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Natura, giustizia, crisi
dello sviluppo: che paghino i ricchi
Intervento di Wolfgang Sachs al Damm di
Napoli: proposte per la conversione sostenibile
La mia storiella del mondo può incominciare
con un piccolo racconto.
L'epoca sviluppista L’epoca sviluppista
è cominciata in un giorno preciso: era il 20 gennaio 1949, Truman
assumeva la presidenza degli Stati Uniti d’America e nel suo discorso al
Congresso inaugurava l’era dello sviluppo. Quel giorno, due miliardi di
persone divennero sottosviluppate. Esse smisero di essere quello che erano,
con tutte le loro diversità, e furono trasformate, come allo specchio,
in un riflesso inverso della realtà altrui: uno specchio che li
sminuisce e li spedisce in fondo alla fila. Alla fine della seconda guerra
mondiale, gli Stati Uniti erano una macchina produttiva formidabile e senza
sosta. Erano al vertice della scala evolutiva e da questa posizione privilegiata
esportavano ovunque l’idea che il livello di civiltà si misurasse
con quello della produzione! La missione che i padri fondatori avevano
lasciato in eredità, quella di essere sempre un “segnale sulla collina”,
assumeva dimensioni planetarie.
Crisi della giustizia e crisi della natura Partiamo dalla prima. La promessa di Truman che la giustizia potesse affermarsi attraverso lo sviluppo si è chiaramente rivelata un’illusione. L’idea di giustizia come perseguimento di ricchezza da parte di tutti è fallita. E’ sotto i nostri occhi che il divario tra i cosiddetti mondo sviluppato e mondo sottosviluppato non si è che accresciuto nell’ultimo cinquantennio. Nel 1960 i paesi del Nord erano venti volte più ricchi di quelli del Sud, nel 1986 lo erano di quarantasei volte. Quello che si è ottenuto è la creazione di una classe media globale, di una classe consumistica globale. Questa classe vive per la stragrande maggioranza nei paesi dell’Ocse, ma la si incontra ovunque. La globalizzazione, da un lato elimina le barriere tra le nazioni, dall’altro erige nuove barriere all’interno degli stessi paesi. Nord-Sud non sono più categorie geografiche, ma categorie socio-economiche presenti in ogni stato. La spaccatura, la tensione sociale è tra questa classe media e, in termini economici, la restante popolazione superflua, che non ha e non avrà la possibilità di accedere agli stessi livelli di consumo. Non si può più pensare di estendere ancora questa classe, la natura non potrebbe sostenerla. Impossibile diffondere la "crescita" La prospettiva di
una maggiore equità non può intendersi nel senso di una crescita
continua. Siamo arrivati all’altra grande crisi, quella della natura. L’idea
di Truman fallirà davanti al tribunale della storia non tanto perché
la gara sviluppista è stata condotta con metodi ingiusti, molti
sono stati ostacolati, ma soprattutto perché questa competizione
porta ad un abisso: la crisi ecologica. Nonostante che solo il 20% della
popolazione abbia partecipato al frutto del progresso, la pressione esercitata
sull’ambiente ha già mostrato i limiti della natura, usata da un
lato come miniera e dall’altro come discarica. Sia a livello locale che
globale, risulta ormai evidente che le risorse messe a disposizione dalla
natura si vanno esaurendo o sono state fortemente compromesse.
Una società sostenibile L’ambientalismo
non è quindi un movimento per rendere più pulite le nostre
città, ma per una società sostenibile, che pesi di meno sulla
natura e sugli altri popoli. Bisogna fare attenzione: parlo di società
sostenibili e non di sviluppo sostenibile. Quest’ultimo concetto così
come usato dai nostri governanti, è un inganno, un cavallo di Troia
costruito nelle grandi conferenze mondiali. Le élite del Nord e
del Sud, solo in apparente contrapposizione, non sono disposte a
rinunciare all’idea di sviluppo, ma non potendo anche loro non vedere le
crepe che si vanno formando in questo sistema, ci aggiungono l’aggettivo
sostenibile che di per sé non significa nulla. A parole i centri
di privilegio e di poter hanno accettato il concetto di “sviluppo sostenibile”,
ma nei fatti non affrontano la questione che non ci può essere sostenibilità
senza una limitazione della ricchezza.
Il nostro benessere senza futuro Oggi lo sbandierato e osannato “diritto allo sviluppo” finisce con il coincidere con le aspirazioni delle classi dominanti ad una maggiore affermazione sul mercato, piuttosto che con una maggiore solidarietà tra i popoli. Il nostro benessere
è incapace di futuro, è incapace di giustizia, abbiamo creato
un benessere oligarchico, anche se volessimo estendere i nostri livelli
di consumo a tutti i popoli del mondo non potremmo farlo. La democratizzazione
del nostro benessere ci porterebbe alla crisi ecologica.
Come rendere sostenibile un Paese Al Wuppertal abbiamo ricercato e individuato alcuni modi per rendere sostenibili le nostre società e rispondere alla sfida del fattore 10. Ovviamente è un discorso assai complesso, tenterò di indicare alcuni esperimenti già in atto, delle idee-guida. Le nostre ricerche partono dalla convinzione che bisogna cambiare l’indirizzo del processo tecnologico: non produrre sempre più con sempre meno persone, ma lavorare con più persone e sempre meno natura. Il Nord è chiamato non solo ad operare una più equa ridistribuzione della ricchezza (ritiro dall’occupazione di terre altrui, cessione di quote di beni ambientali comuni, atmosfera, oceani), ma anche a ridefinire i modelli di produzione e di consumi. La nostra analisi invita a spostare l’attenzione dalla parte finale (tamponare le fonti di inquinamento al termine del processo) alla parte iniziale dei cicli di trasformazione delle risorse in output. Per attuare una tale trasformazione bisogna operare sia in una prospettiva di efficienza, come fare bene le cose: ridisegnare come si produce, sia in una prospettiva di sufficienza, pensare le cose giuste: ripensare a come si consuma. Dopo la conferenza di Rio de Janeiro del ’92, nonostante i discorsi altisonanti, i governi non si sono un gran che mossi sulla strada della sostenibilità, ma due gruppi della società si. Da un lato cittadini e istituzioni locali, dall’altro pezzi della grande industria. Un esempio ci viene offerto dalla Rank Xerox che prima vendeva fotocopiatrici ed oggi il servizio di copiatura attraverso una commistione di affitto e leasing. La proprietà, i costi, i rischi di manutenzione e lo smaltimento delle macchine rimangono al fabbricante, il cliente paga il costo pattuito per ogni copia. L’interesse dell’impresa è cambiato: non vendere sempre più macchine, ma procurarsi macchine di lunga durata, facilmente riparabili e riutilizzabili. E questo potrebbe essere il nuovo modello di utilizzo di automobili, frigoriferi, computer… la cui proprietà è lasciata ai produttori, in modo che, alla fine del periodo stabilito per questa sorta di noleggio, la responsabilità dell’oggetto diventa del producente, che dovrà quindi occuparsi della sua riciclabilità, della sua fine, sin dalla fase di progettazione. La giustizia non è dare di più ma prendere di meno La sfida della
giustizia di domani non è dare di più, ma prendere di meno,
combinare moderazione ed efficienza. I socialisti del secolo scorso avevano
ragione a dire che la giustizia, la garanzia di una vita dignitosa per
tutti passa per il progresso tecnologico. Era giusto individuare una soglia
sotto la quale non ci sarebbe potuta essere giustizia, ma ora non si può
non vedere che c’è una soglia sopra la quale, altrettanto, non ci
potrà essere giustizia.
(Trascrizione
a cura di Renata Pepicelli)
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o | Con
questo articolo aggiungiamo materiale per un dibattito sulle posizioni
di Sachs e sull'approccio del Wuppertal Institutt.
Chi volesse intervenire può scriverci (22 maggio 2000)
A maggio
dell’anno scorso per discutere su sostenibilità e sviluppo abbiamo
invitato W. Sachs al Damm, che per facilità e brevità, definisco,
seppur in maniera un po’ riduttiva, inviandovi per maggiori informazioni
al sito del Damm,
un centro sociale di Napoli.
Renata
Pepicelli
Marco
Pontoni:
Pietro
Frigato:
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