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L'uranio impoverito è la democrazia impoverita
Pensieri sui poteri oligarchici politici, militari ed economici e sull'impotenza popolare
 


  Ci pare di cogliere il peso di un'assenza in questi giorni di "scandalo" sull'uranio (e ora anche plutonio) impoverito e sulla contaminazione radioattiva di militari, volontari umanitari e popolazioni civili. L'assenza di una denuncia forte della rapina di democrazia, del cinismo dei poteri costituiti, in questo caso degli intrecci fra potere militare e potere politico. In particolare, era lecito attendersi una denuncia dell'autonomia deviante del sistema militare che si fa beffe del controllo politico democratico (facilmente manipolabile per "cause di forza maggiore", come una guerra "umanitaria") e in alleanza con scienza e industria bellica mette in fila una porcheria dopo l'altra. Come nel caso taciuto dell'uranio impoverito.

   Sull'argomento, per anni il mondo politico ha fatto finta di non sentire le denunce che venivano dall'arcipelago pacifista, anche quando quelle stesse parole risuonavano nelle aule parlamentari. Le forze armate non andavano disturbate nelle loro manovre umanitarie. 

  Poi, giocoforza, la questione è rimbalzata sui media, che a loro volta per anni non avevano visto né sentito, confermando la straordinaria propensione all'inchiesta giornalistica che caratterizza il nostro tempo di macdonaldizzazione anche delle notizie e di chi dovrebbe "produrle" (sempre di più come in una catena di montaggio, pesandole a chili).

   Qualcuno dirà che, alla fine, almeno, il meccanismo democratico dell'equilibrio fra poteri ha fatto esplodere il caso. Meglio tardi che mai, insomma. I mass media svolgono un ruolo di denuncia e la politica può cercare di riprendersi (faticosamente) le sue prerogative di controllo sulle attività militari che sottraggono alle persone ignare il diritto alla salute.
   Ma questa sarebbe una lettura ingenuamente giustificazionista. Sarebbe il caso, invece, di interrogarsi sul problema democratico che attanaglia le società in cui la popolazione anziché avere un reale potere di controllo diretto o indiretto deve sperare nelle fiammate redazionali, nelle inchieste o nelle denunce giornalistiche (che poi non ci sono o arrivano cinque anni dopo o sono manipolate). Questo non vuol dire che non è auspicabile un ruolo forte dei mass media anche sul fronte dell'indagine: naturalmente sì! Come lo è una loro maggiore funzione formativa, catalizzatrice del dibattito sociale. Ma, appunto, a monte dovrebbe comunque esserci un sistema di reale partecipazione democratica, cioè, nel caso delle nostre società almeno una discussione sui limiti della delega elettorale come attualmente concepita e sulla necessità di interrogarsi su forme alternative di accesso popolare alle decisioni della politica e dell'economia.

   Che ne direste se la sera invece delle lacrime della Carrà ci fosse un dibattito con telefonate e pubblico in sala sulle nuove forme della rappresentaza politica, sui limiti della delega, sull'autonomia e la libertà dell'individuo e delle comunità? Tra l'altro, scusate, ma non si parla a vanvera di federalismo da dieci anni in questo paese? E se al posto delle coppiette o dei genitori e figli che si fanno processare da un pubblico attento e logorroico, ci fosse un confronto sull'alternativa democratica all'economia di mercato che tanti danni produce qui da noi e in tutto il mondo? O se invece di un'ennesima partita di calcio di qualche torneo inventato apposta per la tv e la pubblicità, ci fosse un dibattito sulle oligarchie politiche ed economiche ormai strette alleate nel darci a bere il falso assioma che il libero mercato con la massima concorrenza e la minima rappresentanza democratica (leggi le varie forme di controllo pubblico) sono ormai una via obbligata? E se una sera invece del Grande Fratello ci fosse un dibattito pubblico sulla delega elettorale con qualcuno che magari sostiene la necessità che - nel nome di un elementare principio di democrazia vera e non solo cosmetica - tale mandato diventi revocabile da parte degli elettori medesimi (quanti di noi prima e durante la guerra del Kosovo si sono sentiti impotenti e avrebbero voluto revocare la delega...)?

   Non solo tutto questo non accade, non c'è nemmeno una reazione davanti alle enormità come, appunto, la questione dell'uranio o, altro esempio di questi giorni, della mucca pazza. Ieri alla radio una giornalista intervistava un allevatore e gli chiedeva: "Mi scusi se le faccio una domanda ingenua, ma perché alle mucche non si può semplicemente dar da mangiare fieno, come una volta?". Nella risposta dell'allevatore ci sono tutte le ragioni di un vasto movimento popolare che ancora non c'è ma forse sta crescendo: "Eh... dobbiamo fare i conti con il mercato, con la globalizzazione: vanno ridotti i costi altrimenti non ce la facciamo ad andare avanti...".

    Vanno ridotti i costi, all'interno delle aziende. Ma qualcuno in qualche modo li pagherà, cioè noi tutti in termini di denaro e di salute. Il meccanismo è spietato, forse se ne diffonde anche una certa percezione sociale ma per ora dominano il disarmo e la rassegnazione, al massimo la ricerca di soluzioni estemporanee che non sfiorano le cause sistemiche di questa deriva oligarchica e antidemocratica cui stiamo assistendo magari convinti (bombardati come siamo dalle prediche dei globalizzatori) o almeno col dubbio di camminare davvero verso la maturità del sistema "democratico e capitalista" (un'accoppiata che appare invece sempre di più incompatibile). Certo, si parla spesso di aggiustamenti di tiro, tecnologie dolci, riduzione dell'inquinamento, sistemi di garanzia e controllo (spesso addomesticabili), scelte di consumo critico e altri accorgimenti che, però, non colpiscono il meccanismo ma semplicemente ne attenuano alcuni degli effetti malefici. E anche queste ricette, spesso, sono a loro volta elitarie e dunque utili solo a chi se le può permettere. Come quando si pretende il consumo critico da famiglie che vivono con una busta paga e per questa ragione (ma anche per gli innumerevoli condizionamenti culturali del Grande Fratello televisivo e dintorni) si tuffa nel primo hard discount all'angolo. O come quando si pretende una rivolta ecologista da operai che finirebbero in mezzo a una strada se la loro fabbrica inquinante, produttrice di malattia e di morte, dovesse chiudere.

   La faccenda è complicata per molti versi ma teniamo presente che rendere il quadro complesso agli occhi dei cittadini è uno degli sport preferiti delle lobbies economiche. In realtà la situazione, a grandi linee, è semplice: la delega elettorale come intesa oggi svuota di senso la partecipazione alla vita politica del singolo cittadino. La conseguente debolezza della politica (intesa come potere di decisione e di controllo popolare, non come oligarchia che asseconda le esigenze del mercato, quella invece è forte...) lascia piena libertà alle lobbies economiche che concentrano nelle loro mani potere e capitale godendo del supporto di un formidabile apparato di manipolazione sociale e di una classe accademica che anziché insinuare il dubbio funge da propulsore atomico del libero mercato (scrive il Nobel dell'economia Amartya Sen: "C’è stato un tempo – e non molto lontano – in cui ogni giovane economista “sapeva” quali erano i gravi limiti dei sistemi di mercato e tutti i manuali ripetevano lo stesso elenco di difetti. Il rifiuto intellettuale del meccanismo di mercato portava  spesso a posizioni radicali [...]. Ma negli ultimi decenni il clima intellettuale è cambiato in modo spettacolare e la situazione si è capovolta; oggi è normale partire dall’ipotesi che nel meccanismo di mercato sia onnipresente la virtù, al punto che non sembra importante fare ulteriori precisazioni"). Risultato: non c'è potere decisionale popolare su temi sociali fondamentali, a cominciare da che cosa, come e perché produrre. Ma naturalmente siamo indotti a credere che quel potere c'è e deriva dalle leggi del libero mercato sulla cui sacralità, come si diceva, ormai pochissimi hanno il coraggio di dubitare.
   In altre parole, il sistema economico ci frega quasi tutti ma riesce con la connivenza di politica e istituzioni culturali a farci intendere che stia lavorando per noi e che se c'è qualche difetto esso dipenda dall'incompletezza del radioso processo di democratico dispiegamento delle forze del libero mercato in ogni settore della nostra società. Insomma, libero mercato uguale democrazia, mentre in realtà ci si dovrebbe interrogare sull'incompatibilità dei due concetti.

    Dicevamo che, poi, nella realtà, le semplici dinamiche del libero mercato e delle sue imprese rendono il quadro complicato ma questa non è una ragione per rinunciare a discuterne seriamente: lo si può fare almeno per smascherare le operazioni neutralizzanti esercitate dai vari poteri e per per riportare alle loro dimensioni le presunte  ricette salvifiche che non incidono sul problema paradigmatico di una democrazia politica e di un sistema economico che mediante meccanismi più o meno subdoli sottrae alla popolazione non solo il potere reale ma anche la speranza di ottenerlo.

   Così, per tornare all'uranio, succede che i vertici e gli esperti della Nato possono continuare a ripeterci che non c'è alcun rischio per le persone, senza che queste affermazioni vergognose e irrispettose della dignità popolare vengano contestate sonoramente dai cittadini. Forse, perché i più pensano che non ci sia niente da fare. Sul che fare, invece, sarebbe il caso di sforzarsi un po' di più. Con la calma di chi sa che dietro l'angolo non c'è una soluzione istantanea (ma è doveroso cercarla tutti insieme) e che, dunque, bisogna anche intervenire subito almeno sui meccanismi più pericolosi e minacciosi per la vita e per quel che abbiamo di democrazia. Da tempo, per esempio, una delle nostre proposte è di cominciare interrogandosi seriamente sui costi sociali del libero mercato.

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