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___________di
Vincenzo Andraous____________
Il
G8 imperversa con il suo inarrestabile carico di globalizzazione e mondializzazione.
Con esso il popolo delle tute multicolore a fare da cornice a uno scenario…
di guai a non finire.
A fronte dei miei 28 anni
di carcere già scontati, leggendo e ascoltando ciò che ci
attende al varco (mi perdoneranno tutti i poveri del mondo), ho la mente
e lo sguardo incollati a pochi metri dal mio presente che è
già futuro.
Grandi i temi allo “sbando”,
ma che non fanno sbandare i potenti della terra, i quali assicurano attenzione
sensibile per chi è più piccolo e... displasico. Così
le tute bianche e quelle nere a confermare nel digrigno dei denti
quel pacifismo che fa adirare i potenti.
Televisione, giornali, internet
dispiegano mezzi e progressioni da fare invidia persino a Cipollini, per
giungere primi alla meta di un agognato sfascio e non ho ancora ben capito
a discapito di quale dei due o più contendenti.
La mia ignoranza non mi
consente di elucubrare sui contenuti del G8, sulle tute bianche o nere,
neppure sul debito del paese più povero che però con qualche
aggiustamento per niente oneroso per i grandi di questa terra, potrebbe
essere azzerato.
Mi colpisce qualcos’altro,
che non sfiora i potenti ormai dislocati troppo in alto per dare una sbirciatina
in basso, né il popolo delle tute multicolore troppo impegnate a
fronteggiare a tasche vuote l’urto del semidio denaro.
Nessuno ne parla neppure
sottovoce, ma c’è stato il quasi svuotamento di un paio di carceri,
il trasferimento di tanti detenuti in altri istituti e poco importa se
a mille chilometri di distanza da dove risiedono i loro parenti, i propri
affetti se negli anni ancora ne sono rimasti.
Mi colpisce questa, quanto
meno, originale e strana forma di prevenzione per dare il benvenuto ai
malcapitati che saranno arrestati in strada a protestare, e varcheranno
quindi le soglie di una galera.
Rifletto sulla percezione
che i cittadini hanno di una cella, osservo e rifletto sulla reale accezione
che si trasferisce alla prigione quando qualcosa lede i nostri interessi.
Mi colpisce l’indifferenza
o la disattenzione, con cui si evita di affrontare un problema così
umano e devastante.
Non occorre essere partecipanti
attivi di uno o dell’altro fronte su quella zona rossa ove si giocheranno
visibilità e credibilità per un progetto mai del tutto sviluppato
e quindi nell’impossibilità di confutarlo.
In questo bailamme di versioni
telecomandate, di disegni sgangherati, di giustizia dell’ingiustizia e
di ingiustizia della giustizia, in questo abisso: alla prima curva non
c’è più a fare da ponte l’uomo, ma lo spettro di una violenza
che non ha colori né santificazioni postume.
Ecco perché questa
riflessione a proposito di una tematica così grave e pertinente
per l’intera umanità, mi induce a ritornare su un’area problematica
da me conosciuta come unica e reale “zona rossa”, cioè quel carcere
che, oramai inteso come mero contenitore, anche stavolta servirà
al G8 di turno per contenere e incapacitare chi da oppositore si lascerà
trascinare in una sterile violenza.
Nell’attesa di veder confluire
nelle celle sempre uguali tante persone differenti per convinzioni, culture
e antagonismi, mi domando perché non s’è costruito in un
battibaleno un altro paio di carceri, dotate magari se non di uno scudo
spaziale, di uno scudo perimetrale tutto italico.
E dal momento che chi entrerà
in carcere non sarà un reietto, né un soggetto da stigmatizzare,
ma saranno uomini e donne con ideali maturati nel tempo delle proprie esperienze,
ideali più forti di ogni più perverso meccanismo prisonizzante,
devo dedurre che si partoriranno nuovi e pur vecchi miti di movimenti allo
stato solo in embrione.
Gli “altri” non amano soffermarsi
sulla sofferenza, tanto più quando la sofferenza è strettamente
connessa alle regole che si sono scelte di infrangere.
Penso al carcere,
penso a questi nuovi ospiti, nuovamente ai potenti, e ancora a questa prigione
che sopravvive a se stessa…..
Penso alla politica alta,
penso agli uomini che la fanno, penso ai Caino come me che scontano la
propria condanna, penso agli Abele dai silenzi protratti, e ricordo i tanti
miliardi elargiti a parole nella vecchia legislatura per un progetto “intero”,
almeno così era stato promesso.
Rammento le conferme di
nuove assunzioni di Agenti di Polizia Penitenziaria, di Educatori, di Esperti,
di Assistenti Sociali….sembrava un investimento serio e notevole per far
si che la prigione potesse praticare il dettato Costituzionale.
S’è trattato di utopia,
e gli utopisti sono illusi nella teoria, e violenti nella pratica.
Di illusione s’è
trattato davvero, infatti quei soldi sono stati dirottati verso altri lidi,
verso altre istanze, non più per bilanciare precise scelte di politica
criminale, che andassero, sì, verso una richiesta legittima di sicurezza
collettiva, ma con la stessa intensità non disdegnassero una
pena coercitiva e afflittiva, ma improntata realmente su passaggi rieducativi,
risocializzanti, quindi destrutturanti-ristrutturanti.
Le necessità operative
del carcere restano, impellenti, improrogabili, eppure rimangono a sopravvivere
delle loro assenze e mancanze. Peggio, si rifiuta di ovviare al problema
degli spazi che mancano, con lo sviluppo di spazi psicologici e relazionali,
dove chi è in prigione possa esprimersi liberamente, in un terreno
fertile per l’autocritica, e per la propria crescita personale.
L’antropologia insegna che
dal confronto, laddove si realizzi un vero ragionamento dialogico, scaturisce
sempre e comunque un “prodotto nuovo”, perché l’incontro e
lo scambio conducono a risultati sempre migliori rispetto ai precedenti.
Tutto questo mi porta
comunque a una ulteriore considerazione.
In centomila saranno in
strada a ribadire che vivere non significa sopravvivere.
In 8 saranno seduti a ricercare
percorsi percorribili e condivisibili.
In tanti rimarranno alla
finestra ad aspettare.
Allora persino in una cella
ci si chiederà se tutto questo dispiegamento di menzogne e di verità,
di paure e di miti di cartone, non serva piuttosto a riconoscere l’esistenza
di valori, di ideali, di utopie, fino a ieri negate, ma invece ben vivi
nella nostra stessa società. Soprattutto nei tanti giovani.
Vincenzo
Andraous
Carcere di Pavia e
tutor Casa del
Giovane di Pavia
Luglio 2001
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