantiscono meccanismi di identificazione, legami emotivi, creano intere filosofie e stili di vita (6).
   Le cose in vendita rifiutano la forma “merce” per presentarsi come concetti, simboli, modelli miniaturizzati di esperienza. Benetton e le sue campagne contro la pena di morte o contro il razzismo, il neo-ecumenismo di MacDonald's, l’epos eroico-individualista reclamizzato da Nike, l’ecologia e l’animalismo del Body Shop, l’anticonformismo di Gap o Apple colpiscono la coscienza collettiva più e meglio dei vecchi vangeli di una volta. Non vale obiettare che si tratta di trucchi retorici, di ipocrisie dettate da capillari, metodiche strategie di marketing. I “segni” sono risorse scarse, l’informazione è davvero l’ultima frontiera della ricchezza (materiale e mentale) e  l’innovazione resta un codice neutro. 

   Nella battaglia per la conquista delle coscienze e dell’immaginario vince chi sa disporre meglio le sue pedine sulla scacchiera del presente. E non c’è dubbio che oggi a vincere per il momento almeno siano loro. Gli innovatori spericolati, i capitalisti incoscienti, i guru della pubblicità-progresso, gli uomini della pubbliche relazioni e dei nuovi media. Se nessuno si trastulla più con i tomi ingialliti dei Grundrisse ci sarà un motivo. Quando tratteggia l’atmosfera degli anni Novanta, Douglas Coupland non  canta la rivoluzione ma non descrive neppure una controriforma, la reazione:
   

Tra il 1990 e il ’96, idee che un tempo venivano considerate
‘marginali’ o ‘devianti’ sono divenute dominanti nel dibattito
quotidiano; la medierà è scomparsa; i diritti acquisiti 
si sono volatilizzati; l’ironia è ascesa al potere; 
un flusso ininterrotto di macchinari sempre 
nuovi ha generato rivolgimenti sociali sconfinati (7)

Il “sistema”, ancora una volta

   Il “linguaggio della protesta, la critica sociale degli anni Sessanta si scagliavano contro un nemico definitivo e insuperabile. Lo stile di vita borghese eretto a “totalità”, trasformato in Sistema. La rabbia, la provocazione, l’anticonformismo prendevano di mira un’intera forma di vita che a prima vista non lasciava scampo. L’invadenza, l’onnipresenza del Sistema. La contestazione non si esauriva nella denuncia del capitalismo come “modo di produzione” o più semplicemente come assetto ideologico, forma consacrata e ufficiale di potere. Il campo di battaglia decisivo era il terreno della vita quotidiana. 
   Per la protesta, anche la sfera privata era colonizzata da modelli esistenziali  apparentemente neutrali ma infinitamente condizionanti e ricattatori. Mettendo da parte, rifiutando, il vecchio mito dello Stato Guida, la “nuova sinistra” portava la guerra in casa, dava battaglia all’interno di un orizzonte ristretto, condiviso. La resa dei conti tra le generazioni prendeva il posto della lotta di classe. Si combatteva all’interno di uno spazio comune. Sbiaditi, arroganti, antiquati modelli di virtù venivano rimessi in discussione senza cautele reverenziali o tatticismi. Le norme di condotta, le  regole stantie della tradizione  non potevano più essere accettate come dogmi indiscutibili. 

   Nei suoi momenti migliori, più ispirati, il “Movimento” colpiva prima o fuori dalla politica, cercava un “altro” modo di vivere, un altro stile. Del Sistema rifiutava la pretesa prevaricante di determinare i dettagli, i particolari di tutta un’esistenza sociale. I suoi imperativi, il codice solo formalmente banale dei consumi, le abitudini esistenziali, le tappe obbligate di un modello di biografia scontato e assoluto, predeterminato (l’istruzione, la maturità, il lavoro e il successo, la famiglia, la cultura di massa, il benessere e i figli, la carriera). La politica “ridefinita” sognata (e non trovata) dal Movimento insisteva su un’unica alternativa radicale. Davanti al Sistema non era possibile rifugiarsi nella tattica delle mezze misure o nel gradualismo  e nessun compromesso era possibile. L’unica cosa da fare era tracciare la linea. Decidere se collocarsi “fuori” o “dentro il sistema. Optare tra il rifiuto integrale e la capitolazione definitiva, la resa totale. 

   Il paradosso – dopo trent’anni di silenzio o di cauti “distinguo” tattici e teorici – è che siamo tornati a percepire il mondo negli stessi termini definitivi e assoluti del passato. 

   Comunque uno decida di schierarsi (ammesso che sia ancora il caso di schierarsi) i parametri di riferimento si stagliano di nuovo con la nettezza impressionante di un’alternativa obbligata e unilaterale. La mondializzazione, la “globalizzazione”. La prevalenza praticamente senza resistenze del mercato. Qualsiasi giudizio sul presente passa per questi temi chiave, per un’ “immagine totale” della società”. Il mondo è unificato nel segno del mercato, delle quotazioni di borsa, degli investimenti globali, di uno stile di vita liberamente ma inevitabilmente imperniato sui consumi. Supporter e nemici della globalizzazione possono scontrarsi sul terreno delle conseguenze impreviste, degli effetti (le nuove povertà e lo sfruttamento della manodopera povera del terzo mondo,  l’ambiente, la violazione dei diritti umani, l’unificazione forzata degli stili di vita, dei comportamenti) ma il giudizio di fondo resta simile. Il nodo è l’unità del mondo, la globalizzazione, la natura totale del “Sistema”.

   Anche gli apologeti più acritici e accesi della globalizzazione non si nascondono dietro il velo delle sottigliezze tattiche e teoriche, o in discutibili disquisizioni sulle virtù del liberalismo o della “società aperta”. Il vecchio slogan dei contestatori degli anni Sessanta – il Sistema – ha finito per diventare un dato oggettivo e inevitabile. Era un’arma polemica e una metafora. Oggi è un dato di fatto evidente, conclamato. Per Thomas L. Friedman, per esempio, bisogna soltanto decidere da che parte stare, ma il contesto è evidente. La “novità è il sistema”. Il resto sono chiacchiere, pettegolezzi:

se si vuole capire la nuova realtà scaturita dalla fine
della guerra fredda, si deve capire che è nato 
un nuovo sistema internazionale: la globalizzazione.
È questa la ‘cosa’ sui cui ci si deve concentrare. 
La globalizzazione non è l’unico elemento che oggi 
influenza gli eventi, ma è il sistema che fornisce
un polo di attrazione e una forza in grado di dare
una forma al mondo. La novità è il sistema, 
ciò che rimane del passato sono lo scontro fra civiltà, 
le politiche di potenza, il caos e il liberismo (8)

   Oggi come ieri. Naturalmente con tutte le differenze del caso, dopo un’eternità di esitazioni e passaggi a vuoto. Ma oggi – come ieri – il tema del “Sistema” è tornato a definire il riferimento essenziale per la politica e la società, per la cultura diffusa, per gli stili di vita. Negli anni Sessanta – come adesso – era fondamentale quest’intreccio tra la storia con la S maiuscola e l’esistenza privata, la “liberazione” della vita quotidiana, la ricerca di modello diverso nei rapporti umani (nell’amicizia e nel sesso, nell’amore, a scuola, nei consumi e nei vestiti, in politica e in arte: ovunque). 

   Lo stesso intreccio, oggi, si ripresenta come insofferenza e rabbia nei confronti di un modello di globalizzazione che si impone come una divisa ufficiale, genera l’omologazione dei gesti e dei consumi, pretende la sconfitta delle particolarità culturali e delle differenze. Non è un caso. La rabbia scatta contro i simboli più evidenti e immediati, superficiali. La sensazione che la vita sia omologata nei dettagli, nei particolari, è più sconvolgente di qualsiasi discorso teorico-politico sulla new-economy, sulla fine dei blocchi o sul ritrovato ruolo degli Stati Uniti come ultima e unica potenza planetaria. Si vive, si guarda e si ama, si consuma. Ogni momento dell’esistenza quotidiana sembra determinato da forza occulte e neutrali che ci condizionano.  
   MacDonald's è diventato l’icona di un mondo appiattito, schiacciato da un imperialismo sottile  e ricattatorio. Gli stessi hamburger, la stessa architettura, le stesse modalità di acquisto, fruizione, digestione. Il “McMondo”- quindi -  come esempio di una dittatura senza violenza e senza repressione. La colonizzazione delle coscienze e dei cinque sensi: olfatto, udito, vista, tatto, gusto. L’imperialismo di un Sistema che definisce un solo modo giusto di fare le cose, una sola ricetta per avere successo o soltanto per sopravvivere e cavarsela. 

   L’estremismo è passato nel mondo, si è trasferito direttamente nelle cose. I “globalizzatori” e il “popolo di Seattle” vivono la stessa situazione di radicale adesione e scontro rispetto un modello esistenziale e politico che sembra procedere autonomamente, e impone un aspetto terribilmente conforme a l’esistenza di tutti (e in tutto il mondo). 

   I punti critici, le circostanze e i temi su cui si gioca il futuro, i fronti aperti di conflitto sono dimensioni potenzialmente diffuse, a cui non scampa nessuno, presto o tardi. Le biotecnologie, l’alimentazione, gli stili di vita, la cultura di massa e i suoi sottoprodotti immediati, il rapporto con la natura e l’ambiente, la biografia. Come negli anni Sessanta, la “critica sociale” deve manifestarsi necessariamente anche come critica radicale della vita quotidiana. 

   Resta il dubbio su chi sia capace di formularla, questa critica, di farne un tema profondo della rivolta e della contestazione, del rifiuto. Ma oggi, come ieri, il linguaggio della protesta e la politica (quel che ne resta) si misurano nuovamente con una scelta estrema, non possono sfuggire all’imperativo preliminare della denuncia dell’omologazione e al dilemma di un’opzione obbligata, strutturale. 

   Destra e sinistra hanno finito per diventare slogan invecchiati, formule di comodo. “La novità è il sistema”. E nel contesto della globalizzazione, la cosa più importante è scegliere se stare “dentro” o “fuori” il sistema. Accettazione o rifiuto integrale. Non sembra esserci una via di mezzo. 
   Oggi, come ieri, la critica della società e della politica devono formularsi come denuncia di un’immagine totale di società e come invito a “uscire”, a separarsi volontariamente, dal Sistema. 

_______________

NOTE AL TESTO
 

  (2) Douglas Coupland, Fidanzata in coma, Feltrinelli 200, p. 152.
 (3) Douglas Coupland, Fidanzata in coma, cit., p. 265.
 (4) L’espressione di T. L Friedmann, cfr. Le radici del futuro, Mondatori 2000
  (5) Cfr. Thomas Frank, One market Under God, Doubleday 1999.
  (6) “Noi – ha dichiarato Renzo Rosso dei Jeans Diesel – non vendiamo un prodotto ma uno stile di vita. Penso che abbiamo creato un movimento… Il concetto Diesel riguarda tutto. È un modo di vivere e di vestire, di fare le cose”.
  (7) Douglas Coupland, Memoria Polaroid, Tropea 1997, p. 8.
  (8) T .L. Friedman, Le radici del futuro, cit., p. 13.



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