di GIANPIERO LANDI
Andrea
Caffi è sicuramente una delle figure più affascinanti, ma
anche più ingiustamente trascurate e dimenticate, del socialismo
italiano ed europeo del Novecento (1). Intellettuale raffinato e
dotato di una stupefacente erudizione, militante politico d'avanguardia
partecipe di tutti gli eventi politici e culturali della prima metà
del secolo, Caffi merita di essere riscoperto come un pensatore originale
e di notevole spessore teorico in grado di fornire contributi di rilievo
a una rifondazione libertaria del socialismo. Gli elementi di interesse
e di attualità del suo pensiero sono in effetti numerosi, e tali
da giustificare una attenzione e una analisi approfondita da parte dei
libertari sia di formazione anarchica che socialista. "Irregolare" del
socialismo, Caffi si colloca in modo originale in un territorio di confine
tra diverse ideologie e culture politiche. Affiora spontaneo il confronto
con un'altra eminente figura di teorico del socialismo libertario, Francesco
Saverio Merlino, il cui pensiero "eretico" è per tanti aspetti complementare
a quello di Caffi, anche per la matrice proudhoniana comune a entrambi
(2).
Come ha
opportunamente rilevato Gino Bianco, vi sono alcuni temi costanti attorno
a cui ruota tutta la produzione teorica di Caffi e che assicurano un elemento
di continuità nel suo pensiero e nei suoi scritti, che si presentano
all'apparenza quanto mai disorganici e frammentari. Questi temi costanti
sono da un lato "una certa idea del socialismo" (un socialismo critico
rispetto a Marx e al marxismo, aggiungiamo noi, e come già si è
accennato di forte impronta proudhoniana), e dall'altro "la grande crisi
in cui versa la società contemporanea", apertasi con la prima guerra
mondiale e approfonditasi nei decenni seguenti col dilagare del totalitarismo
in Europa e con la violenza di una seconda guerra mondiale, che di quella
crisi avrebbero confermato la profondità e la vastità (3).
Di grande acutezza
sono, in effetti, le analisi di Caffi sulla crisi dei regimi democratici
dopo il 1914 e sul totalitarismo. Caffi, precorrendo in parte Hannah Arendt,
riesce a cogliere analogie tra il comunismo sovietico, il fascismo e il
nazismo, senza mai perdere di vista le specificità che contraddistinguono
ciascuno di questi regimi politici.
llluminanti sono in particolare
le analisi sull'Unione Sovietica e sullo stalinismo, per le quali Caffi
poteva avvalersi - a differenza di tanti altri osservatori occidentali
- di una approfondita conoscenza diretta della Russia prima e dopo la rivoluzione.
In un'epoca in cui molti intellettuali e politici di sinistra si lasciarono
sedurre dal mito dell'Unione Sovietica, Caffi fu tra i pochi a vedere lucidamente
- e ad avere il coraggio di affermare che "L'URSS del 1932 è uno
Stato, efficiente nell'esercizio dei suoi assoluti poteri come nessun'altra
organizzazione statale nel mondo; un grandioso meccanismo per la coercizione
e lo sfruttamento degli individui soggetti e per l'azione (finora più
perturbatrice che "costruttiva") entro il sistema dei rapporti internazionali"
(4) E aggiungeva: "La dittatura di Stalin [...] non è un contrappeso"
ai regimi di reazione capitalistica che sopportiamo in molti paesi d'Europa
e d'America; è un elemento di questa costellazione; in essa e per
essa si sostiene" (5).
Infine non va dimenticato
che Caffi, che aveva una solida e vasta cultura storica, letteraria e filosofica,
ci ha lasciato anche pagine dense e penetranti - sulle quali forse non
si è ancora riflettuto abbastanza -, su temi come la moderna cultura
di massa, la violenza in politica, i rischi della burocratizzazione e della
tecnica, la crescente complessità dei meccanismi dell'apparato statale
sempre più indipendente da ogni controllo popolare, l'importanza
del mito e della mitologia nella vita e nella storia. Non è un caso
che a Parigi la «Quinzaine Litteraire» di Maurice Nadeau abbia
definito Caffi "il Walter Benjamin italiano" (6).
Il concetto di società
La concezione
che Caffi ha del socialismo si lega strettamente a quella che ha di ?società?.
Egli usa il termine in una duplice accezione. Da un lato riprende una tripartizione
comunemente utilizzata dai pubblicisti e dagli storici russi per più
di un secolo, e distingue tra "governo", "società" e "popolo". In
questa visione la "società" appare separata e distinta sia dal "governo",
formato da "principi, magistrati, sfruttatori, carnefici" (7), sia dal
"popolo", inteso come la stragrande maggioranza della collettività
"costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per lavorare".
Il popolo, scrive Caffi citando Proudhon, non ha mai fatto altro che "pagare
e pregare" (8).
Su questo popolo, finché
esso non si sia ripreso degli spazi di vita e di libertà e non si
sia quindi avviato uno sviluppo individuale delle coscienze, Caffi non
si fa illusioni. Egli sembra riporre le sue speranze piuttosto sulla "società"
che è formata da tutti coloro che hanno avuto la possibilità
di sottrarre almeno una parte della loro vita al lavoro, e che abbiano
poi utilizzato questa opportunità per riflettere, per pensare, per
formarsi una propria individualità autonoma e cosciente.
In questo
senso la società va intesa come"una sfera di esperienze intime e
di rapporti con i simili dove si possono dimenticare ogni assillo di scopi
economici e ogni costrizione connessa alla "gerarchia" politico-sociale"
(9). Detto in altri termini, la società è "l'insieme di quei
rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti,
nel senso che hanno almeno l'apparenza della libertà nella scelta
delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non
vi si esercitano che con mezzi "morali", mentre i moventi utilitari sono
o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere
che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà
affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo.
Intesa in questo senso, la "società" esclude per principio ogni
costrizione, e soprattutto ogni violenza" (10). La vita di società
- scrive ancora Caffi - si realizza ad opera di un "ceto emancipato dalla
necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno
fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta
anche a quelle della 'vita interiore' ed emancipato dall?ambizione di dominare"
(11).
Ma il concetto
di società è centrale nel pensiero di Caffi, e in altri momenti
egli attribuisce al termine un significato diverso, assumendolo nella sua
dimensione di "civiltà". In effetti, sembra in questo caso che Caffi
si limiti e estendere a tutta la collettività, o a gran parte di
essa, quelle caratteristiche che già egli attribuiva alla "società"
intesa nella accezione più ristretta.
Allorché - per una
serie di circostanze politiche, sociali, economiche -si dà la possibilità
di una formazione sociale spontanea, allora può affermarsi una "società
senza Stato", caratterizzata dalla "douceur de vivre" e dal prevalere dei
rapporti di amicizia (la "philia" di Aristotele) su ogni razionale criterio
di amministrazione e di rendimento economico (12). Secondo Nicola Chiaromonte
"se c'era nella mente di Caffi un'idea centrale attorno alla quale tutte
le altre si ordinavano naturalmente, questa era l'idea di socievolezza:
la philìa aristotelica, fondamento della vita associata (13). Per
Caffi l'esistenza umana "vera" è quella vissuta "secondo verità
e giustizia". Non vanno dimenticate poi le osservazioni - spesso di grande
finezza - che Caffi dedica al rapporto individuo e società, che
rappresenta uno dei punti focali della sua riflessione.
La critica alla civiltà
di massa
Un elemento
che per certi versi si lega al precedente è la feroce critica che
Caffi rivolge alla moderna civiltà di massa, e al concetto stesso
di massa. Si tratta di un aspetto di estrema attualità, ma per coglierne
a pieno l'importanza anche sul piano storico è opportuno ricordare
che Caffi assume questa posizione in un'epoca in cui i partiti socialisti
che si ispiravano al modello della socialdemocrazia tedesca, e in seguito
i partiti comunisti nati dalle suggestioni dell'Ottobre bolscevico, facevano
proprio delle "masse" il perno della loro azione politica, alle "masse"
si rivolgevano con la loro propaganda, sul controllo delle "masse" basavano
la propria forza e il proprio potere.
Caffi
non ha alcuna simpatia per l'uomo-massa prodotto dalla società contemporanea,
anzi lo ritiene un pericolo che lascia intravedere sbocchi autoritari o
totalitari per il genere umano. In ogni caso, l'uomo-massa è incompatibile
con la concezione del socialismo che ha Caffi. Nel saggio Il socialismo
e la crisi mondiale, del 1949, egli scrive in proposito: "Il socialismo
in quanto: 1) capacità di concepire l'ambiente sociale alla luce
duna 'critica' rigorosamente razionale esplicata dalla 'facoltà
di giudizio' dell'individuo; 2) solidarietà profonda fra individui
che 'si sono compresi' non superficialmente fra loro e si sono sentiti
legati da un modo press'a poco identico di intendere (ma anche di sentire,
giudicare) la realtà circostante - non può assolutamente
adattarsi a una 'organizzazione di masse'.
La massa è una forma
di collegamento fra gli individui, in cui tutto il fondo di 'essenza' caratteristica
o di 'esistenza' originale che costituisce 'la persona' (unica, irriducibile
a misurazioni quantitative o norme meccaniche) viene eliminato, e gli uomini
ridotti a semplici 'unità' sostituibili di un ceto numero efficiente.
Al tipo di reciproci rapporti fra esseri umani che si esprime nella 'massa'
si oppongono i modi più complessi d'unione, che (seguendo le indicazioni
di Gurvitch a mio parere assai convincenti) si definiscono come 'comunità'
o - ad un grado di ancor maggiore intensità - come 'comunione' fra
persone pienamente coscienti e del loro 'io' e della loro integrazione
in un 'noi' (noi altri). Ora, la propaganda (la educazione, la conversione)
socialista non è stata feconda che quando distaccava l'uomo (convertito
a tutto un modo nuovo di capire quanto 'succedeva intorno a lui') dalle
meccaniche ingiunzioni della 'massa' (inerte o animata da ciechi furori),
quando creava nuove comunioni di stretti circoli o comunità" (14)..
In un altro
scritto del 1952, Borghesia e ordine borghese, Caffi afferma: "E tuttavia
qual è la qualità più evidente di tali masse? L'inerzia.
La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettività
umana che sola può farli funzionare non s'è prodotta: la
'massa' dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto 'collettività
massiccia', essa è incapace di 'possedere' sia i mezzi materiali
di produzione sia gl'ingranaggi complicatissimi di un'amministrazione economica.
Sentendosi 'incapace', la massa subisce.
Che fare? Accettare
la rigidità spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a
quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello 'sviluppo storico'?
Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirannide tecnocratica nuda
che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada,
mi pare, rimane: quella che la massa riuscisse ad abolirsi in quanto
massa (...) E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gl'indivìdui
finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle
comunità autentiche, dei gruppi di 'eguali' capaci di pensare e
di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non
vedo altra strada verso un'emancipazione reale" (15).
Proprio l'attenzione
per gli individui, per le coscienze individuali con i loro processi a volte
anche lenti di maturazione e di crescita, porta Caffi a manifestare una
radicata diffidenza nei confronti dei partiti organizzati e dei grandi
apparati burocratici. La sua preferenza va piuttosto ai gruppi di affinità,
i piccoli gruppi di amici di cui preconìzza l'avvento nelle pagine
conclusive del suo saggio Critica della violenza, pubblicato per la prima
volta nel numero di gennaio 1946 della rivista «Politics» di
New York, diretta da Dwight MacDonald: "Oggi, il moltiplicarsi di gruppi
d'amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi
valori
avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda.
Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie
ideologiche; non fiderebbero sull'azione collettiva, ma piuttosto sull'iniziativa
individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici
che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza" (16).
Non è difficile riconoscere
in questo modello l'esempio di vita vissuta fornito, una decina di anni
prima, dal gruppo dei 'novatori dissidenti', distaccatosi dal movimento
di Giustizia e Libertà alla fine del 1935 per dissensi politici,
e che comprendeva - oltre a Caffi, suo ispiratore - anche Nicola Chiaromonte,
Mario Levi e Renzo Giua (morto poi, quest'ultimo, durante la guerra civile
in Spagna dove era accorso come volontario per combattere contro il fascismo)
(17).
Critica della violenza
Tra i temi trattati
da Caffi nei suoi scritti, grande rilievo assume la critica della violenza,
a cui ha dedicato il saggio appena citato, che resta uno dei suoi più
belli e penetranti. La tesi di Caffi è espressa con grande chiarezza
fin dalle prime righe, dove afferma che un movimento "il quale abbia per
scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e
quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società
agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super-Stato), la separazione
degli uomini in 'classi' come pure in nazioni straniere (e potenzialmente
ostili) l'una all'altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche
possibili i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l'insurrezione
armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure contro
Hitler, o... Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per consolidare?
l'ordine nuovo" (18).
Come ha scritto
Nicola Chiaromonte, "in un'epoca in cui non solo legioni di intellettuali
si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son
trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero,
Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale.
Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo
discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell'uomo all'urgenza
delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno" (19).
Va rilevato che la "critica
della violenza" di Caffi si differenzia dalla "nonviolenza assoluta", di
matrice generalmente religiosa. Caffi non assolutizza il comandamento biblico
"non uccidere", facendo discendere da questo il rifiuto della violenza
sempre e comunque e in tutte le sue forme (come Tolstoj e, per citare un
autorevole nonviolento italiano, Aldo Capitini). Caffi argomenta le sue
tesi piuttosto con motivazioni di natura etica e pratica, che rinviano
alla necessaria corrispondenza tra mezzi e fini.
Per Caffi "ogni violenza
è, per definizione, antisociale" (20). Il ricorso alla violenza
per instaurare una società di liberi e di uguali è inefficace
e conduce anzi a risultati opposti a quelli che ci si proponeva. "È
possibile vincere la violenza con la violenza" La questione, in realtà,
ne nasconde due molto diverse. La prima è d'ordine empirico: quale
probabilità c'è che un'organizzazione di refrattari, uomini
liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle
armi, dell'equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare
gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo?
Ma la questione decisiva è l'altra: anche supponendo che si riesca
a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale
altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare
la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia,
è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze
quanto si voglia 'rivoluzionarie', in quelle abitudini barbare, in quegli
eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un
gregge docile e dei capi imperiosi che l'impiego organizzato della violenza
inesorabilmente genera?"(21).
Le concezioni
di Caffi, espresse negli ultimi anni di vita nel periodo successivo alla
seconda guerra mondiale, trovano le loro radici sia in un comprensibile
e molto umano sentimento di disgusto e di orrore per la violenza in sé,
sia soprattutto nella convinzione che il ricorso ad essa sia inefficace
e controproducente ai fini della creazione di una società libertaria
e egualitaria (22). Se questo era vero anche per il passato diventa a maggior
ragione fondamentale dopo lo spaventoso salto di qualità che i mezzi
di distruzione di massa hanno raggiunto nel corso del nostro secolo e in
particolare durante e dopo la seconda guerra mondiale (23).
Scrive Caffi
in proposito: "a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà
e d'umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli
attentati distruttori dei violenti; usando la violenza noi rinneghiamo
necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo
indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche
e i sistemi d'organizzazione massiccia (eserciti e polizia Ceka e Gestapo,
campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono
attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale
grado d'atroce efficienza che la distruzione completa della società
civile se non del genere umano è diventata una possibilità
effettiva. Non è affar nostro provocare l'Armageddon" (24).
Se la condanna
della violenza come strumento di una lotta politica socialista e libertaria
è netta e inequivocabile, non è comunque da escludere - anche
se la questione nel saggio citato non è minimamente affrontata -
che per Caffi possano esistere situazioni estreme in cui il ricorso alla
violenza si renda necessario come legittima difesa sia individuale che
collettiva.
Proprio il fatto
di avere fondato la sua opzione nonviolenta su considerazioni di natura
etica e pratica senza assolutizzare rende possibile ipotizzare delle eccezioni,
ossia delle situazioni eccezionali e estreme nelle quali il ricorso alla
violenza sia inevitabile se non altro per salvaguardare la propria vita
e alcuni valori irrinunciabili. Non va dimenticata in proposito la partecipazione
di Caffi alla Resistenza francese durante la seconda guerra mondiale che
gli costò tra l'altro l'arresto e le torture della Gestapo (25).
Ma sembra di
potere concludere che per Caffi, ammesso che appunto ci siano casi limite
in cui l'uso della violenza si renda necessario, questo fatto rappresenti
comunque la presa d'atto di una sconfitta, l'accettazione del terreno di
scontro scelto dal nemico e a lui più congeniale. In ogni caso non
è attraverso la violenza che si può arrivare alla costruzione
di una società di liberi e di uguali.
Una conferma di ciò
che si è finora sostenuto si può rintracciare in un saggio
di Caffi dal titolo "E' la guerra rivoluzionaria una contraddizione in
termini?", scritto sempre nel 1946 e quindi coevo a Critica della violenza,
di cui può rappresentare un'utile integrazione. Da un lato Caffi
nega che fosse giusto, finché esisteva ed era forte il nazismo,
che i socialisti dovessero puntare al disfattismo e a una rivoluzione socialista
(peraltro impossibile in Inghilterra durante la guerra). Dall'altro nega
che possa esistere una "guerra rivoluzionaria", una guerra fatta dai socialisti,
?se il socialismo ha da essere una vera liberazione dell'uomo?.
La situazione difficile
e contraddittoria in cui si troverebbero i socialisti in caso di guerra
è delineata da Caffi in questi termini: "Potrebbe ben essere che
la guerra, quali che siano i suoi motivi e i suoi scopi, sia essenzialmente
un fatto inaccettabile dal punto di vista socialista. Nello stesso tempo,
giacché siamo uomini inevitabilmente legati ad un comune destino,
non possiamo semplicemente trarci da parte e dire: Non è affar nostro
. Possiamo sottostare al nostro destino con dignità; salvare la
nostra anima, aiutare un piccolo gruppo di amici a salvare la loro. Ma
questo sarà tutto" (26).
Stato e Nazione
La concezione
che Caffi ha del socialismo, già è stato sottolineato più
volte, è apertamente e dichiaratamente libertaria. Non è
un caso che nel 1964, nel presentare la prima raccolta di scritti di Caffi
da lui curata apparsa col significativo titolo "Socialismo libertario",
Gino Bianco abbia richiamato una citazione di Rodolfo Morandi che Caffi
avrebbe sicuramente condiviso e che potrebbe benissimo essere uscita dalla
sua penna:
"Il nuovo socialismo
deve dichiararsi schiettamente libertario (senza punto impaurirsi della
baldanza anarchica di quella qualifica!). È l'eredità gravosa
del lungo periodo di lotta legale, lo ìstatalismo' che ha spezzato
le reni così alla seconda come alla terza internazionale, che è
da scrollarsi di dosso" (27).
L'antistatalismo di Caffi
è riscontrabile in più punti dei suoi scritti. Va precisato
in proposito che egli non arriva all'antistatalismo radicale e assoluto
dell'anarchismo tradizionale. Caffi appare pessimista rispetto alla possibilità
di una completa abolizione dello Stato come istituzione politica necessaria
per la vita sociale. Ciononostante egli si pronuncia in modo netto contro
la forma-Stato così come la conosciamo oggi, e il tipo di stato
a cui mira, così come viene delineato nei suoi scritti, appare molto
vicino a quella 'società organizzata', retta sull'"autogoverno popolare",
in cui si riconosce gran parte del pensiero anarchico.
Le concezioni di Caffi sullo
Stato si trovano delineate soprattutto in "I socialisti, la guerra e la
pace" (1941-1942), che rappresenta probabilmente l'opera più importante
dal punto di vista politico che il rivoluzionario italo-russo ci abbia
lasciato (28).
Per Caffi, la direzione
verso la quale ci si deve muovere è quella della applicazione del
principio federativo alla struttura e alla macchina amministrativa dello
Stato, e del completo superamento dell'idea di sovranità dello Stato-nazione.
La struttura unitaria e tendenzialmente monistica dello Stato va modificata
mediante una idonea azione costituente. Da un lato si deve sottrarre l?esclusiva
della sovranità allo Stato nazionale attraverso la creazione di
una federazione europea, dall'altro occorre creare e rafforzare tutta una
serie di enti autonomi (cooperative, sindacati, associazioni politiche,
mutualistiche, assistenziali, culturali e di altro genere), esautorando
lo Stato dalle sue tradizionali funzioni (29). Allo Stato va anche tolto
il monopolio del diritto, passando dal diritto statale al diritto sociale.
La società deve produrre al proprio interno il diritto per autogovernarsi.
Caffi si richiama esplicitamente, in proposito, al "droit social" di Gurvitch
che a sua volta affonda le sue radici nell'opera di Proudhon (30). La critica
che Caffi rivolge al nazionalismo e al concetto di Stato-nazione è
radicale.
Secondo Gino
Bianco, negli anni Trenta "nell'area socialista degli emigrés italiani
solo Caffi e Silvio Trentin portano a fondo la critica dell'ideologia dello
Stato-nazione" (31).
Proprio il
fatto di credere nello Stato-nazione, secondo Caffi, ha paralizzato l'azione
di molti dirigenti e di molti partiti socialisti nel 1914 e negli anni
successivi alla prima guerra mondiale. Questo è uno degli aspetti
che differenziano maggiormente Caffi dalla socialdemocrazia dei suoi tempi.
Scriveva in proposito che "l'obbiettivo essenziale di una politica socialista,
oggi, non potrebbe essere che la lotta contro la 'macchina' dello Stato
nazionale, che è diventato l'agente principale, se non unico, dell'oppressione
sociale" (32).
Nel saggio
"Semplici riflessioni sulla situazione europea", scritto nel 1935, analizzando
le tensioni internazionali destinate a fare precipitare in pochi anni il
continente in un nuovo immane conflitto, egli arriva a sostenere che la
responsabilità della guerra che si affaccia all'orizzonte non è
del fascismo, bensì della divisione dell'Europa in Stati sovrani:
"Finché vi sono Stati, il 'sacro egoismo' è legge suprema,
massima intelligenza, e - grazie al cielo - oggi non si può più
illudersi di fare agire questi egoismi nel senso di un 'interesse generale';
sono chimere da abbandonare ai non innocenti trastulli della storiografia
liberale. Quello che porta l'Europa alla guerra non è il fascismo,
ma l'assetto dell'Europa, divisa in Stati sovrani. Le spartizioni territoriali,
i 'corridoi', le minoranze nazionali, la rovina economica creata dalle
barriere doganali, non è il fascismo che li ha inventati o creati.
Sono questioni che si potevano poco a poco risolvere senza guerra? Cosa
si è fatto su questa via in diciassette anni?" (33).
L'adesione a
una politica di appoggio allo Stato - in nome dei "sacri interessi nazionali"
- da parte dei partiti affiliati alla Seconda Internazionale fece di Caffi
- a partire dal 1914 - un socialista totalmente estraneo all'organizzazione
e ai metodi di lotta politica della socialdemocrazia, dalla quale lo separava
peraltro la sua stessa concezione del socialismo. Nulla era in effetti
più distante da Caffi del vecchio riformismo socialdemocratico,
che faceva coincidere il socialismo con l'espansione del ruolo dello stato
nell'ambito dell?economia e della società.
Come ha scritto Gino
Bianco, "nella ricerca delle origini dei mali presenti del movimento operaio,
Caffi indicava non solo nella pratica bolscevica (di Lenin prima e in quella
terroristica e poliziesca dello stalinismo poi) ma anche nel 'mito burocratico'
nato dall'esperienza della socialdemocrazia tedesca, modello ideale di
ogni 'moderno' partito politico, le cause della rivoluzione che ha colpito
i partiti socialisti" (34).
Indicative, in proposito,
le affermazioni contenute nel saggio "Opinioni sulla rivoluzione russa",
pubblicato da Caffi nel numero del marzo 1932 dei «Quaderni di Giustizia
e Libertà»: "Ora il socialismo deriva il suo stesso nome,
il suo pathos, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di neo-umanesimo
proprio dal fatto che si è eretto a difesa della 'società'
contro gli inumani congegni dell'ordinamento statale ed ha perseguito la
completa emancipazione della società - delle concrete comunità
di uomini vivi - dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che
come 'numeri', 'soggetti', schede. E se il socialismo abbandona questo
motivo dominante, non troverà più argomenti, né morale
sostegno per combattere la dittatura comunista
Socialismo e democrazia
Di notevole
interesse sono le concezioni di Caffi riguardo la democrazia e il rapporto
che intercorre tra questa e il socialismo. Caffi distingue in modo netto
tra la democrazia a cui aspira il movimento operaio e socialista e la democrazia
realizzata storicamente dagli Stati, quella che oggi verrebbe definita
la "democrazia reale". Egli nega con forza "l'idea che la minima solidarietà
di interessi, una pur transitoria comunanza di scopi possa esistere fra
quel che noialtri intendiamo per 'democrazia' - autonomia del popolo -
e il più 'democratico' degli Stati". Nel già citato saggio
"Il socialismo e la crisi mondiale", Caffi contesta l'idea che gli Stati
che si definiscono democratici siano in effetti tali: "Un acutissimo osservatore
della realtà sociale moderna - Dickinson - già nel 1914 affermava
che i regimi moderni, abusivamente qualificati come 'democratici', sono
in realtà una combinazione di 'ochlocrazia' (sovranità più
apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia - regno
effettivo delle grosse fortune? (36).
Caffi
non si limita a condividere il giudizio di Dickinson, ma va oltre mettendo
in discussione l'identificazione tra democrazia e sovranità popolare,
a cui mostra di non credere: "Scartiamo nettamente l'assurda supposizione
che 'democrazia' debba significare 'popolo governato dal popolo stesso'.
Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa)
ha potuto mai effettivamente governare (esercitando cioè in concreto
i 'poteri' esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) neppure in una minuscola
città greca o in quei due cantoni rurali della Svizzera famosi come
esempi di democrazia diretta. E se si ammette la delega della 'sovranità
popolare' sia di un uomo sia di un partito politico, i risultati tipici
che offre sinora l'esperienza della storia sono da un lato il cesarismo
plebiscitario, dall'altro quella vera (o 'nuova') democrazia che rende
ora felici i polacchi i bulgari gli jugoslavi.
La realtà della democrazia
s'afferma non con la fiducia negli eletti ma con la possibilità
di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli
ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite. Anche la
forza di un Parlamento si manifesta non nella nomina di un governo, ma
nella facoltà di rovesciarlo, nel discutere e criticare le leggi
(che non possono essere 'creazione collettiva' ma sempre sono testi elaborati
da pochi competenti) [...]. La sostanza dell'ordinamento democratico sta
nella difesa dell'incolumità personale d'ogni cittadino contro qualsiasi
arbitrio o eccesso della 'potestà coercitiva' e nel raggiungimento
di un massimo d'uguaglianza nella facoltà riconosciuta ad ogni individuo
di conoscere e verificare tutti gli atti dei pubblici poteri? (37).
Caffi si sofferma
sul ruolo di difesa della democrazia svolto storicamente dai partiti socialisti
in Europa nei decenni tra fine ottocento e inizio novecento. Egli mette
in risalto come all'interno di Stati che potevano dirsi democrazie "solo
con moltissime riserve (per causa di tutti gli elementi autoritari che
vi perpetuavano le gerarchie militari, burocratiche e soprattutto plutocratiche);
persino in paesi semi-autocratici come la Germania, l'Austria-Ungheria
e la Russia (dopo il 1905) non pochi soprusi venivano frenati per paura
del chiasso che susciterebbero i socialisti" (38).
L'azione di
vigilanza e di pressione democratica era portata avanti dai socialisti
non solo con le campagne elettorali, ma con la stampa, i sindacati, il
ricorso a scioperi generali politici e altre forme di lotta e di agitazione.
La pressione esercitata in tal modo guadagnava senza dubbio in efficacia
"per il fatto che i socialisti si mantenevano fuori dall'ingranaggio governativo",
si sottraevano alle omertà e relative sanzioni cui è soggetto
il 'personale dirigente' dello Stato e davano al pubblico affidamento di
incorruttibilità. Ma, ben inteso, questa stessa circostanza per
cui tutto l'apparecchio ingente di risorse materiali e organizzazioni amministrative
rimaneva in mano dei nostri avversari, segnava i limiti della forza socialista"
(39).
In ogni caso, per Caffi,
con lo scoppio della prima guerra mondiale tutto è cambiato, e per
i socialisti non è più lecito farsi illusioni: "la 'democrazia'
quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più
essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo:
in ogni caso, non si può avere nella sua 'evoluzione' la fiducia
che poteva essere legittima nel 1889" (40).
La situazione di profonda
crisi in cui era caduto il socialismo a partire dal fatidico anno 1914
non sfuggiva a Caffi, che ne fece oggetto di attenta riflessione e di analisi
impietosa. Negli ideali del socialismo egli continuò peraltro a
identificarsi per tutta la vita, indicando nel recupero dei suoi più
autentici valori e nella capacità di correggere gli errori del passato
la via di una possibile e necessaria rinascita.
Per chi ritiene che i valori
del socialismo - la libertà, la giustizia sociale spinta fino a
una tendenziale eguaglianza, la solidarietà, il primato dell'uomo
sulle leggi del mercato - non possano e non debbano scomparire perché
l'alternativa sarebbe la barbarie, oggi più che mai risuonano attuali
le parole scritte da Caffi nel 1949 nel già più volte citato
saggio "Il socialismo e la crisi mondiale":
Se il socialismo oggigiorno
non può essere altra cosa che un 'apparato' d'azione politica (con
stinte o tarate coperture ideologiche) impegnato - assieme ad altri partiti
- nel mesto compito di mantenere più l'apparenza che la sostanza
di regimi "democratici" in un'Europa sconquassata e imbarbarita, non vale
proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale
o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la
continuazione - con discesa nel popolo - delle grandiose ed audacissime
speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione
della ragione umana, sui principii della quale è unicamente possibile
fondare la pace, la fraternità, la felicità per tutti, allora
dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall'agosto 1914
in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento e che... bisogna
ricominciare da capo. Spietato, prima di tutto, deve essere l'esame di
coscienza giacché inavvedutezze e colpose facilonerie da parte nostra
hanno contribuito certamente al così catastrofico generale collasso
(41).
Note al testo
l. Sulla Vita e il pensiero di Caffi si veda G. BIANCO, "Un socialista
irregolare";
Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, con introduzione
di A. Moravia, Cosenza, Lerici, 1977; N. CHIAROMONTE, Introduzione, in
A. CAFFI, Critica della violenza, a cura di N. Chiaromonte, Milano, Bompiani,
1966; C. VALLAURI, Caffi Andrea, in Dizionario biografico degli italiani,
voI. 16, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, pp. 264-267.
2. Su Merlino si veda la recente e esaustiva biografia di G.
BERTI. Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al socialismo
liberale (1856-1930), Milano. Franco Angeli, 1993. Per una interpretazione
parzialmente diversa dell'approdo teorico e politico del pensatore napoletano
negli anni della sua maturità, mi permetta di segnalare anche il
mio "Socialismo liberale o socialismo libertario", in A/rivista anarchica,
n. 213, novembre 1994.
3. G. BIANCO, Presentazione, in A. CAFFI, Scritti politici,
a cura di G. Bianco, Firenze, La Nuova Italia. 1970, p. VII.
4. A. CAFFI, "Opinioni sulla rivoluzione russa", in ID.. Scritti
politici. cit.. p. 98
5. Ivi, p. 108.
6. Cfr. G. BIANCO. Un socialista ?irregolare?. cit., p. 92.
7. A. CAFFI, Individuo e società, in ID., Critica della
violenza, cit.. p. 39.
8. Ivi, p. 35.
9. lvi, p. 48.
10. A. CAFFI, Critica della violenza, in ID., Critica della
violenza, cit.. p. 86.
11. A. CAFFI, Individuo e società, cit., p. 43.
12. "Nel suo significato primordiale, la nozione di politica
si ricollega alla città greca, dove lo Stato, la società
e il popolo erano (pressapoco) una sola e medesima realtà, e cioè
una permanenza di rapporti fra persone coscienti di esistere e le quali
volevano esistere il meglio possibile nella sicurezza di un determinato
ordine. Aristotele designa tali rapporti col termine di philia.
C'è chi pensa che sia un errore tradurre la parola con amicizia
. E tuttavia, i Greci erano soliti pesar bene il senso preciso delle parole..."
A. CAFFI, Società, 'élite' e politica, in ID., Critica della
violenza, cit., p. 137.
13. N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della
violenza, cit., p. 5.
14. A. CAFFI, Il socialismo e la crisi mondiale, in Id., Critica
della violenza. cit., pp.
15. A. CAFFI, Borghesia e ordine borghese, in Id., Critica della
violenza, cit., pp.
233-234.
16. A. CAFFI. Critica della violenza, cit.. pp. 103-104.
17. Cfr. A. GAROSCI, Vita di Carlo Rosselli, Firenze, Vallecchi,
1973, pp. 332-336; O. BIANCO, Un socialista "irregolar" . Andrea Caffi
intellettuale e politico d'avanguardia, cit., pp. 62-66; ID., Chiaromonte
- Caffi. lettere ed altro, in «Settanta», 3, 1972, pp. 38-46.
Sull?influenza esercitata da Caffi su Rosselli nei primi anni Trenta,
e più in generale sul contributo teorico del rivoluzionario italo-russo
al dibattito in Giustizia e Libertà, si veda anche 5. FEDELE, "E
verrà un'altra Italia; Politica e cultura nei "Quaderni di Giustizia
e Libertà", Milano, Franco Angeli, 1992.
18. A. CAFFI, Critica della violenza, cit.. p. 77.
19. N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della
violenza, cit., p. 25.
20. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 81.
21. Ivi, pp. 83-84.
22. Non va dimenticato che in precedenza Caffi aveva preso parte
come volontario alla prima guerra mondiale. Come ha rilevato opportunamente
Gino Bianco, "la decisione di arruolarsi volontario nell'esercito francese,
da parte di un socialista come lui, suscita meraviglia. A Nicola Chiaromonte
che negli anni trenta gli pose bruscamente la domanda, Caffi spiegò
candidamente che, ?in primo luogo non gli era stato possibile non desiderare
la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo
luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale
ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destin" [...] Caffi
insomma partecipò dell'illusione secondo cui il progresso della
democrazia socialista passava attraverso la distruzione degli Imperi centrali.
C'era in lui come in tanti altri, l'idea che gli "Stati borghesi avrebbero
attuato poi, a guerra vittoriosa finita quelle riforme che erano così
dure da conquistare attraverso i movimenti popolari" e la speranza che
le nazionalità oppresse avrebbero potuto acquistare la loro indipendenza
solo con la sconfitta degli imperi austro-ungarico e germanico. Ma la ragione
probabilmente più profonda del suo interventismo fu il sentimento
che a catastrofe avvenuta non si potesse starsene in disparte, quando tanti
amici morivano nei campi di battaglia". G. BIANCO, Un socialista "irregolare",
cit., pp. 2 1-22.
23. Secondo Gino Bianco "negli anni trenta Caffi non aveva rinunciato
a considerare utili o possibili i mezzi della violenza organizzata ('finché
le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre sono l'unico mezzo per portare
rimedio - o solo un giusto compenso ' - alle molto più turpi, prolungate,
silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l?ineguaglianza
sociale')". È solo dopo l'esperienza della seconda guerra mondiale,
"del mondo concentrazionario" degli armamenti nucleari e dell'era della
'violenza totale'", che Caffi "oppone un rifiuto radicale anche alla violenza
rivoluzionaria, sia nella forma dell'insurrezione armata e della guerra
internazionale che del 'regime di dittatura e terrore per consolidare l'ordine
nuovo'", ivi, p. 97.
In effetti, è lecito pensare che l'esperienza della seconda
guerra mondiale abbia solo accentuato un rifiuto della violenza che in
Caffi era già presente, anche se fino a quel momento non si era
espresso con altrettanta radicalità. È questo un tema che
meriterebbe un approfondimento, ma ogni ricerca in proposito si scontra
con la scarsità della documentazione fino a questo momento disponibile.
Mi sembra comunque significativa la testimonianza di Antonio Banfi, che
di Caffi fu intimo amico a partire dagli anni giovanili degli studi universitari
condotti da entrambi in Germania: "Qualche mese dopo nell'atrio dell'Università
berlinese; il vento di marzo premeva alle vetrate. Guardavamo il quadro
delle lezioni, io e Confucio Cotti [...] E ci si fece vicino l'altro con
la sua chioma fulva e l'occhio ardente di sole, Andrea Caffi, cavaliere
errante delle guerre e delle rivoluzioni. Veniva dalle prigioni russe donde
l'aveva tratto un discorso di Filippo Turati alla Camera e ne rideva come
rideva più tardi al cannoneggiomento delle Argonne, allo fucileria
del Sabotino, ch'egli aveva affrontato col fucile a tracolla disposto a
morire non ad uccidere". A. BANFI, Tre maestri, in L'Illustrazione
italiana, 3 novembre 1946. p. 284. Il corsivo è mio.
24. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 92.
25. "A Tolosa partecipa all'attività dei gruppi della
resistenza e tuttavia confessa di non riuscire a condividere le loro speranze
di 'rigenerazione', giacché la sua è anche una crisi di credenze,
aggravata dal sentimento di 'non essere partecipe di qualche cosa di definitivo.
Tutto quello che sta accadendo adesso - aggiunge - non si può paragonare
a niente di quello che pensavamo noi, non si può inserire nelle
concezioni intellettuali e morali della nostra generazione. L'unica cosa
solida è il mondo dell'amicizia, un'amicizia attiva come quella
che anche a me ha dato la salvezza". Arrestato dalla milizia di Darmand
verso la fine del 1944, conobbe gli orrori della tortura e degli interrogatori
brutali. Riuscì tuttavia a salvarsi per la 'testimonianza', a lui
favorevole, fornita da un giovane collaborazionista corso che aveva conosciuto
tra i clochards e gli 'irregolari' di Tolosa". O. BIANCO. Un socialista
"irregolare", cit.. p. 85. Le notizie fornite da Bianco, per quanto importanti,
non consentono di chiarire tutti i dubbi. Sarebbe interessante sapere se
Caffi a Tolosa ha preso parte a episodi di lotta armata, oppure se il suo
impegno si è manifestato esclusivamente nelle forme della resistenza
nonviolenta.
26. A. CAFFI, È la guerra rivoluzionaria una contraddizione
in termini?, in Id., Scritti politici, cit., p. 319. La critica della violenza
di Caffi, tutta interna al pensiero socialista, presenta notevole lucidità
e coerenza. Caffi, che tra l'altro negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale collaborò dalla Francia ad alcune iniziative di Aldo Capitini,
ha esercitato un'influenza diretta e significativa su esponenti di rilievo
del movimento nonviolento. Tra i primi a richiamare l'attenzione sull'importanza
del pensiero nonviolento di Caffi è stato Lamberto Borghi, che nel
suo volume Educazione e autorità nell'italia moderna, Firenze, La
Nuova Italia, 1951, ne ha tracciato un'efficace sintesi. In epoca a noi
più vicina si è richiamato esplicitamente a Caffi anche Giuliano
Pontara, nel suo saggio Violenza e terrorismo. il problema della definizione
e della giustificazione. in "Dimensioni del terrorismo politico", a cura
di L. Bonanate, Milano, Franco Angeli, 1979, p. 65.
27. G. BIANCO, introduzione, in A. CAFFI, Socialismo libertario.
Milano, Azione Comune, 1964, pp. 11-12. La citazione di Morandi prosegue
peraltro con un richiamo a Marx che sembra riportare su un piano di maggiore
ortodossia la "scandalosa" affermazione precedente del leader socialista:
"È tutta la critica marxista dello stato e della burocrazia, che
è da riprendere e portare a nuovi sviluppi". R. MORANDI, Ricostruzione
socialista, il socialismo integrale di Otto Bauer, ora in ID., La democrazia
del socialismo 1923-1937, Torino, Einaudi, 1961, p. 184.
28. Scritto sotto forma di Tesi per il dibattito interno fra
i militanti socialisti italiani dell?emigrazione antifascista, in un momento
in cui i socialisti dispersi in vari paesi cercavano di definire il loro
atteggiamento di fronte alla guerra, specie dopo l?ingresso dell'URSS fra
i belligeranti. Il documento di Caffi si contrappone alla Tesi di Nenni
e Saragat (totalmente favorevole alla politica degli Alleati) e a quella
di Modigliani (che si richiamava al tradizionale pacifismo "zimmerwaldiano").
tn opposizione alla politica "frontista" di Nenni e Saragat, orientati
in quel momento verso l'alleanza strategica coi comunisti, ma critica anche
rispetto al pacifismo intransigente di Modigliani, che per quanto moralmente
nobile rischiava di essere sterile sul piano politico, la Tesi di Caffi
(scritta in collaborazione con Giuseppe Faravelli, Enrico Bertoluzzi e
Emilio Zannerini della Federazione Socialista del Sud-Ovest della Francia),
proponeva un'adesione condizionata alla lotta contro le potenze fasciste,
cercando di salvaguardare l'autonomia del movimento socialista per il presente
e soprattutto per il futuro. Cfr. A. LANDUYT, Un tentativo di rinnovamento
del socialismo italiano: Silone e il Centro estero di Zurigo, in L'emigrazione
socialista nella lotta contro il fascismo (1926-1939), Firenze, Sansoni,
1982. Sull?importanza delle cosiddette "Tesi di Tolosa" ha richiamato di
recente l'attenzione Stefano Merli, che nel suo volume i socialisti, la
guerra, la nuova Europa. Dalla Spagna alla Resistenza 1936-1942, ha riprodotto
integralmente i documenti originali, corredati dai materiali preparatori
e da una scelta significativa del successivo dibattito. Secondo Merli,
la tesi "I socialisti, la guerra e la pace", a lungo attribuita al solo
Caffi, sarebbe stata in realtà scritta da Faravelli in collaborazione
con Bertoluzzi e Zannerini, lasciando poi a Caffi - che aveva partecipato
alla discussione collettiva - la redazione finale. Si veda anche, in merito,
A. PANACCIONE, I socialisti italiani e la seconda guerra mondiale, in Giano,
n. 19, gennaio-aprile 1995.
29. Cfr. A. CAFFI, i socialisti, la guerra, la pace, in ID.,
Scritti politici, cit., .specialmente pp. 303-304.
30. Cfr. in proposito O. GURVITCH, L'idée de droit social,
Paris, Librairie du Récueil Sirey, 1932. Sull'influenza di Gurvitch
su Caffi, ma anche su Rosselli e altri esponenti di Giustizia e Libertà,
si veda C. MALANDRINO, Socialismo e Libertà. Autonomie, Federalismo,
Europa da Rosselli a Silone, Milano, Franco Angeli, 1990.
31. G. BIANCO, Un socialista "irregolare":Andrea Caffi intellettuale
e politico d?avanguardia, cit., p. 67. Di Silvia Trentin si veda, in particolare,
la raccolta di scritti Federalismo e libertà. Scritti teorici 1
935-1943, Venezia, Marsilio, 1987.
32. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 101.
33. A. CAFFI, Semplici riflessioni sulla situazione europea,
in ID.. Scritti politici, cit., pp. 193-194. Il corsivo è mio. Interessante,
nello stesso saggio, anche il richiamo alla necessità di una "politica
estera" autonoma da parte del movimento operaio e socialista: "Credo che,
oltre la politica interna rivoluzionaria, vi sia un'azione internazionale
da svolgere, metodica e non fatta di pura propaganda" (ivi, p. 195).
34. G. BIANCO, Presentazione, in A. CAFFI, Scritti politici,
cit., pp. XI-X1l.
35. A. CAFFI, Opinioni sulla rivoluzione russa, cit., p. 101.
36. A. CAFFI, Il socialismo cia crisi mondiale, cit., p. 381.
37. Ivi, pp. 388-389.
38. lvi, p. 389.
39, ibidem.
40. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 101.
41. A. CAFFI, Il socialismo e la crisi mondiale, cit., p. 373.
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o |
(Andrea
Caffi)
Gianpiero
Landi è curatore dell'interessante volume "Andrea Caffi, un socialista
libertario",
edito
dalla Biblioteca
Franco
Serantini (Pisa,
1996, pp. 204, lire 25 mila) che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi
a Bologna nel 1996
nel
quadro delle iniziative per riapre la riflessione sul pensiero di Caffi,
figura straordinaria di intellettuale, amico di Nicola Chiaromonte e di
Albert Camus, spesso avvicinato ad Hannah Arendt o (sia pure da laico)
a Simone Weil. Un socialista libertario, un "irregolare", come intitola
il suo volume dedicato a Caffi Gino Bianco. Un socialista tenuto ai margini
dalla stessa sinistra italiana la quale, al contrario, anche oggi avrebbe
di che studiare nel pensiero di Caffi, se davvero ci fosse la volontà
di individuare nuove strade di giustizia e libertà alternative alle
scoppiazzuture politicamente corrette del modello neoliberista. Andrea
Caffi, che Maurice Nadeau ha definito “il Walter Benjamin italiano", può
essere, obggi, una felice scoperta proprio per chi si interroga su quali
strade poter percorrere fuori dall'omologazione globale.
Ringraziamo
Landi di averci passato questo intervento tratto dagli atti
del
convegno bolognese dei quali consigliamo una lettura integrale.
(31
marzo 2000)
Goffredo
Fofi:
Caffi
e il ruolo
delle
minoranze |