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Global
Forum, lo scontro invisibile
Napoli: disordini
e lacrimogeni hanno nascosto all'opinione pubblica il tema del confronto
ll 16 marzo, nonostante la bella giornata di sole,
sin dal mio arrivo alla stazione di Napoli il cielo era oscurato dal pesante
clima di "emergenza" e dalla militarizzazione capillare della città,
un "assetto di guerra" che lasciava già presagire le violenze e
gli scontri del giorno successivo. "Guardi che in centro non si può
entrare", mi dicono mentre mi dirigo verso il Palazzo Reale. Mi vergogno
un pò a dire di essere uno dei pochi "eletti" invitati a parlare
durante i lavori del forum. Il ruolo che cerco di rivestire è quello
dell'"infiltrato", per portare all'interno del Global Forum la voce di
chi è stato escluso dal grande banchetto telematico organizzato
dai governi e dalle multinazionali.
"L'educazione nella società dell'informazione" è il titolo del workshop al quale sono invitato come rappresentante dell'associazione PeaceLink, nata nel 1991 durante la guerra del golfo, all'interno di un computer portatile di un insegnante trasformato in "redazione mobile" e portato in giro per le classi come strumento di educazione e informazione. Da quel computer, che alcuni anni più tardi sarebbe diventato il punto di partenza di una vera e propria rete telematica, partivano documenti e bollettini che denunciavano gli effetti spietati di quelle che allora erano state appena battezzate dai media col nome di "bombe intelligenti". Raggiungere la sede ufficiale del forum è un'impresa tutt'altro che semplice: Napoli è una città blindata, e l'ingresso al Palazzo Reale è molto difficile anche per chi, come me, ha un invito ufficiale. Dietro le divise dei poliziotti e dei carabinieri incontro alcuni sguardi pieni del rammarico di chi è chiamato a svolgere suo malgrado un compito sgradevole, ma è ugualmente pronto a svolgerlo con tutta la determinazione possibile, una determinazione che qualche ora più tardi si trasformerà in una furia selvaggia e incontenibile, documentata dai giornalisti coinvolti nei pestaggi mentre cercavano di fare il loro lavoro. Più tardi, nel corso della conferenza stampa organizzata dai promotori del "controvertice", avrei rivisto sguardi simili negli occhi di altri ragazzi, sinceramente convinti che i veri "nemici" da combattere fossero le forze dell'ordine e non i "burattinai" che da una parte e dall'altra delle barricate utilizzano strumentalmente poliziotti e manifestanti come pedine per nascondere complessi equilibri di potere dietro il paravento degli scontri e dei disordini di piazza. Dopo lunghe peripezie per raggiungere la sede del workshop, riesco finalmente a prendere posto accanto a Stefano Rodotà e agli altri relatori, che presentano i loro progetti di istruzione e formazione basati sull'impiego delle tecnologie telematiche. L'ultimo intervento tocca a me, e sento un brivido percorrere la schiena dei presenti quando annuncio di essere venuto per esprimere le perplessità e le critiche dei cosiddetti movimenti "anti-globalizzazione", presentando un "Manifesto per la "libertà della comunicazione", realizzato assieme ad altre associazioni e e diffuso attraverso la rete. (www.peacelink.it/dossier/globalforum). Tra i molti spunti di riflessione contenuti nel "Manifesto" spicca la critica ad un modello di sviluppo in cui si dà per scontato che l'obiettivo primario dell'educazione sia fornire ad ogni singola persona un computer ed un accesso all'internet, senza che nessuno abbia avviato una seria riflessione sulla sostenibilità e sulla concreta realizzabilità dello slogan "internet per tutti". Se l'istruzione telematica è un obiettivo per tutti, non si capisce come mai si debba perseguire questo obiettivo prima di fornire a tutti gli abitanti del pianeta gli strumenti linguistici e culturali di base, soprattutto a quel miliardo di analfabeti che (guarda caso) coincide con la fascia della popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di povertà. Se invece l'utilizzo delle nuove tecnologie è un privilegio da riservare a pochi bisogna avere l'onestà intellettuale di dichiarare esplicitamente che il fantomatico "villaggio globale" è in realtà un villaggio globalizzato, un mondo a due velocità con un'istruzione di serie A e un'altra di serie B. Il grande inganno culturale del "Global Forum" è stato lo scambio del fine con il mezzo, la descrizione della telematica e dell'informatizzazione come un fine da perseguire per il progresso umano e non come un semplice strumento per l'incontro delle culture e la denuncia delle ingiustizie. Una visione della realtà confermata dallo stesso Giuliano Amato, che nel discorso pronunciato in occasione del forum ha ribadito la necessità di "aprire i mercati" delle telecomunicazioni anche ai paesi impoveriti. Anche dai più sperduti angoli del pianeta, ormai basta avere un piccolo computer e un collegamento telefonico per produrre e consultare informazione in rete, dando nuove opportunità di crescita sociale e culturale anche a chi prima era inesorabilmente tagliato fuori dai grandi circuiti informativi. Dietro questo effetto di apparente "equalizzazione" sociale, tuttavia, si nascondono gli interessi economici delle grandi compagnie di informatica e telecomunicazioni, che hanno tutto l'interesse ad esasperare l'introduzione delle nuove tecnologie. Più computer, più cavi, più telefoni, più satelliti, più software: dietro l'orizzonte è in agguato una nuova "colonizzazione tecnologica", per portare l'internet lì dove non c'è ancora l'acqua. I colossi delle tecnologie dell'informazione hanno deciso che anche il sud del mondo ha bisogno di informatizzarsi e di mettersi velocemente "On Line". A qualunque costo. Partendo dal Sudafrica, aziende come Microsoft e IBM hanno iniziato la loro "invasione digitale" per penetrare anche nel resto del continente. Già nel 1997 Bill Gates, dopo aver affermato che "c'è un mercato potenzialmente enorme in Africa", è atterrato a Johannesburg per l'inaugurazione del primo "villaggio digitale" di Soweto, il primo passo di un investimento da dieci milioni di dollari. Il "controvertice" visto dai media L'analisi critica della "società dell'informazione" e dei diversi modelli di sviluppo che si sono scontrati a Napoli richiede uno sforzo non indifferente. Probabilmente è stato proprio questo il motivo che ha spinto la maggior parte dei mezzi di informazione ad evitare la fatica dell'approfondimento, appiattendo il livello della discussione e riducendo la realtà ad un semplice scontro tra "indiani" e "cow-boys". Indubbiamente è molto più semplice fare la cronaca degli scontri che analizzare in dettaglio le posizioni di "globalizzatori" e "globalizzati". Chi ha partecipato direttamente ad azioni dirette nonviolente, ad esempio durante le varie manifestazioni contro i bombardamenti Nato del 1999, sa benissimo che in ogni corteo basta anche un minimo atto di violenza per azzerare qualsiasi messaggio positivo e propositivo, che inevitabilmente passa in secondo piano. Le risse "fanno notizia" e stimolano la curiosità dei lettori molto più di qualsiasi analisi sociale e politica. Quali sono stati i messaggi che, attraverso i mezzi di informazione, hanno raggiunto quel 90% della popolazione escluso dal giro dei "vip" e dalla ristretta cerchia degli attivisti no-global ? Indubbiamente è più facile ricordare le immagini ad effetto degli scontri di piazza che le riflessioni sui modelli di sviluppo dominanti. Dal punto di vista mediatico ed informativo, bisogna ammettere onestamente che le contromanifestazioni di Napoli sono state un grave autogol, un "danno di immagine" che nel futuro renderà ancora più difficile il lavoro di tutti i movimenti anti-globalizzazione. Quel variegato insieme di persone e di organizzazioni che i mezzi di informazione definiscono sbrigativamente "il popolo di Seattle" è ormai associato nell'immaginario collettivo alla violenza e all'estremismo, grazie alla semplificazione operata dai media e grazie al teatrino della violenza in cui ognuna delle parti ha recitato il suo ruolo alla perfezione, staccando la spina del cervello e dando libero sfogo ad una rabbia non molto lontana dalla rabbia con cui i gladiatori dell'antica Roma si scannavano tra loro nel Colosseo mentre i potenti sghignazzavano in tribuna. Dopo questo "strappo mediatico" tra la società civile e i movimenti anti-globalizzazione sarà necessario un duro lavoro per rendere visibile il lavoro di chi, pur affermando modelli di sviluppo lontani da quelli della cultura dominante, non si riconosce nella violenza e nello scontro fisico. Nel frattempo c'è
chi approfitta della distrazione dei mass-media, troppo impegnati a fare
il conto dei feriti nelle piazze, per tracciare il futuro dell'informazione
in Italia senza fare troppo rumore. Il riferimento è ad un documento
di 10 pagine firmato Mediaset, distribuito durante uno dei workshop del
Global Forum, in cui si legge testualmente che la legge relativa ai servizi
di trasmissioni digitali terrestri, approvata dal Senato il 7 marzo scorso,
permette di "ritenere superato l'attuale regime antitrust sull'analogico",
e che, quando il segnale televisivo non sarà più analogico,
ma trasmesso sotto forma di "bit", ci sarà "la possibilità
di superare, nella frontiera digitale, i divieti di proprietà incrociate
tra stampa, televisione e telecomunicazioni". Quanto basta per un buon
articolo. Ma allora perché nessuno ne parla ?
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o | Si
ringrazia la redazione di "Altreconomia"
per la pubblicazione di questo articolo. - Altri articoli Prospettive
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(4 marzo 2001) Le
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