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Viaggiare? Sì, ma a piedi...
Quando si parte non solo per arrivare. Il cammino negato nella società del lavoro
 

di FRANCESCO MERZ

    Perché camminare, passeggiare, fare escursioni? Oltre all’aspetto sportivo, agonistico, salutista, non bisogna trascurare la valenza psicologica insita nell’atto stesso di camminare. “Camminare diventa come una ribellione a una società che sopprime la distanza geografica e dove la circolazione umana, sottoprodotto della circolazione delle merci è considerata come consumo (turismo), si riduce allo svago di andare a vedere ciò che è diventato banale”, scriveva lo scrittore francese Guy Ernest Debord ne  “La società dello spettacolo”, nel lontano 1967. 
    Quello del camminare, dell’andare a piedi, del viaggiare per viaggiare, è una condizione creativa. Cesare Pavese nello splendido racconto “Il diavolo sulle colline”, scrive: "in automobile si traversa, non si conosce una terra. A piedi, vai veramente, vedi tutto". Bruce Chatwin, l’ultimo dei romantici, ha definito “l’aspetto sacramentale del camminare”. Difatti i primi camminatori furono i pellegrini.

    Il movimento frenetico ed esasperato del turismo attuale, il business del futuro, viaggia solo per arrivare. Oggi per superare lo spazio, non si paga più il prezzo del tempo. Il turista sa quando deve tornare, dove andare, quando arrivare. Il viaggiatore no. La durata dei viaggi antichi favoriva la conoscenza, la comunicazione, la mescolanza. Oggi non è più così. Esaurite le banalità e i luoghi comuni di rito non c’è più nulla da dire. Il mondo è diventato sempre più uguale al turista, banale e prevedibile.  Il turista addirittura conosce lo stress dei primi giorni di vacanza, giorni nei quali gli manca l’abitudine del periodo lavorativo, dove il tempo è scandito, tutto è preordinato. Esiste lo stress da tempo libero. Non si è più abituati all’ozio, a frequentare le zone remote del proprio io. La mente è una camera oscura con molte porte, quasi sempre chiuse per paura della verità.

    Non si discute. Si chiacchiera. Il tempo anziché essere una risorsa, diventa qualcosa da far passare in fretta. E’ questa l’essenza della civiltà occidentale.
Quando il camminare è fonte anche di sapere, di meditazione, di consapevolezza ambientale e del tempo libero. 

    Incedere, vagabondare, con mano, testa e piedi. Forse dovremo concedere alla natura umana una istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio. L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale, mentre la monotonia della stasi prolungata e del lavoro tesse nel cervello delle trame che generano un senso di inadeguatezza personale. Le cose migliori della vita sono libere. Non siamo abbastanza liberi per le cose belle. Dovremo imparare a lavorare per breve tempo allo scopo di poter veramente vivere. La moralità dominante nell’odierna società sottovaluta il valore delle attività che esercitiamo nella nostra vita al di fuori del lavoro ufficiale. 
   Questa moralità dev’essere superata. La solitudine non richiede impegno a nessuno, per questo oggi siamo sempre più soli. 


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