di EDI RABINI
Sui pericoli
che comporta l’andata al governo di Jörg Heider, si è aperta
una salutare riflessione pubblica. L’Europa potrà continuare ad
essere un riferimento per i molti paesi usciti da gravissime crisi economiche
e politiche, e potrà chiedere patenti di democraticità a
chi aspira a farvi parte (vedi Turchia), solo se saprà essere altrettanto
rigorosa, al suo interno, nel rispetto di fondamentali principi di
libertà e tolleranza sono annunciate nella dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo.
L’essere entrati
al governo a ragione di un consenso elettorale non esime chi ha il potere
e l’autorevolezza per farlo, di provare a seminare qualche anticorpo, almeno
sul piano culturale, che impedisca il diffondersi dei virus pericolosi
della xenofobia, del razzismo e dell’antisemitismo, su cui si sono costruite
almeno in parte le fortune di Haider in Austria.
Khalida Messaoudi,
la parlamentare algerina destinataria del premio “Alexander Langer” del
1997, ha dovuto per anni difendersi dall’accusa di aver approvato l’interruzione
del processo elettorale, che avrebbe portato al potere nel 1991 una dittatura
religiosa, e ci rivolgeva provocatoriamente a Bolzano la stessa domanda
che ora risorge: “avreste voi rispettato i risultati delle elezioni che
hanno portato al governo Hitler, se vi foste resi conto in tempo delle
sue intenzioni genocidarie?”.
Ora la situazione
è sicuramente cambiata rispetto allora: molto più solide
sono le istituzioni, le articolazioni dei poteri, il controllo della stampa
e dei movimenti civici. Ciò nulla toglie all’utilità della
discussione che si è aperta, se serve almeno a recuperare un po’
di memoria e a mettere in luce qualche innegabile debolezza della nostra
“europea” cultura politica.
Vorrei
qui accennare ad una, di queste preoccupanti debolezze, che sembra troppo
sottovalutata. Ciò che più impressiona delle vicende che
hanno portato Haider al governo è la compattezza fino ad ora dimostrata
dal partito popolare austriaco. C’è stato sicuramente un aspro dibattito
al suo interno, prima di arrivare a questa decisione. Ma, per quanto se
ne sa dalla stampa, fino ad oggi non si sono viste le defezioni che erano
state annunciate, o da qualcuno auspicate. Ciò fa pensare che in
quel che rimane del sistema dei partiti, ormai quasi ovunque ridotti agli
zoccoli duri, si è di molto affievolita quella che era stata la
loro finalità per eccellenza: quella di saper vedere e discutere
programmi concreti, che si riferissero però anche a delle visioni,
a dei modelli di società desiderabili.
I partiti sembrano
invece diventati un coagulo così forte di grandi e piccoli interessi
(in questo caso il “piccolo” o perfino il “nobile” sono semmai un peggiorativo),
che le divisioni avvengono solo quando questi interessi vengono in qualche
modo messi in pericolo. Il “fine che giustifica i mezzi” sembra l’indiscussa
regola vincente.
Haider saprà bene,
come si è visto in questi giorni (bel privilegio il nostro di poter
seguire i canali televisivi austriaci) sottoporre a revisione il suo linguaggio,
per renderlo presentabile alle cancellerie europee. Ma quello che più
preoccupa è che si porterà dietro, e premierà per
bene, una schiera di uomini che si sono formati alla scuola del fanatismo
e della disciplina militante, alla caccia di un quotidiano “nemico” (che
sia l’immigrato o l’americano o il comunista o la globalizzazione, importa
poco).
I partiti sono
insomma in crisi profonda. Ma non si intravede ancora un nuovo modo di
costruire delle avventure collettive, che siano capaci di valorizzare la
forza di individui liberi, autonomi e anche un po’ indisciplinati.
Simone Weil
(Simone “perché”...) era arrivata, nel 1942 a chiedere la messa
fuorilegge dei partiti, con queste motivazioni: “L’intelligenza non può
essere esercitata collettivamente. Quindi nessun gruppo può legittimamente
aspirare alla libertà d’espressione, perché non c’è
nessun gruppo che ne abbia il benché minimo bisogno.
Anzi, la protezione della
libertà di pensiero esige che l’espressione di un’opinione da parte
di un gruppo sia vietata per legge. perché un gruppo, quando vuole
avere delle opinioni, tende inevitabilmente a imporle ai suoi membri. Presto
o tardi gli individui si trovano ad essere, più o meno gravemente,
impediti nell’espressione di idee opposte a quelle del gruppo su vari problemi
più o meno importanti, a meno che non ne escano.
Ma la
rottura con un gruppo comporta sempre delle sofferenze, o almeno una sofferenza
sentimentale. E, quanto il rischio e la possibilità di sofferenza
sono elementi sani e necessari all’azione, altrettanto sono cose malsane
nell’esercizio dell’intelligenza. Una paura, persino leggera, fa sempre
si che ci si pieghi o ci si irrigidisca, secondo il grado di coraggio;
e tanto basta a falsare quello strumento di precisione estremamente delicato
e fragile che è l’intelligenza.
Persino l’amicizia,
sotto questo punto di vista, è un gran pericolo.
L’intelligenza
è vinta quando l’espressione dei pensieri è preceduta, implicitamente
o esplicitamente, dalla paroletta “noi”. E quando la luce dell’intelligenza
si oscura, l’amore del bene si smarrisce rapidamente.” (Simone Weil “La
prima radice”, ed. Leonardo.)
(3.2.2000)
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Il
fine giustifica i mezzi: ecco la regola ormai dominante nel mondo della
politica dei partiti e della loro crisi.
Edi
Rabini (Pro Europa, Fondazione Langer, BZ1999) ci invita a riflettere sull'incapacità
dei partiti di trasformarsi in spazi che siano capaci di valorizzare la
forza di individui liberi, autonomi e dunque in grado di cantare fuori
dal coro. Come, nel caso dell'Austria, sembrano non fare o almeno non con
toni sufficientemente alti, i dissidenti nel partito che ha sdoganato la
xenofobia
haideriana. |