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pensieri

A proposito di Bologna/Seattle, piccole, medie imprese e globalizzazione
Un'analisi per invitare a un dibattito disincantato e realistico sulle alternative praticabili
 

di PIETRO FRIGATO

  Sicuramente il vertice di Bologna sulla globalizzazione osservata con le lenti delle piccole e medie imprese potrebbe rappresentare un momento di riflessione importante per l’insieme di quel movimento disarticolato di protesta che ha preso le proprie mosse a Seattle. Dico disarticolato in modo improprio, perché, a ben guardare, ci si trova di fronte a pressioni profondamente contraddittorie, difficilmente coniugabili. Per non citarne che una particolarmente evidente, si può fare riferimento alla drammatica frattura che corre lungo la classica linea di separazione che storicamente ha ostacolato la comunicazione tra “rossi” (portatori di istanza sindacali e redistributive in genere, dunque anche tradizioni socialdemocratiche) e “verdi” (differenti sensibilità per l’ambiente, accomunate da socialmente insidiosissime richieste di riduzione dei consumi, dunque della domanda aggregata e dell’occupazione). 

  Per quel che mi è dato di sapere, questa fondamentale crepa non risulta ancora superata teoricamente da quanti si adoperano dall’interno del mondo accademico e scientifico per la predisposizione di un quadro concettuale eco-sociale in qualche modo coerente. Il movimentismo non può che soffrirne ma fa male a se stesso a sorvolarvi.

   Tornando al tema che qui interessa vorrei attirare l’attenzione su di un altro scivolosissimo piano: il riduzionismo in base al quale solo le grandi imprese multinazionali, i mercati finanziari e le trame ordite nei palazzi dai lobbisti di turno meritano un’attenzione critica. Infatti, concentrare l’attenzione esclusivamente sulle mostruosità indotte dalle imprese multinazionali fa perdere di vista la possibilità di offrire una valutazione realistica dell’intero sistema di attività economiche private. In fondo, risulta praticamente impossibile che la Fiat assuma lavoratori a nero nei suoi stabilimenti industriali localizzati sul nostro territorio nazionale (anche se poi può tentare di farlo altrove), mentre chiunque conosca le miserie che si legano ai lavori stagionali e non in piccole imprese sa bene come il nero e una grande quantità di soprusi di altra natura siano la regola.

   Inoltre, può non essere male per un turista che si rechi a Bombay trovare un Mc Donald all’uscita dell’aeroporto, piuttosto che acquistare una qualche cibaria dagli effetti collaterali sconosciuti in un qualche bar del posto. Qualcuno potrà provare un profondo fastidio per quanto appena detto e, tuttavia, dovrà concedere che le cose stanno, più o meno, nel modo seguente: vi è una lettura spesso oltremodo superficiale del mondo dell’impresa di mercato nella sua realtà concreta. In breve manca un’idea chiara dell’inerente distruttività ecologica e sociale di unità produttive orientate alla massimizzazione dei ricavi monetari, a prescindere dalla loro dimensione relativa. 

   La realtà concreta ci parla di costi ecologici e sociali indotti sistematicamente e, di norma impunemente, dalle piccole, dalle medie e dalle grandi imprese capitalistiche. Questi costi mutano in funzione del ciclo economico e descrivono costellazioni di perdita di valore ecologico e sociale diverse nelle situazioni di concorrenza più o meno atomistica, di oligopolio e di monopolio. 
  Un maggiore realismo potrebbe portarci a chiedere al sistema politico di monitorare sistematicamente una grande quantità di perdite reversibili e non (e a monetizzarle e renderle visibili nel Pil!), che particolari individui, classi sociali, gruppi di popolazione e la collettività più ampia sono costretti a sopportare come conseguenza di un’iniziativa privata deregolamentata (de jure e/o de facto). Non farlo significa far fuori interi pezzi di realtà e consentire, ad esempio, che la rugiada prodotta nella letteratura sui fantastici distretti industriali della terza Italia non venga mai posta nel giusto rapporto, ad esempio, con il fenomeno inquietante delle morti bianche nei nostri ambienti di lavoro. 

  Quel che dico non è nessuna novità: per non citare che un esempio,  “La grande trasformazione” di Karl Polanyi è anche e soprattutto una grande teoria dei costi sociali dell’iniziativa privata (dunque non solo delle multinazionali!).


o Dotarsi di un'alternativa realizzabile alla globalizzazione selvaggia neoliberista non è predisporre facili slogan. Propongo uno spunto di analisi allarmata sulla attuale debolezza di una alternativa anche solo teoricamente possibile. Un'analisi che, tra l'altro, prescinde dagli ulteriori vincoli che una adeguata considerazione delle dimensioni del potere imporrebbe (e da altri problemi maligni: trend demografici, conflitti sugli standard minimi fra lavoratori dei paesi ricchi e dei paesi poveri, accesso negato ai grandi canali di informazione, induzione massmediatica al cretinismo eccetera eccetera). E' tempo di lavorare sodo alla dimostrazione della possibilità concreta di un'umanizzazione (ecologizzazione) del contesto economico e sociale nel quale, nostro malgrado, siamo costretti a vivere.
P. F.

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K. W. Kapp
 


Pietro Frigato
ha svolto attività di ricerca presso l'IUED di Ginevra, seguito dal Prof. R. Steppacher (assistente di K. William Kapp dal 1972 al 1976 - anno della morte di Kapp), attualmente svolge un dottorato di ricerca in "Storia e sociologia della modernità" presso l'Università degli studi di Pisa e lavora ad una integrazione della teoria dei costi sociali dell'iniziativa privata nella versione fornita da Kapp con i risultati conseguiti 
dalla corrente materialistico-
strutturale nell'ambito dell'epidemiologia sociale.
 
 
 

 

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