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Fra il Piave e il Vajont, l'acqua contesa
1917-2000 : lo sfruttamento a fini idroelettrici e irrigui dell'acqua del Piave
 

di RENZO FRANZIN *

 
    E' dell'ottobre 1998 l'ultima prova generale d'alluvione. Niente di simile, beninteso, a quella che nel 1966 distrusse intere vallate, provocò morti, seminò distruzione nella pianura, strinse col mare e lo scirocco, Venezia in una  morsa d'acqua e, tuttavia, ancora una volta i residenti lungo il Piave e nelle vallate del suo bacino idrografico hanno potuto constatare la fragilità e la precarietà di un sistema idraulico che, pur ingessando e impoverendo il fiume ed i suoi maggiori affluenti, non ha risolto, anzi ha aggravato, le vecchie questioni che riguardano in modo particolare l'assetto idrogeologico del territorio montano e pedemontano, trascurando comunque anche l'adeguamento e la manutenzione di tutte le opere di sicurezza idraulica per la pianura.

   C'è un elenco interminabile di strade che, nell'autunno scorso, sono state interrotte da smottamenti (le statali Agordina e Feltrina, la bis del Grappa, quella di Vigo di Cadore e delle Dolomiti, per citare solo le più importanti), la massicciata del Lambioi a Belluno è stata pericolosamente erosa, sgomberi, allagamenti nella zona del basso feltrino, disagi, vecchie e nuove frane si sono rimesse in moto, con apprensione e paura per il ripetersi di situazioni eccezionali che come 33 anni fa avrebbero potuto rendere ingovernabile la situazione. 
   E mentre l'emergenza nel bellunese creava i problemi sommariamente ricordati, a valle, nella fascia di pianura compresa fra Adige e Tagliamento, in un territorio vastissimo con baricentro il sistema idraulico del Piave, saltava l'intera rete di scolo naturale e meccanico con la conseguenza di numerose esondazioni dei corsi d'acqua in vaste aree urbane e periurbane.
Se i danni in Veneto e Friuli, pur consistenti nella loro quantificazione economica, sono apparsi subito, dopo il momento critico raggiunto fra la notte di mercoledì 7 e giovedì 8 ottobre, non gravissimi ed irrecuperabili, una sensazione di rischio sostenuto ha accompagnato questo episodio stagionale che si ricollega a quelli altrettanto significativi del 1994 e del 1996 (1)
   Ma mai come stavolta si è potuta misurare da un lato la pericolosità del Piave trasformato in un fiume quasi completamente artificiale nel suo tratto montano e ciò nonostante affatto controllabile e, dall'altro,  l'inadeguatezza del sistema di microidraulica di mantenimento della bassa pianura delegato istituzionalmente ai Consorzi di Bonifica e definitivamente compromessa da decenni di manutenzione inadeguata e di saccheggio ininterrotto del territorio.
Tutto questo in presenza di una portata di piena che è stata considerata dagli esperti "media": a Soverzene circa la metà dei 2500-3000 mc/s che sono arrivati all'imbuto di Zenson di Piave nel 1966, provocando  12 rotte sul sistema arginale e l'allagamento di circa 450 Kmq di pianura.

1917-1963: la colonizzazione della montagna

   Questa situazione di dissesto e di rischio permanente è, come in altri casi nel bellunese (e nella montagna in generale) segnati da spaventose  tragedie, il risultato non di una casualità naturale, né la logica conseguenza del rischio congenito alla conformazione del territorio che pure in qualche misura esiste o, peggio, come si è sostenuto in altre occasioni, di eventi eccezionali tutti dettati dalle bizze della natura e da una serie di coincidenze atmosferiche particolarmente devastanti(2).
I rischi d'instabilità negli assetti geomorfologici e di sicurezza idraulica a cui sono soggetti ampi territori rivieraschi e parte della pianura orientale (3), non sono solo l'inevitabile conseguenza dell'andamento naturale del fiume alpino o delle stagioni che restano in parte imprevedibili e quindi rischiose, ma in misura decisiva essi sono causati dalla serie ininterrotta  di interventi, manomissioni e sfruttamenti di risorse, l'acqua e il suolo, ritenute infinite e ora fortemente compromesse dagli abusi e dalla speculazione che hanno caratterizzato questo secolo e, in modo particolare, le aree di "colonizzazione" per il recupero di risorse secondarie (soprattutto energia elettrica) da destinarsi allo sviluppo della pianura, anzi di un'area ben delimitata della pianura, il centro industriale di Porto Marghera (4)

   Com'è noto, è la SADE (Società Adriatica dell'Energia) l'impresa privata che, attraverso una fitta rete di consociate ed affiliate, contribuirà in maniera decisiva, fin dal 1917, alla ideazione, progettazione e realizzazione della zona industriale di Porto Marghera, assicurandosi, ovviamente, lo sfruttamento progressivo dell'acqua nei bacini delle Alpi Orientali, in particolare di quello del Piave. 
Di conseguenza, gli stessi gruppi economici (e persino le stesse persone fisiche)  che controllano la SADE, determinano, a cavallo degli anni fra le due guerre,  anche la direzione dello sviluppo industriale di Porto Marghera, rafforzando in modo sempre più deciso i comparti produttivi ad altissimo consumo energetico - chimica e metallurgia - e derivandone perciò la necessità di  altrettanto celeri e diffusi investimenti "a monte", negli impianti di produzione d'energia idroelettrica.
Dal 1927 al 1961, in Veneto viene prodotta una quantità di forza motrice venti volte superiore a quella del periodo precedente. 
Cresce Porto Marghera e dal 1935 al 1940 l'occupazione passerà dai 6.000 ai 12.000 addetti nei settori della chimica, dell'elettrometallurgia e metallurgia che rappresentano l'83% delle attività dell'area industriale. E cresce anche la SADE  che già nel 1933, con l'incorporazione delle Società Forze Idrauliche Alto Cadore su Piave ed Ansiei, possiede un sistema di produzione  idroelettrica di potenza pari a 320.000 kW nelle Centrali  di Piave-S.Croce, Piave-Ansiei, Cellina e Brasimone (5)
 Fino a tutti gli anni cinquanta, La curva della crescita della SADE si accompagnerà fatalmente a quella di Porto Marghera, conseguendo obiettivi occupazionali che, contrariamente ai luoghi comuni esistenti in materia, evidenziano in  maniera netta come, nonostante la mole massiccia di interventi e investimenti lungo il bacino del Piave e nelle aree industriali, il rapporto fra questi ultimi e l'occupazione resta modesto e del tutto distaccato da quello, ad esempio, del vicentino, vero motore dello sviluppo di tutta la regione (6)
Da sempre,  le acque del Piave sono utilizzate anche a scopi irrigui e, in questi ultimi trent'anni in quantità sempre più massiccia. Esse vengono fatte defluire verso i consorzi di bonifica della pianura trevigiana, veneziana e friulana attraverso una serie di prese e di deviazioni che costituiscono un sistema complesso di gestione delle acque solo in parte dipendente da quelli tradizionali di produzione elettrica e contribuiscono in maniera determinante alla diminuzione di portata media del fiume, in tutte le stagioni. 
Già nel 1952, la stessa SADE, in un suo studio, Il Piave e la sua utilizzazione, suggeriva che parte dell'acqua concessa ai consorzi di bonifica potesse essere sfruttata ai fini di produzione elettrica per far funzionare prevalentemente gli impianti idrovori (ma anche taluni tipi di impianti e attrezzi agricoli) delle aree soggette a scolo meccanico, creando, di fatto, un sistema di sub-concessioni, in parte ancora attivo, su cui oggi non vi sono dati (o almeno, non sono resi pubblici) che certifichino quantità e modalità d'uso dell'energia elettrica prodotta. 
Nel 1933, l'impiego di energia elettrica ai fini di prosciugamento riguardava quasi 3.600 kmq di pianura, oggi, vista la diversa conformazione della rete di distribuzione elettrica e le caratteristiche dei manufatti per il governo idraulico del territorio, questo sistema di sub-concessioni non appare più giustificato.
Infine,  i prelievi in falda e nell'areale dell'alta pianura in fascia di risorgive, per uso civile ed industriale, sottraggono consistenza alle ricariche naturali del fiume e, di conseguenza, ai suoi rilasci naturali più a valle.
Fra Brenta e Piave, i grandi acquedotti pubblici pompano dal sottosuolo circa 3.000 L/s (1.800 solo l'ASPIV di Venezia) d'acqua, i pozzi privati regolarmente censiti solo nella provincia di Treviso sono più di 6.000 e nel solo Comune di Scorzè (in provincia di Venezia) i pozzi privati sono, al 1993, circa 876 ed in quella zona l'industria di acque minerali preleva circa 400 L/s di acque "pregiate".
Eccetto quella per acque minerali, non è dato sapere con certezza la quantità d'acqua pompata e dispersa dopo gli usi industriali.
Sono dati incompleti per difetto, che però tratteggiano una situazione di anarchia negli usi e di spreco reale dell'acqua non più sostenibile rispetto alla situazione reale di disponibilità di questo bene prezioso. 

1963: Vajont, una tragedia inutile

  A proposito dello sfruttamento dell'acqua, Ulf Todter, consulente tedesco in progetti sostenibili, ha scritto: "Nel territorio alpino non esistono più torrenti integri o non regimati, e i vari interventi di sistemazioni degli alvei accompagnati dalla captazione dell'acqua fluviale per le centrali idroelettriche hanno modificato profondamente la dinamica delle esondazioni torrentizie"(7), quanto a dire che condizionando l'andamento naturale di un fiume se ne aumenta in modo esponenziale la sua pericolosità.
Ancora: "Oggi il 79% dei corsi d'acqua nelle Alpi ha un equilibrio naturale compromesso dalla presenza di centrali idroelettriche e l'82% presenta una qualità d'acqua carente o pessima" (8).
Il Piave non fa eccezione, al contrario presenta lungo il proprio corso una rassegna completa e massiccia di tutte le forme di sfruttamento dell'acqua ideate e realizzate in nome del progresso. 
Il 9 ottobre 1963 la tragedia del Vajont cancellò tre paesi, provocò duemila morti e privò d'un sol colpo il sistema di sfruttamento delle acque del  Piave a fini energetici ed irrigui, di una riserva di 150 milioni di mc d'acqua.  Un dato che, al di là delle stesse ragioni che determinarono la catastrofe,  avrebbe dovuto da solo far rivedere al subentrante ENEL (il nuovo ente per l'energia elettrica perfezionava in quei mesi l'acquisto della società privata SADE) i programmi di produzione di energia elettrica previsti per gli anni successivi e, allo stesso tempo, costringere il Governo ad  avviare la revisione quantitativa dei disciplinari per le concessioni ai Consorzi di Bonifica della pianura. 
Non successe nulla di tutto questo, anzi l'ENEL mantenne gli obiettivi prefissati di produzione energetica e li adeguò all'onda crescente di sviluppo delle aree industriali e civili di pianura fino ai giorni nostri con uno sfruttamento esponenziale dell'acqua del Piave e i  consorzi di bonifica aumentarono le adduzioni del 20%, in rapporto alla quantità usata nel 1963.
E' da qui che inizia una nuova, trentennale tragedia poco conosciuta, ma che ha già avuto le sue vittime (alluvione del 1966), i suoi danni ingenti al territorio e al patrimonio materiale dell'intera regione (le piene incontrollate degli anni successivi), sino all'incombere di un rischio idraulico diffuso per parti consistenti delle province di Venezia e Treviso come evidenziano i recenti studi (1996) prodotti in allegato ai Piani Territoriali Provinciali di Belluno, Treviso e Venezia. 

Il Piave: un caso esemplare di sfruttamento dell'acqua

   L'intero bacino idrografico del Piave completo dei suoi affluenti maggiori (12 corsi d'acqua ragguardevoli  sotto il profilo idraulico che vanno dal torrente Padola al fiume Negrisia) è l'ossatura intorno a cui è strutturata, per larga parte l'intera Provincia di Belluno. 
Per 127 dei suoi 220 Km di lunghezza il sistema Piave scolpisce  le nostre montagne e scava le nostre valli,  costituendo di fatto uno dei perni formidabili di tutto l'equilibrio naturale delle Prealpi e delle Alpi dolomitiche e raccogliendo una quantità enorme d'acqua, un deflusso annuo calcolato in circa 3.500/3.800  milioni di mc.
 Tuttavia, l'integrità di questo straordinario bacino idrografico è seriamente compromessa da una serie di interventi artificiali e di captazione che impoveriscono il fiume in modo drammatico per la quasi totalità dell'anno e in alcuni altri periodi, in modo altrettanto drammatico, ne fanno un mostro incontrollabile e pericoloso.
Per poter mantenere gli obiettivi programmati all'indomani della costruzione della diga del Vajont e nonostante la sua effettiva indisponibilità nel sistema, l'ENEL ha completato in questi decenni, con impressionante metodicità, l'intera trasformazione artificiale del  bacino montano del fiume Piave per tutta la sua estensione (un'area di circa 3.750 Kmq), captando gran parte delle acque dei torrenti affluenti ad alta quota, riutilizzando attraverso sistemi di sfruttamento integrati, la stessa acqua che viene pompata, incanalata ed, alla fine, persino indirizzata verso bacini diversi da quelli d'origine. 
In particolare, L'ENEL  concessionario  per lo sfruttamento dell'acqua a fini  di produzione elettrica, utilizza il 75% della risorsa idrica superficiale teoricamente disponibile, circa 2.000 milioni di mc l'anno, a fronte di un valore medio complessivo che in altre aree significative del Paese non supera il 65% (9),  attraverso una vasta e capillare rete di sistemi e sottosistemi di prelievo, sfruttamento e riciclo dell'acqua.
La rete artificiale che ormai ha modificato profondamente ed irrimediabilmente il corso del fiume, conta di una cinquantina di "prese" ad alta quota che drenano l'acqua dei torrenti, di un gigantesco sistema di by-pass di oltre 200 km di tubature in gran parte sotterranee, di 17 invasi di media grandezza, di 30 impianti di produzione e di un'infinità di altri sbarramenti e arginature funzionali. 

   E' drammaticamente esemplare, il fatto che l'acqua del ghiacciaio della Marmolada,  che scende da altissima quota  verso gli affluenti del Piave, prosegua attraverso percorsi completamente artificiali sino a sfociare in un altro fiume di pianura, il Sile;  allo stesso modo, l'acqua del medio corso del fiume Piave viene deviata in forte quantità (circa 40 mc/s) verso il bacino del Livenza nel Friuli occidentale per essere utilizzata ancora a scopi idroelettrici.
Nel 1997, "la produzione nazionale di energia elettrica in Italia è stata di 251 miliardi di kWh. Di questi 187 miliardi di kWh sono stati prodotti dall'ENEL. Restando in ambito ENEL, la produzione idroelettrica è il 18% circa del totale (...) In particolare, la provincia di Belluno ha prodotto nello stesso anno il 5% della produzione idroelettrica" (10) corrispondente a circa 1,68 miliardi di kWh. 
La complessità e grandiosità del sistema di sfruttamento artificiale delle acque del Piave per la produzione di energia elettrica,  è derivata, come abbiamo visto innanzi, dalla coincidenza degli interessi dei grandi gruppi finanziari con quelli industriali che insieme hanno forgiato l'idea stessa di sviluppo che fino a tutti gli anni settanta ha contraddistinto le politiche economiche di questo Paese. 
Oggi, la coincidenza di comportamenti e di interessi che caratterizzò questa seconda fase dello sviluppo industriale nel triangolo forte del Nord e l'assenza di una politica attiva dello Stato nella mediazione fra questi interessi di monopolio e l'integrità delle risorse umane e materiali del Paese, è causa prima dei limiti estremi a cui è costretta la nostra programmazione del futuro.

Ancora: i consorzi di bonifica della pianura hanno continuato ad usare con grandi sprechi l'acqua del Piave, drasticamente prelevata dal corso naturale e deviata verso le prese, usando di antiquati  sistemi irrigui (in alcuni casi il metodo a spaglio già introdotto dalla Serenissima Repubblica di Venezia) senza provvedere ad ammodernare progressivamente la rete per evitare sprechi.
In un recente convegno dell'ANBI (Associazione Nazionale di Bonifica ed Irrigazione), tenutosi a Verona l'11.02.1998, il rappresentante dell'organizzazione ha evidenziato che i contributi diretti degli utenti dei consorzi (circa 130 miliardi l'anno) sommati ai finanziamenti ordinari dello Stato (finora 40 miliardi) sono assolutamente insufficienti  perché per il solo Veneto "servirebbero 10.000 miliardi  di cui 3.000 per le opere più urgenti"(11).
A fronte di queste richieste molto rilevanti non è dato conoscere, se non in rari casi,  né il grado di modernizzazione degli impianti di irrigazione, consorzio per consorzio, né quali sono i criteri ed i piani di manutenzione che si prevedono per la rete meccanica di scolo in parte obsoleta, né i progetti speciali per il disinquinamento e la ricostituzione ambientale, né come tutto questo possa essere attivato e realizzato alla luce del principio d'uso solidale del bene acqua, attraverso forme nuove di concertazione, né la proiezione realistica dei benefici produttivi che un investimento di tale portata dovrebbe indurre.
Chiarissimo invece appare il giudizio dei consorzi di bonifica, in particolare di quelli riuniti nel "Gruppo di lavoro permanente per le problematiche del Piave"  (Basso Piave, Destra Piave, Pedemontano Brentella, Pedemontano Sinistra Piave) in relazione al recente impegno del Governo di varare un "piano stralcio" per regolamentare finalmente le derivazioni ad uso irriguo dal fiume Piave con una riduzione preventivata di circa il 15% in termini di volume: "Tra le caratteristiche della classe politica italiana c'è la capacità di assumere provvedimenti anche condivisibili, non sulla scorta di un'attenta programmazione, ma in base a discutibili tensioni del momento" (12)
   "Le discutibili tensioni del momento" sono, ovviamente, quelle che le popolazioni del bellunese stanno manifestando per l'uso assolutamente incontrollato che si è fatto dell'acqua a favore delle economie, industriali ed agricole, della pianura.
Peraltro, la situazione ad oggi, non si è modificata di una virgola: il  Brentella, il Destra e il  Sinistra Piave, il Basso Piave e l'industriale Piavesella, a fini agricoli, industriali ed in parte civili,  prelevano dal fiume da un minimo di 50 mc/sec. nei periodi invernali  a 100 mc/sec. nei mesi estivi: un'utilizzazione superiore alle disponibilità se si considera che la portata media naturale nei mesi estivi è inferiore ai 60 mc./sec e che quindi per garantire l'acqua ad ENEL e Consorzi vengono messi in secca i torrenti ed i fiumi e svuotati i bacini artificiali. 
E' significativo che proprio qualche settimana fa,  a seguito di una serie di decisioni assunte dall'Ente Parco delle Dolomiti e annunciate dalla Provincia di Belluno, volte a tutelare la presenza dell'acqua in contesti vitali per la conservazione del patrimonio ambientale e la valorizzazione delle economie locali, in particolare il Consorzio di Bonifica Brentella,  al di la delle consuete dichiarazioni di disponibilità a concertare i nuovi criteri per l'uso dell'acqua del Piave,  abbia caricato di significati impropri l'operazione asciutte 1999 propagandandola, senza eccessive preoccupazioni, come una prova di forza nei confronti di chiunque intenda rimettere in discussione gli attuali standard nella  distribuzione e nell'uso dell'acqua del Piave. 
Dopo aver elencato la tabella delle progressive chiusure, nel periodo 21 febbraio- 15 marzo 1999,  delle derivazioni verso il sistema idraulico della pianura alto trevigiana (circa 50.000 ha sono rimasti privi di acqua di superficie) e dopo aver "dimostrato" con la chiusura dei rubinetti , la secca del Sile, dello Zero, del Dese, del Brentella e della Piavesella, il Consorzio  conclude, invitando di fatto, alla reazione contro le pretese dei bellunesi: " Agli agricoltori interessa l'acqua estiva, invece a tutti interessa l'acqua del territorio. L'invito ai cittadini ed agli Amministratori locali è pertanto di osservare cosa significano le asciutte e di fare la loro parte per mantenere l'acqua nel territorio" (13) 

Completano il quadro degli usi delle acque del Piave, i prelievi autorizzati (alcuni grandi acquedotti) e quelli abusivi (centinaia di aziende dell'alta pianura trevigiana e migliaia di fontanili privati) che sottraggono in zona di risorgive una quantità enorme -  difficilmente quantificabile - di acqua alla funzione di ricarica delle falde acquifere che alimentano molti corsi d'acqua della pianura che, di conseguenza, si sono drasticamente ridotti nelle portate.
Negli ultimi trent'anni, questo dissennato sfruttamento ha ridotto di circa 1/3 la portata del Piave nella sua parte finale e circa il 90% di quella dei torrenti d'alta montagna, "modificando profondamente la dinamica delle esondazioni torrentizie" (14) con conseguenze strutturali abnormi: il letto ghiaioso del fiume, largo in alcuni punti anche alcuni chilometri, modulato nei secoli dalle piene e dalle morbide, si è alzato mediamente di circa 3 mt (con punte di 7 mt a valle dello sbarramento di Busche) non avendo la corrente più la forza necessaria per portare detriti e sabbia a valle.
   Di conseguenza, gli arenili a nord della laguna di Venezia (Cavallino, Jesolo, Eraclea) sono stati mangiati dall'erosione marina causa il mancato ripascimento;  nelle piane ghiaiose del greto sono cresciuti interi boschi cedui che costituiscono ostacolo al defluire delle acque di piena e la qualità dell'acqua, quasi completamente scomparsa nell'alto e medio corso, è fortemente compromessa da scarichi biologici ed industriali. Falde e risorgive si sono inabissate e ridotte al punto da creare gravi problemi d'approvvigionamento idrico in  tutta l'area pedemontana. 

   Le conseguenze di  quanto un uso miope dell'acqua, abbia cambiato i contesti in cui viviamo è nell'elenco impressionante che, in più occasioni, le Province di Belluno, Treviso e Venezia, con numerosi comuni rivieraschi  organizzati nell'Associazione per la Rinascita del Fiume Piave con sede a Cimadolmo, hanno rappresentato alle autorità competenti: "ridotta alimentazione delle falde idriche deputate al soddisfacimento idropotabile; prosciugamento progressivo dei fiumi di risorgiva alimentati dalla dispersione delle acque plavensi; menomazione del trasporto solido con conseguente mancato ripascimento degli arenili; perdita di funzionalità idraulica dell'alveo; salinizzazione delle acque del tronco vallivo; stravolgimento biologico degli ecosistemi acquatici" (15) chiedendo "ai Ministri dei Lavori Pubblici, delle Finanze, per le Risorse Agricole e dell'Ambiente, alla regione Veneta nonché all'Autorità di Bacino, al Magistrato alle Acque, al Servizio Idrografico e Mareografico nazionale, di dare concreta attuazione, con l'adozione di idonei provvedimenti e progettualità, al ripristino del minimo deflusso vitale costante del fiume Piave" (16).

1995-1988: ridare acqua al Piave

   Di fronte a questa situazione e ai danni che ha provocato e continua a provocare lo sfruttamento intensivo del Piave, i bellunesi da anni manifestano un'opposizione che è andata gradualmente crescendo. 
"Il contenuto dei circa 50 disciplinari di concessione che regolano le grandi derivazioni d'acqua a scopo idroelettrico nella Provincia di Belluno e che sostanzialmente vengono ad incidere sull'intero sistema idrografico del bacino del fiume Piave, fa emergere un quadro estremamente arretrato e drammaticamente confliggente con gli interessi territoriali ed ambientali della Provincia di Belluno" recita una delle numerose prese di posizione del Consiglio Provinciale di Belluno (11 dicembre 1995) trasformata in istanza di revisione delle concessioni a scopo idroelettrico ed irriguo ed inviata il 4 gennaio 1996 a tutti i livelli istituzionali più alti, dal Ministero dei LLPP competente istituzionalmente in materia sino al Presidente della Giunta Regionale del Veneto. 
Non è la prima presa di posizione della Provincia che sin  dal dicembre 1992 con propria delibera, aveva costituito un Comitato di Consulenza tecnico-scientifica - avv. Fiori, prof. Luidi D'Alpaos, Marco Zanetti e Roberto Loro -  con l'incarico di esaminare i disciplinari di captazione, prevedendo, in particolare, l'elaborazione di proposte in ordine alla questione delle regimazioni idrauliche.
Neanche l'istanza citata è la prima: a parte una serie di carteggi fra Provincia, ENEL,  Ministero competente e Autorità di Bacino (17), una lettera del Presidente della Provincia di Belluno, Oscar De Bona, ai Sindaci e ai Presidenti delle Comunità Montane richiama tutti alla necessità di azioni comuni per sostenere davanti al Governo, le ragioni di questa vertenza
Intanto il fronte istituzionale continua ad interrogarsi sulla questione Piave e nel 1995 l'Autorità di Bacino, su  richiesta formale della Provincia di Belluno, riprende un vecchio progetto di rilasci sperimentali individuando nel Cordevole, irrequieto affluente del Piave, un primo possibile banco di  prova.
Il 16 giugno 1996 si firma il 1° protocollo d'intesa per l'avvio della sperimentazione di rilasci idraulici sul torrente Cordevole: è una svolta, anche se limitata ad un solo corso d'acqua, nella politica di chiusura fino a qui  seguita dall'ENEL.
Forme nuove di confronto e di collaborazione si aprono dopo questo primo fatto: si stende un piano di ripristino e salvaguardia per il lago di S. Croce. E' l'estate del 1996 e, oltre alla Provincia di Belluno, vi partecipano la Comunità Montana dell'Alpago, l'ENEL e il Genio Civile.
Nel 1997, vedrà la luce un nuovo protocollo d'intesa che riguarda l'avvio dei rilasci in fase sperimentale proprio lungo l'asta principale del Piave.  E' anche l'anno di una serie di incontri e convegni con la partecipazione del  Ministro ai LL.PP., Costa, che porteranno alla emanazione di una  direttiva di quest'ultimo all'Autorità di Bacino perché venga predisposta una prima bozza del Piano di Bacino con particolare riguardo ai nuovi criteri e nuove regolare per gli usi plurimi dell'acqua del Piave.
Ma è il 1998  che può essere considerato,  per Belluno e per la sua provincia, l'anno dell'acqua, anzi l'anno del Piave.  E' stato un periodo denso di avvenimenti e particolarmente significativo nella lunga vertenza che oppone le comunità locali bellunesi a coloro che in termine tecnico vengono definiti  "concessionari" per l'uso dell'acqua del bacino idraulico del fiume Piave.
Tuttavia, il 1998 non è stato solo l'anno in cui più manifesta e diffusa si è fatta la consapevolezza di questa situazione di degrado e di rischio, ma due circostanze  di segno diverso e complementare, hanno fatto assumere valenza nazionale ed internazionale al "caso" del fiume Piave 
Innanzitutto, le questioni della progressiva morte biologica del fiume e della sua pericolosità sono state definite ed illustrate in tutti i loro possibili, drammatici sviluppi  dall'attività sistematica della Provincia di Belluno che, in collaborazione con i comuni rivieraschi e con il sostegno tecnico di numerosi esperti, ha posto al Governo una questione decisiva, cioè la necessità che la gestione dell'acqua - attraverso la revoca e la ridefinizione dei disciplinari d'uso, rispettivamente dell'ENEL e dei consorzi di bonifica - s'ispiri al principio del bene collettivo e che le comunità locali partecipino alla definizione dei nuovi criteri, di qualità e di quantità, ponendo come obiettivi primari e strategici la rivitalizzazione biologica del fiume e la ricomposizione dell'equilibrio naturale dell'intero bacino. 
Per la prima volta, il Governo ha riconosciuto il valore etico e politico di questa richiesta impegnandosi a dar vita ad un tavolo comune di trattativa fra tutti i soggetti interessati e confermando, in via di principio, di condividere, sopra ogni altro, l'obiettivo di ridare acqua al fiume in modo da ricostituirne, per quanto possibile, gli andamenti naturali
Infatti, è il 6 maggio 1998, quando a Roma il Comitato per il Bacino dell'Alto Adriatico sottopone ad approvazione il "Piano Stralcio" del Bacino del Piave. Un piano che è stato tempestivamente esaminato e giudicato "in tutte le sue inaccettabili inadeguatezze, dalla Provincia di Belluno e dai Comuni interessati" (18).
La stessa Provincia di Belluno ha inoltre immediatamente predisposto un documento di merito nel quale, tralasciate le valutazioni critiche del progetto in ordine agli aspetti giuridici e funzionali, pone in rilievo come il ruolo fondamentale del piano stralcio sia proprio quello di dettare precise norme di salvaguardia.
In sostanza, le controdeduzioni della Provincia e quindi le  conseguenti proposte, si indirizzano verso la richiesta di una definizione del bilancio idrico del bacino, primo passo necessario alla riconversione ambientale e in termini, seppur graduali, all'effettiva rinaturalizzazione del fiume.
Appare evidente che la stessa elaborazione, qualitativa e quantitativa,  del minimo deflusso vitale non può essere ricavata dall'applicazione di una semplice formula matematica, ma non può che essere il risultato di un iter complesso che preveda la ricostituzione progressiva di tutta una serie di requisiti naturali andati perduti in questi decenni di sfruttamento, la salvaguardia delle biocenosi acquatiche e delle qualità intrinseche e strutturali dell'ambito fluviale (sistema degli affluenti, asta principale, profili  di riva ecc.). 

   In definitiva, è il sistema fiume che dev'essere rimesso in condizioni tali da recuperare, pena la  scomparsa della stessa risorsa patrimoniale che lo connota (l'acqua), con il naturale andamento delle portate di morbida e di magra secondo l'andamento stagionale, la propria funzione e capacità di modellazione.
In questi termini e con queste finalità -  sottolinea ancora la Provincia in molte sue prese di posizione - si devono individuare anche le fasi sperimentali collegate ai rilasci idrici  dalle vigenti concessioni, ove il fine non deve essere appunto la giustificazione del prelievo, ma la riqualificazione della risorsa idrica sotto forma di portata ecocompatibile alla caratteristica naturale del sito.
Inizia così l'iter di verifica su questo primo importante atto del Governo che riconosce, di fatto, l'esistenza di una questione acqua che dev'essere affrontata concertando nuove politiche d'uso attorno ad un unico tavolo cui devono sedere il Governo Centrale, le Comunità Locali e gli attuali Concessionari.
 Nondimeno, è bene considerare questa una tappa importante di un cammino che è ancora lungo  perché  questo fiume, causa il sistematico processo di artificializzazione realizzato lungo il suo corso, dagli anni venti ad oggi,  rappresenta purtroppo un caso limite dello sviluppo industriale di questo secolo, difficilmente riconducibile ad un destino di naturalità.

Il federalismo delle risorse

   L'altro aspetto che in questo 1998 ha assunto preminenza ed è andato focalizzandosi grazie all'intervento più attento degli organi di informazione (giornali, televisione, radio etc) è stato quello del profondo significato etico e culturale che questa vertenza ha assunto nell'ambito di una riconsiderazione delle politiche d'uso delle risorse, finora praticate dai grandi sistemi produttivi.
Il culmine di questa attenzione si è avuto, nel giugno scorso, con l'incontro a Belluno di una serie di esperti nazionali ed internazionali che si sono confrontati in quattro giorni organizzati dal Centro Internazionale Civiltà dell'Acqua, intorno alle problematiche della modernità in montagna, con particolare riferimento all'acqua quale elemento costitutivo la nostra morfologia materiale e culturale.
Il caso del Piave è diventato perciò la cartina tornasole di molte delle affermazioni di principio che negli ultimi anni sono state usate come antidoto alla vecchia politica centralistica e come premessa essenziale e non rinunciabile per qualsiasi politica futura e moderna: ci si riferisce, ovviamente,  al federalismo o meglio, alla sua traduzione concreta sul piano del governo locale per l'uso delle risorse, dei beni e delle identità che sono patrimonio di una o più comunità.
Cos'è che ha ridotto così il Piave se non l'idea - seguita coerentemente dalla politica e dall'economia negli ultimi ottant'anni - che il bene acqua era lì a disposizione di tutti certo, ma poteva essere "adeguatamente" sfruttato solo da alcuni per  obiettivi solo in parte d'interesse collettivo, in realtà per il  profitto di gruppi e di società ben identificati, per lunghi decenni  quasi uno Stato nello Stato?

   Storia e cronaca, nel Bellunese, confermano drammaticamente che lo sfruttamento delle acque non si fermò di fronte a nulla, che nessun scrupolo (né culturale e sociale, né umano e ambientale) intervenne a mitigare il disegno di chi s'era costruito in pianura il monopolio industriale (Porto Marghera) e in montagna la propria fonte d'energia (la SADE prima e l'ENEL dopo). 

   Il Piave è là con le sue acque ingabbiate a testimoniare non solo il limite oltre il quale vi è un punto di non ritorno fra convenienze dello sviluppo, integrità del territorio e diritti delle esistenze - tutte le esistenze biologiche oltre quella umana - ma anche  antologia esemplare di come è stato inteso questo sviluppo in luoghi dove la ricchezza straordinaria di beni naturali (le acque delle nostre montagne) si accompagnava ad una scarsa resistenza sociale e politica (dovuta alla forte emigrazione e all'isolamento culturale delle comunità montane) dei residenti. 
Una forma di sfruttamento radicale che ha più i caratteri del colonialismo classico che non quelli delle sviluppo intensivo.
Oggi, questa è una pagina chiusa! L'ha drammaticamente sancito la tragedia del Vajont da cui è partito un lento ed ineluttabile processo di  crescita della coscienza di sé per la gente di montagna, ma siamo all'inizio e bisogna guardare alla complessità dei problemi che abbiamo di fronte con la volontà di capire e l'intelligenza per risolvere. 

Conclusioni

   Che qui, lungo il Piave, si siano passati i limiti della compatibilità fra attività produttive e equilibrio naturale, è indubbio e che tale confine sia stato oltrepassato in più di ottant'anni di sfruttamento dissennato delle risorse fondamentali, soprattutto della montagna, è altrettanto certo. Semmai qualcuno tentasse di individuare il senso ultimo di questa devastazione quasi secolare, la troverebbe tutta riassunta, come abbiamo già detto, nella tragedia del Vajont che rimane, anche se non completamente indagata in tutte le sue premesse, il "logo" politico in cui sono state riassunte tutte le mutazioni e le contorsioni conosciute nella democrazia di questi ultimi trent'anni: dalla cultura della corruzione allo strapotere delle lobbies politiche ed economiche, dall'ignavia di certa accademia italiana al paradigma estremo della potenza della tecnica, dalle giustificazioni miopi di un progresso imposto a colpi di deprivazioni agli egoismi corporativi dei produttori .
Quando la matrice irrazionale e degenere di certo estetismo in questa fine di millennio dovrà essere ricordata nella cronache di casa nostra, sarà naturale ricorrere all'immagine di quanto questa elegante falange di cemento, una diga immensa, a tutt'oggi  intatta,  sopravvissuta alle stesse leggi della fisica, sia stata celebrata prima e dopo la catastrofe e  di quanto essa non abbia rappresentato solo il sogno di arditissimi ingegneri, ma anche quello più volgare di come il potere di pochi cerchi i simboli della propria forza per umiliare il destino di molti.
Una suggestione ancora presente nell'immaginario collettivo, che congela l'elaborazione di un lutto autentico sulla tragedia e soprattutto impedisce di coglierne pienamente tutti gli sviluppi negativi che, comunque, hanno segnato in modo irreversibile questa parte del Veneto, negli ultimi trent'anni.
Sì! il Vajont è servito a poco, qui ed altrove, se il Piave con decine di altri fiumi in tutta la catena delle Alpi e in molte altre parti del mondo, sono stati trasformati in pericoli permanenti per la terra e gli uomini che la abitano.

   Il 14 marzo 1999, in occasione della "2^ Giornata Mondiale contro le grandi dighe, per i fiumi, la vita, e l'acqua" su iniziativa dell'Associazione Culturale "Tina Merlin" di Belluno, in collaborazione con centinaia di associazioni non governative italiane coordinate dalla Campagna per la Riforma della  Banca Mondiale e dalla Fondazione Lelio Basso di Roma, il "caso" del fiume Piave è stato  inserito nel documento alla Word Commission on Dames  (Commissione Mondiale delle Grandi Dighe), un organizzazione scientifica che ha sede a Città del Capo in Sud Africa e che ha grande peso nei confronti dei più importanti governi occidentali. 
In quel documento sta scritto:  "(...) nel bacino del Piave, nelle Alpi Orientali, il controllo a fini di sfruttamento dell'acqua per la produzione idroelettrica e l'irrigazione ha raggiunto livelli  drammatici di completa trasformazione del territorio. Una decina di dighe sostengono ventiquattro impianti di produzione idroelettrica con più di 50 singole captazioni (alcune griglie di caduta per l'acqua seccano torrenti fin sopra i 1.500 mt di altezza) e 200 km di adduzioni imbrigliano il suo corso fino alla foce (...)" (19).
   Nel caso specifico, gli obiettivi dell'iniziativa sono quelli di sollecitare alla Word Commission on Dames l'adozione del Piave come fiume simbolo di uno sviluppo distorto e caso esemplare su cui intervenire con professionalità e risorse di alto profilo e livello internazionale, la conseguente predisposizione di un progetto mirato alla salvaguardia dell'intero bacino e alla rinaturalizzazione  progressiva dell'asta fluviale e l'attivazione di tutte le iniziative idonee a completare il risarcimento dei danni alle vittime del Vajont, considerati tardivi e insufficienti.
E' un fatto di grande importanza che premia in primo luogo la tenacia  delle istituzioni bellunesi che da anni si stanno battendo perché il Piave non muoia e con esso non scompaia grande parte della cultura e della vita di questa parte delle montagne.
  Vale la pena, per concludere, di riportare le dichiarazioni allarmate che alle Giornate dell'Acqua '98 , fece il professor Sumy dell'Università di Nyagata in Giappone a proposito della costruzione della più grande diga esistente al mondo (la Diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze, in Cina ) e dei rischi più volte denunciati di frane e smottamenti nel bacinodi quella lontana località: " Per avere l'idea della potenza d'urto dell'onda sollevata da una eventuale frana bisogna ricorrere ai numeri: nel bacino del Vajont che conteneva 168 milioni di mc d'acqua, la frana provocò un'onda d'urto della forza di 100 milioni di tonnellate che volò sopra la diga; in un bacino che contiene 39 mila 300 milioni di mc d'acqua (tale è la capacità d'invaso delle Tre Gole), una frana simile cosa può provocare? E' difficile persino immaginare gli effetti di un'onda di proporzioni simili che spazza per centinaia di chilometri la pianura davanti a sé...." (20).
Davanti e sotto questa diga , nel raggio di 50 km, vi sono due grandi città, Yichang e Wuhan, rispettivamente di 1 e 5 milioni di abitanti e il Governo Cinese continua a sostenere la necessità della costruzione di questa diga per produrre energia elettrica e fornire acqua ad uso agricolo alle pianure limitrofe. Il resto è, ancora una volta, questione di poco conto.
 

Renzo Franzin
Associazione culturale "Tina Merlin" di Belluno

 
 
 

- NOTE AL TESTO

1-2 In proposito "Vajont,  Stava, Agent Orange", recentissimo studio sulle dinamiche delle responsabilità civili ed istituzionali in tragedie collettive, di Nicola Walter Palmieri, Padova 1997 (pagg. 10-37).
3 vedasi la scheda sul rischioidraulico in "Programma provinciale di previsione e prevenzione in materia di protezione civile" della Provincia di Venezia, 1997 (pagg.42-45).
4 "In Veneto, come altrove, l'andamento altimetrico e, più in generale, la conformazione del territorio giocano un ruolo primario nell'utilizzazione delle risorse idriche. (..) Il bacino di gran lunga più importante è quello del Piave , lungo il percorso che attraversa l'intera provincia di Belluno e la parte pedemontana del trevigiano: l'uso di invasi naturali e la realizzazione, in seguito, di bacini artificiali hanno reso via via più intenso lo sfruttamento del fiume e dei suoi numerosi affluenti", in Storia dell'Industria elettrica in Italia di AA.VV., Bari 1994 (vol.4, pagg.488-489).
5 ibidem (vol. 3**, pag 751).
6 per ulteriori approfondimenti si rimanda alla copiosa letteratura specialistica esistente sull'argomento,  con particolare riferimento al saggio  La SADE di Giuseppe Volpi e la "Nuova Venezia Industriale", di R. Petri e di M. Reberschak, contenuto nel 2 volume de Soria dell'industria elettrica in Italia di AA.VV.,  Bari 1993.
7 Da 1° rapporto sullo stato delle Alpi a cura della CIPRA Internazionale - Torino, 1998 (pag.182).
8         ibidem.
9 I dati riportati sono di fonte ENEL La suddetta entità di sfruttamento della risorsa idrica teoricamente disponibile rappresenta solo le esigenze idroelettriche ed irrigue e manca della quantità - peraltro difficilmente quantificabile - usata dagli Acquedotti e dalle attività industriali.
10 Nicola Piccirilli,  L'acqua e l'energia elettrica nel bellunese, Belluno, 1999.
11 "Veneto, servono 10 mila miliardi"di Paolo Bozzini, da Il Gazzettino del 12.02.1999.
12 da Informando dal Piave,  newsletter dei Consorzi di Bonifiva Basso Piave, Destra Piave, Pedemontano Brentella, Pedemontano Sinistra Piave, n.3/giugno 1998, Montebelluna (TV).
13 da Mondo Rurale Veneto, 1999, n. 6 pag. 5.
14 Ulf Todter, I corsi d'acqua: la natura imbrigliata in '1° rapporto sullo stato delle Alpi', Torino 1998 (pag. 182).
15 dalla Risoluzione congiunta votata dai Comuni del Medio Piave, lunedì 24 novembre 1997 a Cimadolmo (TV).
16 idem
17 23 febbraio 1993, lettera ai dirigenti ENEL sui nuovi progetti di sfruttamento del patrimonio idrico della Provincia di Belluno; 29 giugno 1993, richiesta d'intervento al Ministro, all'Autorità di Bacino ed alla regione Veneto sulle portate minime dei corsi d'acqua bellunesi; 4 agosto 1993, lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Presidenti di Senato e Camera sull'istanza di revisione dei disciplinari di captazione delle acque pubbliche a scopo idroelettrico ed irriguo; 20 settembre 1994, richiesta all'Autorità di Bacino di tutti i dati tecnici e delle copie dei disciplinari attivi. 
18 Sergio Reolon,  1998, anno del Piave in  'I protagonisti', anno XVI n. 71, Belluno 1998   (pag. 8 ). 
19 dalla dichiarazione congiunta della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale e delle Organizzazioni non Governative Italiane , Roma 14 marzo 1999. 
20 da il quotidiano Il Manifesto del 21 giugno 1998, pag. 9.
 
 


o Renzo Franzin è membro dell'Associazione culturale "Tina. Merlin" di Belluno (via Montalban 1 - 32100 Belluno, tel.
0437 26805, e-mail: rgv@dacos.it).

L'articolo risale al 1999. La stessa associazione ha elaborato nel 2000 un progetto di
riqualificazione dell'area 
del Vajont.

(24 gennaio  2001)

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