di GIORGIA CARDINI
L’hanno chiamato «tetto di vetro» o «segregazione
verticale»: due modi eleganti, o due metafore, per parlare di discriminazione.
Non razziale, ma di «genere»: maschile e femminile.
L’occasione per affrontare un problema irrisolto dal movimento di liberazione
delle donne chiamato femminismo, ossia la progressione femminile nelle
carriere e l’insignificante ruolo della donna nei posti dove si decidono
i destini del piccolo e grande mondo dove viviamo, si è verificata
a Trento, pochi giorni fa.
Il seminario organizzato da due ricercatrici dell’Irst di Trento (istituto
per la ricerca scientifica e tecnologica), in verità, aveva un titolo
non facilmente riconoscibile: «Genere, scienza e tecnologia».
Ma il sottotitolo chiariva già di più: «analisi della
specificità di genere donne-uomini nel settore della ricerca scientifica
e tecnologica».
Perché un tema così, in un Istituto in cui si fa ricerca
tecnologica a livelli avanzati? Le due organizzatrici del seminario, Ornella
Mich e Anna Perini, sono partite da due punti fermi: primo, la scarsissima
presenza femminile ai livelli alti della ricerca (solo il 7% dei posti
di professori nelle facoltà scientifiche universitarie europee è
coperto da donne), secondo il fabbisogno ingente di alte professionalità
nel campo della ricerca, professionalità fagocitate dalla New Economy.
In sostanza, la ricerca scientifica rischia di fermarsi se la rotta maschile
non sarà invertita o quantomeno corretta, spingendo le donne
non soltanto a frequentare le facoltà di
Matematica, Fisica, Biologia, eccetera, ma anche a proseguire dopo la laurea
nello stesso campo, senza fermarsi al precario (e indotto) insegnamento
nelle scuole secondarie.
Tutto ciò partendo da un punto fermo (diceva Silvia Gherardi del
dipartimento di Sociologia di Trento): genere e sesso non sono la stessa
cosa, perché il sesso è una differenza biologica, mentre
il genere è una categoria relazionale introdotta soltanto nel 1975,
in sostanza il processo per cui si attribuiscono caratteristiche di maschilità
e femminilità a determinati comportamenti, abitudini, persone. Insomma,
un modo di pensare che diventa poi modo di essere, quando una società
si organizza in modo tale che determinati lavori e abitudini (fare il camionista,
lo scienziato o andare fuori solo la sera) sono maschili ed altri (fare
la spesa, cucinare, lavare, accudire i bambini, insegnare nelle scuole
materne) sono femminili. Una schematizzazione che, si è detto nel
seminario, ha causato anche guasti nel campo della ricerca. A partire dall’esempio
sulla fecondazione: lo spermatozoo considerato sempre attivo, in movimento,
rappresentante di mascolinità, l’ovulo visto come qualcosa di immoto,
passivo, penetrato e quindi conquistato dal «macho». Questo
per un certo tempo, perché poi si è scoperto che invece no,
anche l’ovulo ha una parte attiva: e allora è diventato - guarda
caso - una «femme fatale», una mangiatrice di uomini (spermatozoi).
Domanda - ironica, ma non troppo - conseguente: se gli scienziati non avessero
attribuito un genere allo spermatozoo e all’ovulo, si sarebbe arrivati
prima a capire le loro affinità e differenze vere?
Esponenzialmente: se il genere non fosse entrato nella scienza, se i posti
di potere nella ricerca fossero equamente distribuiti, si potrebbe fare
ricerca in modo diverso, privilegiando la scoperta rispetto al potere derivante
dalla scoperta, differenza che più caratterizza le donne ricercatrici-scienziate
dagli uomini ricercatori-scienziati?
E’ questo il vero dubbio che il seminario voleva instillare: tanti campi
di ricerca inesplorati, perché i fondi per la ricerca sono gestiti
dagli uomini. Sarebbe diverso se li gestissero donne? Cosa si potrebbe
scoprire nelle varie materie che non si è scoperto o che si è
accantonato in tutti questi anni?
Qualche cifra sul fenomeno della presenza femminile aiuta a capire che
le domande non sono oziose. Le ha fornite Adele Menniti del Cnr di Roma,
che ha condotto recentemente uno studio i cui risultati sono in via di
pubblicazione. La ricerca ha coinvolto 8 grandi istituti italiani, tra
cui Cnel, Cnr, Enea, Istituto superiore di sanità, Istat. Nel 1999
negli otto istituti le ricercatrici donne erano il 29% del totale. Per
quanto riguarda la ricerca nei campi della chimica e della medicina, le
donne sono il 30% al livello base, il 5% all’apice della carriera; nella
biologia e nelle scienze sociali la forbice si fa più ampia, con
un 50% iniziale e un 1% all’apice.
Il Cnr ha indagato le cause di questo fenomeno, partendo da tre risposte
che tendenzialmente vengono date al perché le donne non raggiungono
i vertici delle carriere scientifiche.
1) Sono arrivate dopo gli uomini, hanno meno anzianità: analizzando
gli ingressi nei medesimi anni, il Cnr ha potuto vedere che le cose non
stanno così, e da primo ricercatore a dirigente viene promosso il
28% degli uomini, solo il 14% delle donne entrate contemporaneamente, e
la forbice è aumentata negli ultimi anni.
2) Le donne hanno famiglia: solo l’Istat ha fornito i dati familiari, gli
altri enti li hanno negati perché erano dati sensibili o perché
non erano aggiornati. E quindi non è possibile capire quale sia
la reale entità del fenomeno.
3) Le donne pubblicano meno degli uomini. Vero, ha concluso la ricerca,
ma se poi si va a vedere il motivo di questo difetto, si scopre che le
donne firmano meno articoli scientifici perché raramente la responsabilità
dei progetti è in mano loro.
E il
rapporto Etan commissionato dall’Unione europea ha concluso che le conseguenze
della scarsa presenza femminile nella ricerca generano problemi di ingiustizia
sociale e spreco di risorse formate, se è vero - come è
vero - che spesso le donne si laureano meglio degli uomini o agli stessi
livelli.
E dunque? Dunque «donne non si nasce, si diventa», ha detto
- citando Simone de Beauvoir - Anna Maria Garbesi del Cnr di Bologna, laureata
in chimica a Pisa, un passato di lotte nella sinistra extraparlamentare
e nel movimento femminista, portando l’esperienza condotta tra metà
degli anni ’80 e la fine anni ’90 da un gruppo di ricercatrici italiane,
che avevano costituito una rete per approfondire proprio questo tema e
ovviamente per cercare di cambiare qualcosa.
«Il punto è che noi donne contribuiamo alla costruzione del
genere, accettando lo standard imposto da una società maschile,
che ci costringe ad avere un fisico bestiale, se vogliamo occupare certi
posti di potere. Ma il punto è: vogliamo diventare come gli uomini,
o vogliamo cambiare gli standard da loro imposti e costruire un nuovo mondo?».
Bella domanda, ma il giorno dopo il convegno la risposta era nei numeri:
soltanto 10 ricercatrici e 4 ricercatori dell’Irst (su 150) hanno partecipato
al seminario. Conclusione di Ornella Mich: «La maggior parte delle
colleghe giovani non si rende neppure conto che esiste il problema».
Ma la speranza che qualcosa in futuro cambi, anche grazie a queste iniziative,
c’é: il tavolo di lavoro a cui hanno partecipato parecchie seminariste
nel pomeriggio ha sortito qualche idea, per nuove iniziative sul tema.
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(10
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