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Etiopia-Eritrea, non solo una guerra di confine
L'analisi di un conflitto sanguinoso che ha già provocato una tragedia umanitaria
 

  di MARCO PONTONI

   La guerra fra Eritrea ed Etiopia continua con nuovi scontri dopo una fase che aveva visto la supremazia etiopica, con Addis Abeba che dichiarava chiuso il conflitto e si sedeva al tavolo dei negoziati di pace ad Algeri dove, a tutt'oggi, però, le trattative sono ancora incerte (anche se si parla di possibile cessate il fuoco) mentre le armi sparano ancora.
   In attesa di novità dal fronte negoziale, il bilancio è già di decine di migliaia di vittime da ambo le parti, ed emergenze umanitarie drammatiche nei due paesi. L’Eritrea è alle prese con i feriti a soccorrere, in una situazione resa ancora più drammatica dal fatto che buona parte delle infrastrutture sono state distrutte (un esempio emblematico è quello della centrale elettrica di Massaua, la cui costruzione era appena terminata, per un costo complessivo di cinquanta miliardi, erogati dall’Italia e da alcuni paesi arabi, la quale è stata rasa al suolo dai bombardamenti). A ciò si aggiungono i problemi relativi ai circa settantamila cittadini etiopi di origine eritrea che il governo di Addis Abeba ha deportato a più riprese, dall’inizio del conflitto (maggio 1998), in condizioni spesso disumane (i deportati venivano abbandonati in pieno deserto, mentre i loro beni in patria venivano sequestrati; ma una piccola percentuale di essi è stata anche incarcerata) e che ora ricadono interamente sulle spalle di Asmara. L’Etiopia, d’altro canto, sta fronteggiando com’è noto un’altra delle carestie che, a quanto pare ormai ciclicamente, investono parte del suo territorio. Qualche settimana fa il presidente etiope Meles Zenawi, respinse, come si ricorderà, l’offerta del presidente eritreo Issaias Afwerki di far arrivare gli aiuti internazionali in uno dei porti del suo paese, Massaua o Assab. L’Etiopia, dopo il referendum che ha sancito, nel maggio del 1993, il distacco dell’Eritrea (avvenuto all’epoca in un clima assolutamente pacifico), e la sua costituzione come nuovo Stato membro della comunità internazionale, è rimasta priva di sbocchi a mare; il suo rifiuto di accettare l’offerta dell’Eritrea è stato motivato con la volontà di non far cadere gli aiuti internazionali destinati alle popolazioni colpite dalla carestia nelle mani del governo nemico.

La tragedia dei profughi

 Giovedì 1. giugno erano a Trento per una visita ufficiale padre Tewolde, provinciale cappuccino della Provincia Eritrea e Presidente della Conferenza Episcopale Eritrea, assieme a padre Marino Haile, Cappellano degli Eritrei ed Etiopici in Italia e Delegato per l’Estero del Comitato interreligioso emergenza dell’Eritrea. Padre Tewolde ha lasciato la città di Barentu, compresa nel triangolo di territorio eritreo rivendicato dall’Etiopia, il 20 di maggio, tre giorni dopo la ripresa del conflitto; ha riferito che per giorni l’esercito etiope ha bombardato le postazioni eritree, dopodiché è avanzato con le sue truppe. I frati hanno dovuto temporaneamente lasciare la zona, ma sono poi rientrati di nascosto, durante la notte, riportando dal fronte impressioni drammatiche. “Le perdite – hanno detto i due cappuccini - sono state terribili da ambo le parti. Ad esse ora si somma il problema dei circa quattrocentomila profughi eritrei riparati verso il Sudan. Lì ci sono ancora i campi nati negli anni Settanta per ricevere i profughi della guerra di liberazione condotta contro il governo di Menghistu. Recentemente circa centosessantamila eritrei avevano deciso di fare ritorno in patria, contando anche su un programma di reinsediamento approntato dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (che prevede o il ritorno dei profughi in patria, o, alternativamente, il loro insediamento definitivo nello Stato che li ha ospitati). Ma ora ovviamente tutto è cambiato, e questi campi sono destinati piuttosto ad ingrossarsi”. 
Interrogati sui possibili sviluppi della situazione i due frati cappuccini non hanno escluso una ripresa del conflitto. 

Addis Abeba voleva un nuovo governo ad Asmara

   L’Etiopia, a loro giudizio, ha apparentemente ottenuto ciò che voleva, la porzione di territorio eritreo rivendicata (triangolo di Badame) ma non ha raggiunto gli obiettivi “inconfessati” di questa nuova offensiva militare, la distruzione dell’esercito nemico e l’installazione di un governo filoetiope ad Asmara. Lo stesso governo eritreo, peraltro, avrebbe commesso, nel corso dell’evolversi della crisi, alcuni errori; il più grave, sempre secondo i due padri, è stato quello di non essersi ritirato subito dall’area contesa, risparmiando così molte vite umane che sono state invece inutilmente sacrificate. Ma anche a proposito di uno degli atti politici che più hanno contribuito ad incrinare i rapporti fra i due paesi, la decisione di Afwerki, nel 1997, di dare all’Eritrea una moneta nazionale, il nacfa (in precedenza, dopo l’indipendenza, l’Eritrea aveva adottato la moneta etiope, il birr), il giudizio non è positivo. “Una decisione che si sarebbe potuta rimandare, e che ha innescato una spirale di reazioni negative”, hanno detto i due cappuccini.
Il Trentino mantiene rapporti amichevoli con la giovane nazione africana,: c’è innanzitutto l’impegno dei missionari cappuccini, che in questo momento stanno cercando di mettere assieme un’equipe medico-sanitaria da mandare in Eritrea, per alleviare gli sforzi del personale locale (gli interessati, medici e infermieri, possono telefonare allo 0461-983353). E c’è inoltre l’impegno delle istituzioni sul versante della cooperazione allo sviluppo, concretizzatosi tre anni fa nella creazione, grazie a contributi provinciali, di quella che attualmente è la più grande cooperativa agricola del paese, che coinvolge mille persone. A ciò si somma infine un’azione di sensibilizzazione anche in sede politico-diplomatica: il presidente della Giunta provinciale di Trento ha scritto due settimane fa al presidente della commissione europea Romano Prodi per sollecitare un intervento dell’Europa in favore dell’Eritrea.

Note su una guerra africana

   La guerra Eritrea-Etiopia non si presta a facili semplificazioni. Meno che mai può essere letta attraverso le consuete categorie che vedono dietro qualsiasi guerra tra paesi in via di sviluppo la “longa manus” dell’Occidente. Questa guerra non è una delle tante guerre a bassa intensità (la definizione è stata resa popolare dal bel libro-reportages sulla guerra civile in Salvador scritto da Lucia Annunziata) combattute negli anni Ottanta da forze appoggiate rispettivamente dal blocco occidentale, dall’Unione Sovietica o dalla Cina. E’ una guerra che era stata sì largamente annunciata dalla massiccia campagna-acquisti di armi messa in atto dai due paesi prima dello scoppio delle ostilità, ma al tempo stesso relativamente imprevista, coinvolgendo due vecchi “compagni d’armi”, una guerra in cui si impiegano, secondo la felice definizione di un giornalista “armi della guerra di Corea (insomma, armi moderne), metodi da Prima guerra mondiale (è stata una guerra di posizione, una guerra di trincee), e apparati medico-sanitari del XIX secolo (il che spiega perché il rapporto fra feriti e morti sia di circa 1 a 1 anziché di 1 a 3 come avviene nelle guerre fra paesi sviluppati o che coinvolgono paesi sviluppati)”. Non è, soprattutto, una guerra civile come la maggior parte di quelle che dilaniano il continente africano, ma una guerra fra stati sovrani.
 


Due politiche contrapposte

   Inoltre essa, più che una guerra determinata dal retaggio coloniale (l’occupazione italiana, le successive vicende che hanno visto il Corno d’Africa al centro delle nostre mire imperiali, hanno comunque ovviamente il loro peso) sembra essere ereditata dal passato “comunista” del Corno d’Africa: ad essere contrapposte qui sono di fatto due forze politiche che rappresentano l’approdo alla politica di due movimenti di liberazione, il Fronte di liberazione dell’Eritrea e il Fronte di liberazione del Tigrai (il Tigrai è la provincia etiope che confina con l’Eritrea, ed è principalmente da questa regione che viene attualmente il sostegno al governo di Meles Zenawi), le quali dal 1977 fino al 1991 combatterono unite contro il regime del colonnello Mengistu, appoggiato dai sovietici. Entrambi i movimenti di opposizione in realtà si proclamavano all’epoca a loro volta filomarxisti, quantunque poi il loro marxismo si sia tradotto, nei fatti, solo in una spiccata propensione a governare i rispettivi paesi in maniera autoritaria. Con una significativa differenza: gli osservatori internazionali, e anche i due padri cappuccini con cui abbiamo parlato, sono generalmente concordi nel definire il leader eritreo molto popolare; certo, Afwerki non ha ancora dato concreta realizzazione al parlamentarismo previsto dalla Costituzione, e di fatto nel paese non si sono ancora tenute libere elezioni (alcuni partiti di opposizione, di orientamento filoislamista, sono appoggiati dal confinante Sudan, e con essi l’Etiopia, dopo l’inasprirsi delle relazioni fra i due Stati, ha cercato di stabilire un contatto). Tuttavia nel complesso la sua leadership sembra essere più stabile di quella del primo ministro etiope Meles Zenawi, il quale governa un paese assai più grande, più popoloso, e soprattutto più complesso sotto il profilo etnico-sociale. Accentuare le rivalità etniche a fini politici (o crearle a bella posta) è, com’è noto, una strategia consueta di molte leadership africane: nel caso dell’Etiopia, il governo al potere sembra essere oggi essenzialmente legittimato dall’appoggio dei Tigrini, mentre gli Oromo, il maggiore gruppo etnico del paese (40% della popolazione), e anche gli Ahmara (25% della popolazione) sono largamente esclusi dalle posizioni di prestigio in seno al governo di Addis Abeba. L’Etiopia del resto ha accusato l’Eritrea di appoggiare il Fronte di liberazione degli etiopi Oromo, nel tentativo di destabilizzare il governo di Zenawi e di arrivare di fatto a controllare il grande vicino. Insomma, la stessa accusa che gli eritrei rivolgono all’Etiopia, di voler arrivare a controllare il loro governo, anche se indirettamente, viene rivolta dagli etiopi all’Eritrea.

Guerra per i confini, per l’economia, per la supremazia politica?

   La guerra ufficialmente è scoppiata il 6 maggio 1998, con l’uccisione, da parte della milizia di confine etiope, di alcuni soldati eritrei, i quali pare avessero comunicato loro che avevano sconfinato. Un mese dopo vi sono stati bombardamenti da ambo le parti, e da lì in poi ogni tentativo di ricomporre pacificamente il conflitto è andato a vuoto. Sotto il profilo delle dispute territoriali il clima si era surriscaldato già l’anno prima con la comparsa, in Etiopia, di una cartina che attribuiva l’area di Badame all’Etiopia. Asmara dice che gli etiopi avevano iniziato anche a “taglieggiare” le popolazioni locali, imponendo loro tasse che non era lecito esigere, trovandosi il territorio entro i confini eritrei. In ogni modo, gli osservatori sono concordi nel giudicare questa porzione di territorio assolutamente insignificante dal punto di vista strategico (il che ovviamente non significa che i due paesi si stiano facendo la guerra “per niente”, ma semmai che la disputa territoriale può essere giudicata un pretesto, al pari se vogliamo dell’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono degli asburgo Francesco-Ferdinando, con la quale prese il via la Prima guerra mondiale).
La disputa ha al suo centro le mappe disegnate nel 1902 che delimitavano la colonia italiana dell’Eritrea; in realtà il confine non è mai stato tracciato in maniera rigorosa, e del resto esso aveva perso gran parte della sua importanza sia sotto il regime autocratico di Haile Selassie e poi a quello dittatoriale di Mengistu. In ogni kodo esso è un confine che si presta ad “interpretazioni” diverse. L’OUA (Organizzazione per l’unità africana), assieme alla diplomazia statunitense, hanno cercato a più riprese di arrivare ad un accordo che potesse essere sottoscritto da entrambe le parti; il loro fallimento è uno degli elementi a favore della tesi per la quale il problema territoriale è secondario. 

   Un’altra tesi accreditata da una parte degli osservatori internazionali è quella della guerra economica. Dopo la nascita della nazione Eritrea, 3,5 milioni di abitanti,  l’impressione era che quest’ultima, molto più piccola dell’Etiopia ma affacciata sul mare arabico, potesse avviarsi a diventare una sorta di “Singapore” africana, capace di attirare gli investimenti stranieri e di svilupparsi sotto il profilo sia industriale che commerciale. L’Etiopia invece, con i suoi 60 milioni di abitanti,  avrebbe rappresentato l’enorme “granaio” del Corno d’Africa (e forse anche un serbatoio di forza lavoro a buon mercato per la nascente industria eritrea). Rivalità economiche sono sorte quasi subito fra i fragili comparti commerciali e industriali etiopi, soprattutto quelli del Tigray, e l’assai competitiva economia Eritrea. L’Etiopia, in risposta alla richiesta pressante di misure “protettive” soprattutto per il Tigray, ha adottato una politica tariffaria sfavorevole per i prodotti importati dall’Eritrea; l’Eritrea ha risposto con il varo della sua moneta nazionale (giustificando quest’operazione con il fatto che il birr etiopico era sopravvalutato, cosa che andava a danno delle esportazioni dell’Eritrea verso il resto del mondo). L’Etiopia si è rifiutata di accettare il cambio 1 a 1 fra birr e nacfa che l’Eritrea si attendeva, pretendendo inoltre che le transazioni commerciali fra i due paesi venissero effettuate in dollari, e così via.
Certo, ad un osservatore occidentale può sembrare una tragica ironia che due paesi entrambi poverissimi abbiamo speso negli ultimi anni milioni di dollari per acquistare armi da guerra (soprattutto dalla Russia, dall’Ucraina e dalla Cina), al tempo stesso avviando una excalation di rivalità culminate in una guerra sanguinosa per ragioni al fondo apparentemente così fragili. Ma se non vogliamo condannarci a non capire nulla delle guerre d’Africa, e ad accettare la formula elementare delle “guerre tra poveri”, lo sforzo che dobbiamo fare è indubbiamente quello di analizzare ogni possibile movente.

   In verità, probabilmente la guerra fra Eritrea ed Etiopia può essere spiegata con un concorso di fattori, come del resto molte altre crisi regionali che solitamente la stampa italiana non si prende la briga di analizzare. Le stesse ragioni economiche debbono, realisticamente, essere inscritte in una cornice più ampia, quella del deterioramento dei rapporti politici fra due paesi (e due leadership), che in passato furono alleate, e che nel 1993 si separarono in maniera, lo ripetiamo, consensuale. Tale deterioramento in parte può essere stato prodotto da cambiamenti negli equilibri interni ai due stati; è possibile ad esempio che il premier dell’Etiopia Meles Zenawi abbia utilizzato questo conflitto per ricompattare il fronte interno, e magari un domani per procedere ad una redistribuzione dei poteri (e delle cariche di governo) fra le diverse componenti etniche del paese (utilizziamo il termine “etnia” nella consapevolezza di quanto fragile, oscuro, fuorviante, strumentalizzabile esso sia). Del resto, anche il primo ministro dell'Eritrea Afwerki avrebbe puntato all’inizio del conflitto proprio sulla fragilità del governo etiope, sperando che una sollevazione interna avrebbe deposto la leadership tigrina sostituendola con una più favorevole ad Asmara. 

Responsabilità della comunità internazionale

   La comunità internazionale è responsabile come al solito soprattutto dell’ambiguità delle sue scelte passate; perché un intervento di proporzioni gigantesche per il Kuwait e nessun intervento nel conflitto Eritrea-Etiopia?
Del resto, se la capacità dell’Onu di intervenire nel continente africano è quella dimostrata in Somalia, è forse meglio che si astenga del tutto dal fare qualcosa.
In ogni caso, quali siano i principi che reggono l’impalcatura del diritto internazionale e quali siano gli strumenti per far rispettare a tutti tali principi rimane ancora in larga parte un mistero.
  Riguardo all’embargo sulla vendita di armi decretato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu i due cappuccini da noi sentiti si sono detti scettici sulla sua efficacia. Esso – ci hanno spiegato – resterà in vigore per un anno, ma le stime internazionali dicono comunque che, se i due paesi volessero continuare a combattersi, avrebbero riserve militari a sufficienza appunto per un anno. 


o Per un’eccellente 
selezione di articoli (in inglese) concernenti 
la guerra
fra Etiopia
ed Eritrea vedi questo sito

Un appello
 

(9 giugno 2000)
 

 

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