copertina notizie percorsi interviste libri musica inchieste calendario novità scrivici
i percorsi

Andrea Caffi (1887-1955) e l'attualità del socialismo libertario
Nonviolenza, democrazia, antistatalismo, rifiuto della socialdemocrazia: il pensiero
di un intellettuale cosmopolita, con radici e frequentazioni italiane, a lungo tenuto ai margini
 

 
di GIANPIERO LANDI

    Andrea Caffi è sicuramente una delle figure più affascinanti, ma anche più ingiustamente trascurate e dimenticate, del socialismo italiano ed europeo del Novecento (1).  Intellettuale raffinato e dotato di una stupefacente erudizione, militante politico d'avanguardia partecipe di tutti gli eventi politici e culturali della prima metà del secolo, Caffi merita di essere riscoperto come un pensatore originale e di notevole spessore teorico in grado di fornire contributi di rilievo a una rifondazione libertaria del socialismo. Gli elementi di interesse e di attualità del suo pensiero sono in effetti numerosi, e tali da giustificare una attenzione e una analisi approfondita da parte dei libertari sia di formazione anarchica che socialista. "Irregolare" del socialismo, Caffi si colloca in modo originale in un territorio di confine tra diverse ideologie e culture politiche. Affiora spontaneo il confronto con un'altra eminente figura di teorico del socialismo libertario, Francesco Saverio Merlino, il cui pensiero "eretico" è per tanti aspetti complementare a quello di Caffi, anche per la matrice proudhoniana comune a entrambi (2).

    Come ha opportunamente rilevato Gino Bianco, vi sono alcuni temi costanti attorno a cui ruota tutta la produzione teorica di Caffi e che assicurano un elemento di continuità nel suo pensiero e nei suoi scritti, che si presentano all'apparenza quanto mai disorganici e frammentari. Questi temi costanti sono da un lato "una certa idea del socialismo" (un socialismo critico rispetto a Marx e al marxismo, aggiungiamo noi, e come già si è accennato di forte impronta proudhoniana), e dall'altro "la grande crisi in cui versa la società contemporanea", apertasi con la prima guerra mondiale e approfonditasi nei decenni seguenti col dilagare del totalitarismo in Europa e con la violenza di una seconda guerra mondiale, che di quella crisi avrebbero confermato la profondità e la vastità (3).

   Di grande acutezza sono, in effetti, le analisi di Caffi sulla crisi dei regimi democratici dopo il 1914 e sul totalitarismo. Caffi, precorrendo in parte Hannah Arendt, riesce a cogliere analogie tra il comunismo sovietico, il fascismo e il nazismo, senza mai perdere di vista le specificità che contraddistinguono ciascuno di questi regimi politici.
llluminanti sono in particolare le analisi sull'Unione Sovietica e sullo stalinismo, per le quali Caffi poteva avvalersi - a differenza di tanti altri osservatori occidentali - di una approfondita conoscenza diretta della Russia prima e dopo la rivoluzione. In un'epoca in cui molti intellettuali e politici di sinistra si lasciarono sedurre dal mito dell'Unione Sovietica, Caffi fu tra i pochi a vedere lucidamente - e ad avere il coraggio di affermare che "L'URSS del 1932 è uno Stato, efficiente nell'esercizio dei suoi assoluti poteri come nessun'altra organizzazione statale nel mondo; un grandioso meccanismo per la coercizione e lo sfruttamento degli individui soggetti e per l'azione (finora più perturbatrice che "costruttiva") entro il sistema dei rapporti internazionali" (4) E aggiungeva: "La dittatura di Stalin [...] non è un contrappeso" ai regimi di reazione capitalistica che sopportiamo in molti paesi d'Europa e d'America; è un elemento di questa costellazione; in essa e per essa si sostiene" (5).
Infine non va dimenticato che Caffi, che aveva una solida e vasta cultura storica, letteraria e filosofica, ci ha lasciato anche pagine dense e penetranti - sulle quali forse non si è ancora riflettuto abbastanza -, su temi come la moderna cultura di massa, la violenza in politica, i rischi della burocratizzazione e della tecnica, la crescente complessità dei meccanismi dell'apparato statale sempre più indipendente da ogni controllo popolare, l'importanza del mito e della mitologia nella vita e nella storia. Non è un caso che a Parigi la «Quinzaine Litteraire» di Maurice Nadeau abbia definito Caffi "il Walter Benjamin italiano" (6).

Il concetto di società

    La concezione che Caffi ha del socialismo si lega strettamente a quella che ha di ?società?. Egli usa il termine in una duplice accezione. Da un lato riprende una tripartizione comunemente utilizzata dai pubblicisti e dagli storici russi per più di un secolo, e distingue tra "governo", "società" e "popolo". In questa visione la "società" appare separata e distinta sia dal "governo", formato da "principi, magistrati, sfruttatori, carnefici" (7), sia dal "popolo", inteso come la stragrande maggioranza della collettività "costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per lavorare". Il popolo, scrive Caffi citando Proudhon, non ha mai fatto altro che "pagare e pregare" (8).
Su questo popolo, finché esso non si sia ripreso degli spazi di vita e di libertà e non si sia quindi avviato uno sviluppo individuale delle coscienze, Caffi non si fa illusioni. Egli sembra riporre le sue speranze piuttosto sulla "società" che è formata da tutti coloro che hanno avuto la possibilità di sottrarre almeno una parte della loro vita al lavoro, e che abbiano poi utilizzato questa opportunità per riflettere, per pensare, per formarsi una propria individualità autonoma e cosciente.

    In questo senso la società va intesa come"una sfera di esperienze intime e di rapporti con i simili dove si possono dimenticare ogni assillo di scopi economici e ogni costrizione connessa alla "gerarchia" politico-sociale" (9). Detto in altri termini, la società è "l'insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l'apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi "morali", mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la "società" esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza" (10). La vita di società - scrive ancora Caffi - si realizza ad opera di un "ceto emancipato dalla necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della 'vita interiore' ed emancipato dall?ambizione di dominare" (11).

   Ma il concetto di società è centrale nel pensiero di Caffi, e in altri momenti egli attribuisce al termine un significato diverso, assumendolo nella sua dimensione di "civiltà". In effetti, sembra in questo caso che Caffi si limiti e estendere a tutta la collettività, o a gran parte di essa, quelle caratteristiche che già egli attribuiva alla "società" intesa nella accezione più ristretta.
Allorché - per una serie di circostanze politiche, sociali, economiche -si dà la possibilità di una formazione sociale spontanea, allora può affermarsi una "società senza Stato", caratterizzata dalla "douceur de vivre" e dal prevalere dei rapporti di amicizia (la "philia" di Aristotele) su ogni razionale criterio di amministrazione e di rendimento economico (12). Secondo Nicola Chiaromonte "se c'era nella mente di Caffi un'idea centrale attorno alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era l'idea di socievolezza: la philìa aristotelica, fondamento della vita associata (13). Per Caffi l'esistenza umana "vera" è quella vissuta "secondo verità e giustizia". Non vanno dimenticate poi le osservazioni - spesso di grande finezza - che Caffi dedica al rapporto individuo e società, che rappresenta uno dei punti focali della sua riflessione.

La critica alla civiltà di massa

    Un elemento che per certi versi si lega al precedente è la feroce critica che Caffi rivolge alla moderna civiltà di massa, e al concetto stesso di massa. Si tratta di un aspetto di estrema attualità, ma per coglierne a pieno l'importanza anche sul piano storico è opportuno ricordare che Caffi assume questa posizione in un'epoca in cui i partiti socialisti che si ispiravano al modello della socialdemocrazia tedesca, e in seguito i partiti comunisti nati dalle suggestioni dell'Ottobre bolscevico, facevano proprio delle "masse" il perno della loro azione politica, alle "masse" si rivolgevano con la loro propaganda, sul controllo delle "masse" basavano la propria forza e il proprio potere.

    Caffi non ha alcuna simpatia per l'uomo-massa prodotto dalla società contemporanea, anzi lo ritiene un pericolo che lascia intravedere sbocchi autoritari o totalitari per il genere umano. In ogni caso, l'uomo-massa è incompatibile con la concezione del socialismo che ha Caffi. Nel saggio Il socialismo e la crisi mondiale, del 1949, egli scrive in proposito: "Il socialismo in quanto: 1) capacità di concepire l'ambiente sociale alla luce duna 'critica' rigorosamente razionale esplicata dalla 'facoltà di giudizio' dell'individuo; 2) solidarietà profonda fra individui che 'si sono compresi' non superficialmente fra loro e si sono sentiti legati da un modo press'a poco identico di intendere (ma anche di sentire, giudicare) la realtà circostante - non può assolutamente adattarsi a una 'organizzazione di masse'.
La massa è una forma di collegamento fra gli individui, in cui tutto il fondo di 'essenza' caratteristica o di 'esistenza' originale che costituisce 'la persona' (unica, irriducibile a misurazioni quantitative o norme meccaniche) viene eliminato, e gli uomini ridotti a semplici 'unità' sostituibili di un ceto numero efficiente. Al tipo di reciproci rapporti fra esseri umani che si esprime nella 'massa' si oppongono i modi più complessi d'unione, che (seguendo le indicazioni di Gurvitch a mio parere assai convincenti) si definiscono come 'comunità' o - ad un grado di ancor maggiore intensità - come 'comunione' fra persone pienamente coscienti e del loro 'io' e della loro integrazione in un 'noi' (noi altri). Ora, la propaganda (la educazione, la conversione) socialista non è stata feconda che quando distaccava l'uomo (convertito a tutto un modo nuovo di capire quanto 'succedeva intorno a lui') dalle meccaniche ingiunzioni della 'massa' (inerte o animata da ciechi furori), quando creava nuove comunioni di stretti circoli o comunità" (14)..

   In un altro scritto del 1952, Borghesia e ordine borghese, Caffi afferma: "E tuttavia qual è la qualità più evidente di tali masse? L'inerzia. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettività umana che sola può farli funzionare non s'è prodotta: la 'massa' dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto 'collettività massiccia', essa è incapace di 'possedere' sia i mezzi materiali di produzione sia gl'ingranaggi complicatissimi di un'amministrazione economica. Sentendosi 'incapace', la massa subisce. 

   Che fare? Accettare la rigidità spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello 'sviluppo storico'? Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirannide tecnocratica nuda che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare, rimane: quella che la massa  riuscisse ad abolirsi in quanto massa (...) E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gl'indivìdui finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle comunità autentiche, dei gruppi di 'eguali' capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un'emancipazione reale" (15).

   Proprio l'attenzione per gli individui, per le coscienze individuali con i loro processi a volte anche lenti di maturazione e di crescita, porta Caffi a manifestare una radicata diffidenza nei confronti dei partiti organizzati e dei grandi apparati burocratici. La sua preferenza va piuttosto ai gruppi di affinità, i piccoli gruppi di amici di cui preconìzza l'avvento nelle pagine conclusive del suo saggio Critica della violenza, pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1946 della rivista «Politics» di New York, diretta da Dwight MacDonald: "Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d'amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull'azione collettiva, ma piuttosto sull'iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza" (16).
Non è difficile riconoscere in questo modello l'esempio di vita vissuta fornito, una decina di anni prima, dal gruppo dei 'novatori dissidenti', distaccatosi dal movimento di Giustizia e Libertà alla fine del 1935 per dissensi politici, e che comprendeva - oltre a Caffi, suo ispiratore - anche Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua (morto poi, quest'ultimo, durante la guerra civile in Spagna dove era accorso come volontario per combattere contro il fascismo) (17).

Critica della violenza

   Tra i temi trattati da Caffi nei suoi scritti, grande rilievo assume la critica della violenza, a cui ha dedicato il saggio appena citato, che resta uno dei suoi più belli e penetranti. La tesi di Caffi è espressa con grande chiarezza fin dalle prime righe, dove afferma che un movimento "il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super-Stato), la separazione degli uomini in 'classi' come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l'una all'altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l'insurrezione armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o... Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per consolidare? l'ordine nuovo" (18).

   Come ha scritto Nicola Chiaromonte, "in un'epoca in cui non solo legioni di intellettuali si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell'uomo all'urgenza delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno" (19).
Va rilevato che la "critica della violenza" di Caffi si differenzia dalla "nonviolenza assoluta", di matrice generalmente religiosa. Caffi non assolutizza il comandamento biblico "non uccidere", facendo discendere da questo il rifiuto della violenza sempre e comunque e in tutte le sue forme (come Tolstoj e, per citare un autorevole nonviolento italiano, Aldo Capitini). Caffi argomenta le sue tesi piuttosto con motivazioni di natura etica e pratica, che rinviano alla necessaria corrispondenza tra mezzi e fini.
Per Caffi "ogni violenza è, per definizione, antisociale" (20). Il ricorso alla violenza per instaurare una società di liberi e di uguali è inefficace e conduce anzi a risultati opposti a quelli che ci si proponeva. "È possibile vincere la violenza con la violenza" La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d'ordine empirico: quale probabilità c'è che un'organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell'equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l'altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia 'rivoluzionarie', in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l'impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?"(21).

    Le concezioni di Caffi, espresse negli ultimi anni di vita nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, trovano le loro radici sia in un comprensibile e molto umano sentimento di disgusto e di orrore per la violenza in sé, sia soprattutto nella convinzione che il ricorso ad essa sia inefficace e controproducente ai fini della creazione di una società libertaria e egualitaria (22). Se questo era vero anche per il passato diventa a maggior ragione fondamentale dopo lo spaventoso salto di qualità che i mezzi di distruzione di massa hanno raggiunto nel corso del nostro secolo e in particolare durante e dopo la seconda guerra mondiale (23).

   Scrive Caffi in proposito: "a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d'umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d'organizzazione massiccia (eserciti e polizia Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d'atroce efficienza che la distruzione completa della società civile se non del genere umano è diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare l'Armageddon" (24).

   Se la condanna della violenza come strumento di una lotta politica socialista e libertaria è netta e inequivocabile, non è comunque da escludere - anche se la questione nel saggio citato non è minimamente affrontata - che per Caffi possano esistere situazioni estreme in cui il ricorso alla violenza si renda necessario come legittima difesa sia individuale che collettiva.

   Proprio il fatto di avere fondato la sua opzione nonviolenta su considerazioni di natura etica e pratica senza assolutizzare rende possibile ipotizzare delle eccezioni, ossia delle situazioni eccezionali e estreme nelle quali il ricorso alla violenza sia inevitabile se non altro per salvaguardare la propria vita e alcuni valori irrinunciabili. Non va dimenticata in proposito la partecipazione di Caffi alla Resistenza francese durante la seconda guerra mondiale che gli costò tra l'altro l'arresto e le torture della Gestapo (25).

   Ma sembra di potere concludere che per Caffi, ammesso che appunto ci siano casi limite in cui l'uso della violenza si renda necessario, questo fatto rappresenti comunque la presa d'atto di una sconfitta, l'accettazione del terreno di scontro scelto dal nemico e a lui più congeniale. In ogni caso non è attraverso la violenza che si può arrivare alla costruzione di una società di liberi e di uguali.
Una conferma di ciò che si è finora sostenuto si può rintracciare in un saggio di Caffi dal titolo "E' la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini?", scritto sempre nel 1946 e quindi coevo a Critica della violenza, di cui può rappresentare un'utile integrazione. Da un lato Caffi nega che fosse giusto, finché esisteva ed era forte il nazismo, che i socialisti dovessero puntare al disfattismo e a una rivoluzione socialista (peraltro impossibile in Inghilterra durante la guerra). Dall'altro nega che possa esistere una "guerra rivoluzionaria", una guerra fatta dai socialisti, ?se il socialismo ha da essere una vera liberazione dell'uomo?.
La situazione difficile e contraddittoria in cui si troverebbero i socialisti in caso di guerra è delineata da Caffi in questi termini: "Potrebbe ben essere che la guerra, quali che siano i suoi motivi e i suoi scopi, sia essenzialmente un fatto inaccettabile dal punto di vista socialista. Nello stesso tempo, giacché siamo uomini inevitabilmente legati ad un comune destino, non possiamo semplicemente trarci da parte e dire: Non è affar nostro . Possiamo sottostare al nostro destino con dignità; salvare la nostra anima, aiutare un piccolo gruppo di amici a salvare la loro. Ma questo sarà tutto" (26).

  Stato e Nazione

   La concezione che Caffi ha del socialismo, già è stato sottolineato più volte, è apertamente e dichiaratamente libertaria. Non è un caso che nel 1964, nel presentare la prima raccolta di scritti di Caffi da lui curata apparsa col significativo titolo "Socialismo libertario", Gino Bianco abbia richiamato una citazione di Rodolfo Morandi che Caffi avrebbe sicuramente condiviso e che potrebbe benissimo essere uscita dalla sua penna:
   "Il nuovo socialismo deve dichiararsi schiettamente libertario (senza punto impaurirsi della baldanza anarchica di quella qualifica!). È l'eredità gravosa del lungo periodo di lotta legale, lo ìstatalismo' che ha spezzato le reni così alla seconda come alla terza internazionale, che è da scrollarsi di dosso" (27).
L'antistatalismo di Caffi è riscontrabile in più punti dei suoi scritti. Va precisato in proposito che egli non arriva all'antistatalismo radicale e assoluto dell'anarchismo tradizionale. Caffi appare pessimista rispetto alla possibilità di una completa abolizione dello Stato come istituzione politica necessaria per la vita sociale. Ciononostante egli si pronuncia in modo netto contro la forma-Stato così come la conosciamo oggi, e il tipo di stato a cui mira, così come viene delineato nei suoi scritti, appare molto vicino a quella 'società organizzata', retta sull'"autogoverno popolare", in cui si riconosce gran parte del pensiero anarchico.
Le concezioni di Caffi sullo Stato si trovano delineate soprattutto in "I socialisti, la guerra e la pace" (1941-1942), che rappresenta probabilmente l'opera più importante dal punto di vista politico che il rivoluzionario italo-russo ci abbia lasciato (28).

  Per Caffi, la direzione verso la quale ci si deve muovere è quella della applicazione del principio federativo alla struttura e alla macchina amministrativa dello Stato, e del completo superamento dell'idea di sovranità dello Stato-nazione. La struttura unitaria e tendenzialmente monistica dello Stato va modificata mediante una idonea azione costituente. Da un lato si deve sottrarre l?esclusiva della sovranità allo Stato nazionale attraverso la creazione di una federazione europea, dall'altro occorre creare e rafforzare tutta una serie di enti autonomi (cooperative, sindacati, associazioni politiche, mutualistiche, assistenziali, culturali e di altro genere), esautorando lo Stato dalle sue tradizionali funzioni (29). Allo Stato va anche tolto il monopolio del diritto, passando dal diritto statale al diritto sociale. La società deve produrre al proprio interno il diritto per autogovernarsi. Caffi si richiama esplicitamente, in proposito, al "droit social" di Gurvitch che a sua volta affonda le sue radici nell'opera di Proudhon (30). La critica che Caffi rivolge al nazionalismo e al concetto di Stato-nazione è radicale. 

   Secondo Gino Bianco, negli anni Trenta "nell'area socialista degli emigrés italiani solo Caffi e Silvio Trentin portano a fondo la critica dell'ideologia dello Stato-nazione" (31).
   Proprio il fatto di credere nello Stato-nazione, secondo Caffi, ha paralizzato l'azione di molti dirigenti e di molti partiti socialisti nel 1914 e negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Questo è uno degli aspetti che differenziano maggiormente Caffi dalla socialdemocrazia dei suoi tempi. Scriveva in proposito che "l'obbiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe essere che la lotta contro la 'macchina' dello Stato nazionale, che è diventato l'agente principale, se non unico, dell'oppressione sociale" (32).
   Nel saggio "Semplici riflessioni sulla situazione europea", scritto nel 1935, analizzando le tensioni internazionali destinate a fare precipitare in pochi anni il continente in un nuovo immane conflitto, egli arriva a sostenere che la responsabilità della guerra che si affaccia all'orizzonte non è del fascismo, bensì della divisione dell'Europa in Stati sovrani: "Finché vi sono Stati, il 'sacro egoismo' è legge suprema, massima intelligenza, e - grazie al cielo - oggi non si può più illudersi di fare agire questi egoismi nel senso di un 'interesse generale'; sono chimere da abbandonare ai non innocenti trastulli della storiografia liberale. Quello che porta l'Europa alla guerra non è il fascismo, ma l'assetto dell'Europa, divisa in Stati sovrani. Le spartizioni territoriali, i 'corridoi', le minoranze nazionali, la rovina economica creata dalle barriere doganali, non è il fascismo che li ha inventati o creati. Sono questioni che si potevano poco a poco risolvere senza guerra? Cosa si è fatto su questa via in diciassette anni?" (33).

   L'adesione a una politica di appoggio allo Stato - in nome dei "sacri interessi nazionali" - da parte dei partiti affiliati alla Seconda Internazionale fece di Caffi - a partire dal 1914 - un socialista totalmente estraneo all'organizzazione e ai metodi di lotta politica della socialdemocrazia, dalla quale lo separava peraltro la sua stessa concezione del socialismo. Nulla era in effetti più distante da Caffi del vecchio riformismo socialdemocratico, che faceva coincidere il socialismo con l'espansione del ruolo dello stato nell'ambito dell?economia e della società.
  Come ha scritto Gino Bianco, "nella ricerca delle origini dei mali presenti del movimento operaio, Caffi indicava non solo nella pratica bolscevica (di Lenin prima e in quella terroristica e poliziesca dello stalinismo poi) ma anche nel 'mito burocratico' nato dall'esperienza della socialdemocrazia tedesca, modello ideale di ogni 'moderno' partito politico, le cause della rivoluzione che ha colpito i partiti socialisti" (34).
  Indicative, in proposito, le affermazioni contenute nel saggio "Opinioni sulla rivoluzione russa", pubblicato da Caffi nel numero del marzo 1932 dei «Quaderni di Giustizia e Libertà»: "Ora il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di neo-umanesimo proprio dal fatto che si è eretto a difesa della 'società' contro gli inumani congegni dell'ordinamento statale ed ha perseguito la completa emancipazione della società - delle concrete comunità di uomini vivi - dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come 'numeri', 'soggetti', schede. E se il socialismo abbandona questo motivo dominante, non troverà più argomenti, né morale sostegno per combattere la dittatura comunista

Socialismo e democrazia

    Di notevole interesse sono le concezioni di Caffi riguardo la democrazia e il rapporto che intercorre tra questa e il socialismo. Caffi distingue in modo netto tra la democrazia a cui aspira il movimento operaio e socialista e la democrazia realizzata storicamente dagli Stati, quella che oggi verrebbe definita la "democrazia reale". Egli nega con forza "l'idea che la minima solidarietà di interessi, una pur transitoria comunanza di scopi possa esistere fra quel che noialtri intendiamo per 'democrazia' - autonomia del popolo - e il più 'democratico' degli Stati". Nel già citato saggio "Il socialismo e la crisi mondiale", Caffi contesta l'idea che gli Stati che si definiscono democratici siano in effetti tali: "Un acutissimo osservatore della realtà sociale moderna - Dickinson - già nel 1914 affermava che i regimi moderni, abusivamente qualificati come 'democratici', sono in realtà una combinazione di 'ochlocrazia' (sovranità più apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia - regno effettivo delle grosse fortune? (36).

    Caffi non si limita a condividere il giudizio di Dickinson, ma va oltre mettendo in discussione l'identificazione tra democrazia e sovranità popolare, a cui mostra di non credere: "Scartiamo nettamente l'assurda supposizione che 'democrazia' debba significare 'popolo governato dal popolo stesso'. Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa) ha potuto mai effettivamente governare (esercitando cioè in concreto i 'poteri' esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) neppure in una minuscola città greca o in quei due cantoni rurali della Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta. E se si ammette la delega della 'sovranità popolare' sia di un uomo sia di un partito politico, i risultati tipici che offre sinora l'esperienza della storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall'altro quella vera (o 'nuova') democrazia che rende ora felici i polacchi i bulgari gli jugoslavi.
La realtà della democrazia s'afferma non con la fiducia negli eletti ma con la possibilità di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite. Anche la forza di un Parlamento si manifesta non nella nomina di un governo, ma nella facoltà di rovesciarlo, nel discutere e criticare le leggi (che non possono essere 'creazione collettiva' ma sempre sono testi elaborati da pochi competenti) [...]. La sostanza dell'ordinamento democratico sta nella difesa dell'incolumità personale d'ogni cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della 'potestà coercitiva' e nel raggiungimento di un massimo d'uguaglianza nella facoltà riconosciuta ad ogni individuo di conoscere e verificare tutti gli atti dei pubblici poteri? (37).

   Caffi si sofferma sul ruolo di difesa della democrazia svolto storicamente dai partiti socialisti in Europa nei decenni tra fine ottocento e inizio novecento. Egli mette in risalto come all'interno di Stati che potevano dirsi democrazie "solo con moltissime riserve (per causa di tutti gli elementi autoritari che vi perpetuavano le gerarchie militari, burocratiche e soprattutto plutocratiche); persino in paesi semi-autocratici come la Germania, l'Austria-Ungheria e la Russia (dopo il 1905) non pochi soprusi venivano frenati per paura del chiasso che susciterebbero i socialisti" (38).
   L'azione di vigilanza e di pressione democratica era portata avanti dai socialisti non solo con le campagne elettorali, ma con la stampa, i sindacati, il ricorso a scioperi generali politici e altre forme di lotta e di agitazione. La pressione esercitata in tal modo guadagnava senza dubbio in efficacia "per il fatto che i socialisti si mantenevano fuori dall'ingranaggio governativo", si sottraevano alle omertà e relative sanzioni cui è soggetto il 'personale dirigente' dello Stato e davano al pubblico affidamento di incorruttibilità. Ma, ben inteso, questa stessa circostanza per cui tutto l'apparecchio ingente di risorse materiali e organizzazioni amministrative rimaneva in mano dei nostri avversari, segnava i limiti della forza socialista" (39).
In ogni caso, per Caffi, con lo scoppio della prima guerra mondiale tutto è cambiato, e per i socialisti non è più lecito farsi illusioni: "la 'democrazia' quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si può avere nella sua 'evoluzione' la fiducia che poteva essere legittima nel 1889" (40).

  La situazione di profonda crisi in cui era caduto il socialismo a partire dal fatidico anno 1914 non sfuggiva a Caffi, che ne fece oggetto di attenta riflessione e di analisi impietosa. Negli ideali del socialismo egli continuò peraltro a identificarsi per tutta la vita, indicando nel recupero dei suoi più autentici valori e nella capacità di correggere gli errori del passato la via di una possibile e necessaria rinascita.
Per chi ritiene che i valori del socialismo - la libertà, la giustizia sociale spinta fino a una tendenziale eguaglianza, la solidarietà, il primato dell'uomo sulle leggi del mercato - non possano e non debbano scomparire perché l'alternativa sarebbe la barbarie, oggi più che mai risuonano attuali le parole scritte da Caffi nel 1949 nel già più volte citato saggio "Il socialismo e la crisi mondiale":
Se il socialismo oggigiorno non può essere altra cosa che un 'apparato' d'azione politica (con stinte o tarate coperture ideologiche) impegnato - assieme ad altri partiti - nel mesto compito di mantenere più l'apparenza che la sostanza di regimi "democratici" in un'Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la continuazione - con discesa nel popolo - delle grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione della ragione umana, sui principii della quale è unicamente possibile fondare la pace, la fraternità, la felicità per tutti, allora dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall'agosto 1914 in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento e che... bisogna ricominciare da capo. Spietato, prima di tutto, deve essere l'esame di coscienza giacché inavvedutezze e colpose facilonerie da parte nostra hanno contribuito certamente al così catastrofico generale collasso (41).

Note al testo

l. Sulla Vita e il pensiero di Caffi si veda G. BIANCO, "Un socialista irregolare";
Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, con introduzione di A. Moravia, Cosenza, Lerici, 1977; N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della violenza, a cura di N. Chiaromonte, Milano, Bompiani, 1966; C. VALLAURI, Caffi Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, voI. 16, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, pp. 264-267.
2. Su Merlino si veda la recente e esaustiva biografia di G. BERTI. Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930), Milano. Franco Angeli, 1993. Per una interpretazione parzialmente diversa dell'approdo teorico e politico del pensatore napoletano negli anni della sua maturità, mi permetta di segnalare anche il mio "Socialismo liberale o socialismo libertario", in A/rivista anarchica, n. 213, novembre 1994.
3. G. BIANCO, Presentazione, in A. CAFFI, Scritti politici, a cura di G. Bianco, Firenze, La Nuova Italia. 1970, p. VII.
4. A. CAFFI, "Opinioni sulla rivoluzione russa", in ID.. Scritti politici. cit.. p. 98
5. Ivi, p. 108.
6. Cfr. G. BIANCO. Un socialista ?irregolare?. cit., p. 92.
7. A. CAFFI, Individuo e società, in ID., Critica della violenza, cit.. p. 39.
8. Ivi, p. 35.
9. lvi, p. 48.
10. A. CAFFI, Critica della violenza, in ID., Critica della violenza, cit.. p. 86.
11. A. CAFFI, Individuo e società, cit., p. 43.
12. "Nel suo significato primordiale, la nozione di politica si ricollega alla città greca, dove lo Stato, la società e il popolo erano (pressapoco) una sola e medesima realtà, e cioè una permanenza di rapporti fra persone coscienti di esistere e le quali volevano esistere il meglio possibile nella sicurezza di un determinato ordine. Aristotele designa tali rapporti col termine di philia. C'è chi pensa che sia un errore tradurre la parola con amicizia . E tuttavia, i Greci erano soliti pesar bene il senso preciso delle parole..." A. CAFFI, Società, 'élite' e politica, in ID., Critica della violenza, cit., p. 137.
13. N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 5. 
14. A. CAFFI, Il socialismo e la crisi mondiale, in Id., Critica della violenza. cit., pp.
15. A. CAFFI, Borghesia e ordine borghese, in Id., Critica della violenza, cit., pp.
233-234.
16. A. CAFFI. Critica della violenza, cit.. pp. 103-104.
17. Cfr. A. GAROSCI, Vita di Carlo Rosselli, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 332-336; O. BIANCO, Un socialista "irregolar" . Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, cit., pp. 62-66; ID., Chiaromonte - Caffi. lettere ed altro, in «Settanta», 3, 1972, pp. 38-46.
Sull?influenza esercitata da Caffi su Rosselli nei primi anni Trenta, e più in generale sul contributo teorico del rivoluzionario italo-russo al dibattito in Giustizia e Libertà, si veda anche 5. FEDELE, "E verrà un'altra Italia; Politica e cultura nei "Quaderni di Giustizia e Libertà", Milano, Franco Angeli, 1992.
18. A. CAFFI, Critica della violenza, cit.. p. 77.
19. N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 25.
20. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 81.
21. Ivi, pp. 83-84.
22. Non va dimenticato che in precedenza Caffi aveva preso parte come volontario alla prima guerra mondiale. Come ha rilevato opportunamente Gino Bianco, "la decisione di arruolarsi volontario nell'esercito francese, da parte di un socialista come lui, suscita meraviglia. A Nicola Chiaromonte che negli anni trenta gli pose bruscamente la domanda, Caffi spiegò candidamente che, ?in primo luogo non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destin" [...] Caffi insomma partecipò dell'illusione secondo cui il progresso della democrazia socialista passava attraverso la distruzione degli Imperi centrali. C'era in lui come in tanti altri, l'idea che gli "Stati borghesi avrebbero attuato poi, a guerra vittoriosa finita quelle riforme che erano così dure da conquistare attraverso i movimenti popolari" e la speranza che le nazionalità oppresse avrebbero potuto acquistare la loro indipendenza solo con la sconfitta degli imperi austro-ungarico e germanico. Ma la ragione probabilmente più profonda del suo interventismo fu il sentimento che a catastrofe avvenuta non si potesse starsene in disparte, quando tanti amici morivano nei campi di battaglia". G. BIANCO, Un socialista "irregolare", cit., pp. 2 1-22.
23. Secondo Gino Bianco "negli anni trenta Caffi non aveva rinunciato a considerare utili o possibili i mezzi della violenza organizzata ('finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre sono l'unico mezzo per portare rimedio - o solo un giusto compenso ' - alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l?ineguaglianza sociale')". È solo dopo l'esperienza della seconda guerra mondiale, "del mondo concentrazionario" degli armamenti nucleari e dell'era della 'violenza totale'", che Caffi "oppone un rifiuto radicale anche alla violenza rivoluzionaria, sia nella forma dell'insurrezione armata e della guerra internazionale che del 'regime di dittatura e terrore per consolidare l'ordine nuovo'", ivi, p. 97.
In effetti, è lecito pensare che l'esperienza della seconda guerra mondiale abbia solo accentuato un rifiuto della violenza che in Caffi era già presente, anche se fino a quel momento non si era espresso con altrettanta radicalità. È questo un tema che meriterebbe un approfondimento, ma ogni ricerca in proposito si scontra con la scarsità della documentazione fino a questo momento disponibile. Mi sembra comunque significativa la testimonianza di Antonio Banfi, che di Caffi fu intimo amico a partire dagli anni giovanili degli studi universitari condotti da entrambi in Germania: "Qualche mese dopo nell'atrio dell'Università berlinese; il vento di marzo premeva alle vetrate. Guardavamo il quadro delle lezioni, io e Confucio Cotti [...] E ci si fece vicino l'altro con la sua chioma fulva e l'occhio ardente di sole, Andrea Caffi, cavaliere errante delle guerre e delle rivoluzioni. Veniva dalle prigioni russe donde l'aveva tratto un discorso di Filippo Turati alla Camera e ne rideva come rideva più tardi al cannoneggiomento delle Argonne, allo fucileria del Sabotino, ch'egli aveva affrontato col fucile a tracolla disposto a morire non ad uccidere". A. BANFI, Tre maestri, in L'Illustrazione italiana, 3 novembre 1946. p. 284. Il corsivo è mio.
24. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 92.
25. "A Tolosa partecipa all'attività dei gruppi della resistenza e tuttavia confessa di non riuscire a condividere le loro speranze di 'rigenerazione', giacché la sua è anche una crisi di credenze, aggravata dal sentimento di 'non essere partecipe di qualche cosa di definitivo. Tutto quello che sta accadendo adesso - aggiunge - non si può paragonare a niente di quello che pensavamo noi, non si può inserire nelle concezioni intellettuali e morali della nostra generazione. L'unica cosa solida è il mondo dell'amicizia, un'amicizia attiva come quella che anche a me ha dato la salvezza". Arrestato dalla milizia di Darmand verso la fine del 1944, conobbe gli orrori della tortura e degli interrogatori brutali. Riuscì tuttavia a salvarsi per la 'testimonianza', a lui favorevole, fornita da un giovane collaborazionista corso che aveva conosciuto tra i clochards e gli 'irregolari' di Tolosa". O. BIANCO. Un socialista "irregolare", cit.. p. 85. Le notizie fornite da Bianco, per quanto importanti, non consentono di chiarire tutti i dubbi. Sarebbe interessante sapere se Caffi a Tolosa ha preso parte a episodi di lotta armata, oppure se il suo impegno si è manifestato esclusivamente nelle forme della resistenza nonviolenta.
26. A. CAFFI, È la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini?, in Id., Scritti politici, cit., p. 319. La critica della violenza di Caffi, tutta interna al pensiero socialista, presenta notevole lucidità e coerenza. Caffi, che tra l'altro negli anni successivi alla seconda guerra mondiale collaborò dalla Francia ad alcune iniziative di Aldo Capitini, ha esercitato un'influenza diretta e significativa su esponenti di rilievo del movimento nonviolento. Tra i primi a richiamare l'attenzione sull'importanza del pensiero nonviolento di Caffi è stato Lamberto Borghi, che nel suo volume Educazione e autorità nell'italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951, ne ha tracciato un'efficace sintesi. In epoca a noi più vicina si è richiamato esplicitamente a Caffi anche Giuliano Pontara, nel suo saggio Violenza e terrorismo. il problema della definizione e della giustificazione. in "Dimensioni del terrorismo politico", a cura di L. Bonanate, Milano, Franco Angeli, 1979, p. 65.
27. G. BIANCO, introduzione, in A. CAFFI, Socialismo libertario. Milano, Azione Comune, 1964, pp. 11-12. La citazione di Morandi prosegue peraltro con un richiamo a Marx che sembra riportare su un piano di maggiore ortodossia la "scandalosa" affermazione precedente del leader socialista: "È tutta la critica marxista dello stato e della burocrazia, che è da riprendere e portare a nuovi sviluppi". R. MORANDI, Ricostruzione socialista, il socialismo integrale di Otto Bauer, ora in ID., La democrazia del socialismo 1923-1937, Torino, Einaudi, 1961, p. 184.
28. Scritto sotto forma di Tesi per il dibattito interno fra i militanti socialisti italiani dell?emigrazione antifascista, in un momento in cui i socialisti dispersi in vari paesi cercavano di definire il loro atteggiamento di fronte alla guerra, specie dopo l?ingresso dell'URSS fra i belligeranti. Il documento di Caffi si contrappone alla Tesi di Nenni e Saragat (totalmente favorevole alla politica degli Alleati) e a quella di Modigliani (che si richiamava al tradizionale pacifismo "zimmerwaldiano"). tn opposizione alla politica "frontista" di Nenni e Saragat, orientati in quel momento verso l'alleanza strategica coi comunisti, ma critica anche rispetto al pacifismo intransigente di Modigliani, che per quanto moralmente nobile rischiava di essere sterile sul piano politico, la Tesi di Caffi (scritta in collaborazione con Giuseppe Faravelli, Enrico Bertoluzzi e Emilio Zannerini della Federazione Socialista del Sud-Ovest della Francia), proponeva un'adesione condizionata alla lotta contro le potenze fasciste, cercando di salvaguardare l'autonomia del movimento socialista per il presente e soprattutto per il futuro. Cfr. A. LANDUYT, Un tentativo di rinnovamento del socialismo italiano: Silone e il Centro estero di Zurigo, in L'emigrazione socialista nella lotta contro il fascismo (1926-1939), Firenze, Sansoni, 1982. Sull?importanza delle cosiddette "Tesi di Tolosa" ha richiamato di recente l'attenzione Stefano Merli, che nel suo volume i socialisti, la guerra, la nuova Europa. Dalla Spagna alla Resistenza 1936-1942, ha riprodotto integralmente i documenti originali, corredati dai materiali preparatori e da una scelta significativa del successivo dibattito. Secondo Merli, la tesi "I socialisti, la guerra e la pace", a lungo attribuita al solo Caffi, sarebbe stata in realtà scritta da Faravelli in collaborazione con Bertoluzzi e Zannerini, lasciando poi a Caffi - che aveva partecipato alla discussione collettiva - la redazione finale. Si veda anche, in merito, A. PANACCIONE, I socialisti italiani e la seconda guerra mondiale, in Giano, n. 19, gennaio-aprile 1995.
29. Cfr. A. CAFFI, i socialisti, la guerra, la pace, in ID., Scritti politici, cit., .specialmente pp. 303-304.
30. Cfr. in proposito O. GURVITCH, L'idée de droit social, Paris, Librairie du Récueil Sirey, 1932. Sull'influenza di Gurvitch su Caffi, ma anche su Rosselli e altri esponenti di Giustizia e Libertà, si veda C. MALANDRINO, Socialismo e Libertà. Autonomie, Federalismo, Europa da Rosselli a Silone, Milano, Franco Angeli, 1990.
31. G. BIANCO, Un socialista "irregolare":Andrea Caffi intellettuale e politico d?avanguardia, cit., p. 67. Di Silvia Trentin si veda, in particolare, la raccolta di scritti Federalismo e libertà. Scritti teorici 1 935-1943, Venezia, Marsilio, 1987.
32. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 101.
33. A. CAFFI, Semplici riflessioni sulla situazione europea, in ID.. Scritti politici, cit., pp. 193-194. Il corsivo è mio. Interessante, nello stesso saggio, anche il richiamo alla necessità di una "politica estera" autonoma da parte del movimento operaio e socialista: "Credo che, oltre la politica interna rivoluzionaria, vi sia un'azione internazionale da svolgere, metodica e non fatta di pura propaganda" (ivi, p. 195).
34. G. BIANCO, Presentazione, in A. CAFFI, Scritti politici, cit., pp. XI-X1l.
35. A. CAFFI, Opinioni sulla rivoluzione russa, cit., p. 101.
36. A. CAFFI, Il socialismo cia crisi mondiale, cit., p. 381.
37. Ivi, pp. 388-389.
38. lvi, p. 389.
39, ibidem.
40. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 101.
41. A. CAFFI, Il socialismo e la crisi mondiale, cit., p. 373.


o
(Andrea Caffi)


Gianpiero Landi è curatore dell'interessante volume "Andrea Caffi, un socialista libertario", 
edito dalla Biblioteca 
Franco Serantini (Pisa, 1996, pp. 204, lire 25 mila) che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Bologna nel 1996 
nel quadro delle iniziative per riapre la riflessione sul pensiero di Caffi, figura straordinaria di intellettuale, amico di Nicola Chiaromonte e di Albert Camus, spesso avvicinato ad Hannah Arendt o (sia pure da laico) a Simone Weil. Un socialista libertario, un "irregolare", come intitola il suo volume dedicato a Caffi Gino Bianco. Un socialista tenuto ai margini dalla stessa sinistra italiana la quale, al contrario, anche oggi avrebbe di che studiare nel pensiero di Caffi, se davvero ci fosse la volontà di individuare nuove strade di giustizia e libertà alternative alle scoppiazzuture politicamente corrette del modello neoliberista. Andrea Caffi, che Maurice Nadeau ha definito “il Walter Benjamin italiano", può essere, obggi, una felice scoperta proprio per chi si interroga su quali strade poter percorrere fuori dall'omologazione globale.

Ringraziamo Landi di averci passato questo intervento tratto dagli atti
del convegno bolognese dei quali consigliamo una lettura integrale.

(31 marzo 2000)
 

Goffredo Fofi:
Caffi e il ruolo
delle minoranze

copertina
le notizie
 i percorsi
interviste
i libri
la musica
inchieste
calendario
le novità