di
GOFFREDO FOFI
Diceva
Gobetti (è il motto dei suoi ex-libris): “Che ho a che fare io con
gli schiavi?”; citava Platone e intendeva ovviamente la schiavitù
morale non quella materiale.
Diceva Chiaromonte: “Quelli che hanno orrore della servitù non è
che siano tutti degli spregiatori del volgo”.
Diceva Camus, ad affermare una comunità nel cui nome e nella cui
difesa il singolo si ribella, un senso di appartenenza pur nella ribellione
di uno: “Mi rivolto, dunque siamo”.
Diceva la Weil: “Nulla al mondo può impedire all’uomo di sentirsi
nato per la libertà”.
Diceva Caffi: “La società è l’insieme di quei rapporti umani
che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso
che hanno almeno l’apparenza della libertà”; parlava inoltre di
“sovranità della ragione e di una socievolezza così affinata,
intuitiva nella discrimi-nazione di distanze, vigile e tollerante da procurare
alle persone assieme al calore di solidarietà immediata un massimo
senso di indipendenza”.
Altri nomi, altre citazioni potremmo proporre: Anders e Orwell, Bòll
e Capitini, Silone e EIsa Morante e altri ancora.
Sono nostri autori quelli citati. Essi ci hanno assistito e guidato lungo
anni pesantemente conformistì, a non perdere la bussola. Ci hanno
aiutato a trovare chiavi di interpretazione attiva del mondo contemporaneo
fuori dagli schemi delle chiese e delle teorie d’appoggio ai sistemi di
potere dominanti - negli anni tra la prima guerra mondiale e la fine della
guerra fredda, ma con lo sguardo oltre, di chi sa vedere nel presente i
segni di un futuro oscuro nei suoi modi ma chiaro nelle sue leggi. Ci hanno
offerto una visione, se così si può dire, insieme “protestante”
e “libertaria” delle nostre possibilità di intervento. Ci hanno
liberato dai falsi problemi, dalle mitologie dei conformi, ci hanno mostrato
cosa si nasconde dietro il progresso, dietro il comunismo, dietro le comunità
nazionalistiche, dietro una società manipolabile e manipolata, non
più alternativa o succube o altra rispetto al mondo della politica,
ma sua complice. Ci hanno altresì indicato tutti i rischi delle
convinzioni minoritarie dentro alvei maggioritari: dalla eccessiva fiducia
nella centralità operaia, per esempio, o nell’autonomia del politico,
o nel ribellismo estremistico, o nella testimonianza troppo disarmata di
alcune correnti religiose.
Grande
estimatore di Simone Weil
Grande estimatore della Weil (e mi piace pensarlo, nei suoi anni Trenta
e Quaranta parigini, essendo grande amico dello scrittore brasiliano Paulo
Emilio Sales Gomez, autore della bella biografia del regista anarchico
di Zero in condotta e L’Atlante, Jean Vigo, anche grande estimatore di
quest’ultimo, poeta e non teorico, ma poeta pieno di teoria, cosi come
è piena di poesia la teoria della WeiI) Caffi ha scritto pagine
magistrali sulla violenza. Il suo saggio Critica della violenza è
in assoluto tra i più radicali e convincenti sull’argomento assieme
a quelli di Bonhoeffer, Hannah Arendt. Guenther Anders, Bobbio (raccolti,
con quello di Caffi e con molti dei sostenitori della necessità
della violenza e dei soste-nitori più convinti della nonviolenza,
da Gandhi a Tolstoj a Capitini. in un volume di “Linea d’ombra”, Violenza
o non violenza, 1992). Qui l’influenza della Weil delle riflessioni sull’iliade
è evidente; ma piuttosto che su questo caposaldo del pensiero di
Caffi voglio insistere su un altro punto per lui centrale, quello della
minoranza (delle masse e delle maggioranze; e dell’alternativa possibile
alla loro alienante pressione), oggi assolutamente centrale, per noi, qui.
“Protestante” perché? Perché rigorosa nelle morali e nella
richiesta di concordanza tra idee e pratiche. “Libertaria” perché?
Perché l’individuo ne è al centro, con il suo piccolo cerchio
di comunità embrionale e solidale, e non rinvia niente a domani,
chiede oggi la sua liberazione, bensì commisurata all’“obbligo”,
al dovere di una solidarietà aperta, non esclu-dente, e dialogante.
Conquistare
la maggioranza alle condizioni della maggioranza?
La differenza centrale, più volte affermata da Caffi, è tra
chi cerca la conquista della maggioranza alle condizioni che la maggioranza
di fatto pone (su questo, per esempio, l’immane fallimento recente di tutta
la sto-ria della sinistra, a chiusura di un ciclo d’egemonia comunista
iniziato nel ‘20 e finito nel marzo del ‘94), e chi opera nella minoranza
convinto della assoluta dignità che questo comporta. Tenendo ben
presente che non tutte le minoranze, per il fatto di essere tali, meritano
uguale interes-se (ci sono infatti anche quelle che nulla sono se non la
dimostrazione di una esplosione narcisistica del sociale, lusso del superfluo,
fuga dalla noia, ossessione di presunta centralità esibizionistica).
La minoranza non ha per natura l’obbligo di diventar maggioranza, di conquistare
i più. Deve avere l’orgoglio di sé, nella convinzione del
ben operare che può isolarla dai più, che i più possono
non condividere e in genere non condividono.
Il
feticcio del sociale è, almeno dagli anni Trenta dei francofortesi.
di Benjamin, della Weil, di Caffi, appunto un feticcio. La maggioranza
è di per sé conformista, si potrebbe aggiungere oggi, lo
è sempre, e la mino-ranza ha il dovere di non esserle (di non essere)
conforme.
Sprigionare
pagliuzze di umanità
Dice Caffi che si tratta semmai di “sprigionare pagliuzze di umanità
dalle scorie delle ‘masse”’, di “districare gli elementi di ‘popolo’ dall’ambiente
di ‘massa’ che li meccanizza e li disumanizza”, e dice ancora che la povertà
delle proposte politiche che un tempo si chiamavano “terzaforziste” (in
quanto altro da quelle “comunista” e “borghese” o, per dirla con Capitini,
da quelle dell’ “assoluto dello stato” e dell’ “assoluto del benessere”)
sta proprio nella loro supinità di fronte alle logiche di massa,
al loro desiderio di farsi maggioranza.
I
servi matriali (e morali) del benessere burocratico
Il “popolo” che Caffi contrappone alla massa, è ancora un pezzo
del più generico popolo dei suoi anni - quello povero, subalterno,
proletario e contadino, umile, spesso analfabeta, che aspetta giustizia
e che può anche aderire alle proposte di massa e farsi massa (per
esempio. nel fascino degli anni del consenso), ma che non per questo è
colpevole.
Memore
dei maestri del suo Ottocento russo e populista, memore di Herzen e dei
grandi romanzieri, Caffi sa che si può essere “populisti”. che in
questo c’è dignità e valore - poiché si tratta, per
le minoranze, di operare per la coscienza e la liberazione di servi materiali
che possono non essere affatto servi morali. Ma negli anni Trenta europei
e americani, allargando lo sguardo, la forza della burocrazia gli è
presente in tutta la sua mastodontica forza, e gli è presente che
nuovi ceti si formano, di servi morali che hanno conquistato (cui i regimi
danno, cui il progresso dà) sopravvivenza e benessere.
Negli
anni Ottanta e Novanta dell’Italia, per esempio. si può essere “populisti”
altrimenti che di destra - secondo le non contrapposte visioni
di Bossi o Berlusconi e di Occhetto, e i loro richiami alla “gente”, entità
collettiva di piccoli benestanti e di complici. arroccatissimi nella difesa
ciascuno dei suoi privilegi, secondo una gamma che in Italia appare senza
limiti?
"Via
dal maneggio delle masse..."
Via
dal “maneggio” delle masse, predica Caffi. In un’ambizione di socialismo,
la parola massa va abolita, la massa è la negazione del socialismo,
che può solo fondarsi su principi federativi (non di sottopoteri.
di corporazioni, di dialetti e interessi come vorrebbero Leghe recenti
in difesa dei vantaggi acquisiti), e nel rispetto e nella valorizzazione,
in un quadro di vitale e produttivo “disordine”, del piccolo gruppo, della
minoranza che è attiva nella proposta e nel cambiamento, contro
una tradizione egoistica e di eterodirezione delle menti, di manipolazione
dei modelli di vita a fini, diremmo oggi, di consumo e di consenso, a fini
di gestione del potere da parte di una oligarchia che sa compiacere e controllare
la maggioranza, i suoi bisogni, i suoi desideri.
La
vecchia lotta per la giustizia sociale resta al centro
Ci si distingue dalla massa per i nostri valori e per i nostri costumi,
sostiene Caffi, e ipotizza quelle “minoranze irrequiete di uomini semplici”
di cui parla Chiaromonte, riferendosi esplicitamente al pensiero di Caffi
ma anche al “modello” Caffi.
Queste
minoranze non possono aver dignità e saldezza che dal riconoscersi
in un sistema di princìpi che contempla al suo centro “la vecchia
lotta per la giustizia sociale”. Sono minoranze aperte e non chiuse, insoddisfatte
e non compiaciute, critiche e autocritiche, non esaltate e settarie. I
loro membri, avrebbe aggiunto Capitini, ma lo dice con altre parole anche
Caffi, sono dei “persuasi” - stante la distinzione mìchelstaedteriana
tra “retori” e “persuasi”, in cui i “persuasi” sono autodiretti, convinti
weilianamente dei loro “obblighi” nei confronti di chi soffre l’ingiustizia
sociale e del mondo.
Qui
e ora, tutto questo. Senza scuse e senza rinvii. Senza aristocraticismi
risibili e senza subire alcun ricatto di massa.
Se
i rivoluzionari diventano i nuovi padroni....
Tutto questo è presente in Caffi in modo estremamente diretto e
pregnante. C’è anche negli altri pensatori che amiamo, ugualmente
travolti e sradicati dalla violenza della storia, ma in lui in modo forse
più diretto e più pregnante per aver egli seguito da dentro
la storia della rivoluzione russa e dell’insediamento del potere sovietico
- il proporsi e crescere ed esplodere e disfarsi nel disastro della minoranza
golpista al potere, un potere da gestire con ogni mezzo, per fini inizialmente
considerati “superiori” quali il progresso (“l’elettrificazione”) e il
comunismo (la dittatura del proletariato), affidati a uno sparuto gruppo
di intellettuali e burocrati che si sarebbero dimostrati capaci di tutto.
Caffi ha visto in azione la lotta per il potere e verificato i suoi costi,
ha visto come coloro che erano rivoluzionari sotto il regime zarista, sono
diventati nuovi padroni, una volta conquistato il potere. Ritiene di conseguenza
che nella lotta contro l’ingiustizia occorra partire da altrove, tenere
strettamente congiunti fini e mezzi, e che non si tratta affatto di conquistare
il potere ma di condizionarlo, di minarlo, di svuotarlo: di accerchiarlo,
a partire da gruppi che si diffondono, che innervano dei loro principi
e dei loro modelli una società manipolata e consenziente. In questo
(e qui forse sovrapponiamo i nostri bisogni e le nostre idee a bisogni
e idee di Caffi, ma consideriamo tutto questo la logica conseguenza del
suo pensiero) sta l’attualità del pensiero di Caffi, nemico di ogni
meschinità, profeta autoironico e persuaso della minoranza dentro
un’epoca irresistibilmente “maggioritaria”...
|
o |
Andrea
Caffi (Pietroburgo 1887, Parigi 1955) è uno dei più significativi
pensatori del Novecento, a dispetto della scarsa attenzione che le agenzie
politiche e culturali dominanti (partiti, università eccetera) gli
hanno dedicato. Figlio di italiani (provenienti, pare da Belluno e/o da
Cremona) Caffi si può considerare un socialista libertario e il
recupero del suo pensiero risulta tanto più utile in quest'epoca
di smarrimento ideologico e di omologazione come spiega bene Gianpiero
Landi nel brano che riportiamo qui di seguito, tratto dalla presentazione
del volume "Andrea Caffi, un socialista libertario", edito dalla Biblioteca
Franco Serantini di Pisa, curato dallo steso Landi, e contenente gli
atti di un convegnotenutosi a Bologna nel 1993. Per fortuna c'è
chi si occupa del recupero di Caffi.
Scrive
Landi: "Socialismo libertario, ha intitolato opportunamente Gino Bianco
una breve raccolta di scritti di Caffi da lui curata e pubblicata da Azione
Comune nel 1964. E libertario può essere definito senz’altro il
socialismo di Caffi, deciso avversario del totalitarismo comunista ma estraneo
anche al “mito burocratico” della socialdemocrazia, e critico rispetto
alla pretesa di quest’ultima di risolvere la questione sociale mediante
l’espansione del ruolo dello Stato nell’ambito dell’economia e della società.
Diversa
è la soluzione antistatalista prospettata da Caffi, secondo il quale
ci si deve muovere nella direzione della applicazione integrale del principio
federativo alla struttura e alla macchina amministrativa dello Stato, e
del completo superamento dell’idea di sovranità dello Stato-nazione.
Lo Stato nazione, secondo Caffi, deve essere esautorato della sua sovranità
a beneficio, da un lato, di organismi sovranazionali (a cominciare da una
Federazione Europea in grado di mantenere la pace), e dall’altro da una
serie di enti autonomi e associazioni di ogni genere (politiche, economiche,
sindacali, cooperative, mutualistiche, culturali ecc.). che vanno rafforzati
e ai quali devono essere deferite e trasferite molte funzioni di utilità
sociale. Allo Stato va tolto radicalmente il monopolio del diritto. Per
Caffi, che si richiama per questo aspetto a Georges Gurvitch, dal “diritto
statale” occorre passare al “diritto sociale”: ciascuno degli enti e delle
associazioni in cui si articola la società deve produrre da sé
il diritto per autoreggersi.
Queste
concezioni, ma anche numerosi altri aspetti contenuti nei suoi scritti,
giustificano e rendono opportuna oggi una rinnovata attenzione e una analisi
più approfondita del pensiero di Caffi da parte di tutti i libertari,
poco importa se provenienti dalle file del movimento anarchico o dalla
militanza nel partito socialista, o magari da altre formazioni della sinistra
vecchia e nuova.
In
questi ultimi anni molte certezze sono crollate, barriere ideologiche consolidate
dal tempo si sono rivelate anacronìstiche e ormai prive di senso.
Si è generalizzata, fino a diventare luogo comune, la convinzione
che è necessario ripensare alla radice le ragioni di un impegno
politico di sinistra. Per quanto ci riguarda, siamo convinti che si debba
recuperare anzitutto il contenuto essenziale del socialismo, la sua tensione
etica in direzione di una “società giusta”, depurandolo di tutte
le incrostazioni che si sono formate nel corso di un secolo e mezzo di
Storia.
Vengono
in mente le parole dello stesso Caffi, contenute in uno dei suoi ultimi
scritti (1952), in cui si trova forse la spiegazione della sua fedeltà
agli ideali del socialismo, mai venuta meno fino alla morte, nonostante
i tanti errori, le sconfitte, le disillusioni:
"La
tradizione socialista è, con tutte le sue deficienze e i suoi tragici
fallimenti, la sola in cui permanga appunto questo: la preoccupazione per
la
società umana nel suo insieme, al di sopra dei pregiudizi statali
e nazionali come degli interessi
di
classe e di parte". |