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La solitudine della rivoluzione
Il movimento antagonista: i vuoti, le
contraddizioni, lo smarrimento e il bisogno di fare rete
Care compagne, cari compagni, navigando
in piena solitudine su «Nonluoghi» - in una notte di mezza
estate e in procinto di partire per le vacanze, un puntuale ritorno a un
Sud dal quale anch’io, per molti versi, sono stata costretta a partire
ed al quale ho cercato inutilmente di tornare per sempre -, mi imbatto
in un testo che mi dice – parlando anche alla mia solitudine– di una solitudine
nuova.
Decido
di portarlo “in vacanza” con me, questo testo, e di rifletterci, navigando
per mare, questa volta, ma senza perdere la memoria, quella che aiuta a
porre, e non soltanto a chi, come me, e non siamo pochi, abbia abbandonato
da tempo una militanza politica, le domande del presente o del passato
recente: per esempio, tornando alla lotta per il permesso di soggiorno,
le giornate romane (e bresciane, ma la vertenza, com’è noto, è
una vertenza generalizzata) di giugno: lo sciopero della fame a SS. Apostoli
e a Piazza della Repubblica, il corteo blindato del 2 giugno, gli incontri
al Villaggio globale e all’Università di Roma, la manifestazione
grande e pacifica inventata e gestita dagli immigrati in prima persona
in una calda domenica di inizio estate (17 giugno Brescia, 18 Roma), l’apprensione
e la festa che accompagnano la notizia delle promesse (adesso lo sappiamo,
non mantenute se non in minima parte e con l’eccezione di alcune questure–
e qui, sul terreno della contrattazione piuttosto che su quello dell’irriducibilità,
una delle differenze rispetto al ’68) strappate (attraverso la contrattazione
di sindacati, delegazioni degli immigrati, associazioni) al Governo (una
soluzione alle 53.000 richieste di soggiorno). Manca la Rete, al mio viaggio,
ma ci sono i giornali.
Attraversamenti, erranza. Navigare appunto: è il nuovo modo di andare, in Rete come per mare, come richiedono la liquidità della nostra condizione attuale e del nostro pensare, una liquidità che avvicina e allontana, che riunisce e disperde come le onde. Non diremo più di posti lontani, agognati e forse irraggiungibili, quelli che i giovani degli anni Sessanta e Settanta scoprivano scoprendo finalmente se stessi, misurando in passi la loro distanza dalla generazione che li aveva preceduti, la generazione della guerra e della Resistenza, né vicini, appena fuori città, come le grandi fabbriche dove noi studenti sentivamo gelarci i piedi e le dita per volantinare davanti Mirafiori, Bicocca o il Nuovo Pignone, ma di non luoghi, additati dall’impermanenza ma anche dalla possibilità di incontrarsi comunque per esprimere desideri, opinioni, autonomie, identità non più definite da coordinate spaziali, sia pure di spazi qualsiasi, quanto da una temporalità che aggrega e separa, che contiene e oltrepassa (per ogni istante: il presente che passa e il passato che si conserva, scrive Deleuze, ma l’attuale è il divenire stesso), che si costruisce per campi o per zone di aggregazione appunto temporanea. Questo, per esempio, porterebbe alla necessità di ridefinire il concetto stesso di geografia: quando si parla di ambiti territoriali dell’aggregazione (centri sociali, associazioni, cantieri, ecc.) e al tempo stesso di Rete, popolo di Seattle, ecc. cosa si intende esattamente? Non sono, piuttosto la velocità e la lentezza a opporsi ancora una volta – ma sullo sfondo di un capitalismo che, come è stato detto, rimane comunque “senza aggettivi” e antagonista come ben sa la “sinistra antagonista” sia pure nella sua parte non comunista per formazione: rileggere Il capitale fu la necessità più forte della generazione Sessanta/Settanta, come ricorda Negri, cosa leggeremo adesso? Non stupisce che qualche compagno suggerisca di rintracciare un filo rosso con le esperienze delle fabbriche torinesi negli anni di Gramsci, né che si possa parlare di nuovo di “impoverimento progressivo” della forza lavoro o di un ritorno a Marx -, come potremmo dire della velocità della comunicazione in Rete e della lentezza di altri tipi di informazione, della velocità dei ritmi produttivi e della lentezza della ricerca (basti pensare ai problemi non più rinviabili dell’Università), della velocità della produzione e della lentezza del quotidiano, come potremmo dire del cinema (e dell’immagine) americano o del cinema europeo di oggi, e ancora, come scrive Enrico Pugliese, di un capitale che rispetto alla curva ascendente della produzione delle merci immateriali che caratterizza la new economy – l’epoca della «riproducibilità tecnica delle merci» - «viaggia con una velocità prima impensabile», dove alla «velocità di circolazione corrisponde un pari processo di concentrazione», e, al suo opposto, della faticosa prefigurazione di una nuova economia che si proponga di arrestare i devastanti processi in corso attraverso proposte come la Tobin tax, la promozione e difesa di «attività produttive non profit il cui statuto teorico è ancora troppo vago», nuove politiche di welfare capaci di inventare nuove forme organizzative non solo della gestione dei servizi ma della vita sociale nel suo insieme, in nome del diritto a una migliore qualità della vita («il manifesto», 31 maggio). Come insegna la nuova antropologia, sono i “concetti liquidi” a segnare il passaggio dalla centralità delle radici (le origini, il problema dell’autenticità come concetti autoritari che corrispondono al domino dell’Occidente) ai processi di scambio, qualificati da un’inarrestabile logica “innovazione/conflitto”, proposti dal meticciato e dalla globalizzazione (Massimo Canevacci) – ed è ovvio come s’intreccino qui, nelle dinamiche che governano i processi costituitivi di nuove identità, problematiche, che vanno individuate e valorizzate al tempo stesso, relative alla rappresentazione e al riconoscimento, ma anche al riscontro di quelle corrispondenze necessarie al confronto e ai movimenti di costruzione e di crescita oltre che di decostruzione. Il dato caratterizzante delle culture sincretiche e globali che le definisce in quanto “radicali parzialità” piuttosto che in nome di universalità e generalizzazioni va dunque analizzato e considerato, mi sembra, in tutta la sua politicità: è soprattutto in questo senso, cioè, che dalle differenze (dunque dalle opposizioni, dunque dal conflitto) - già il movimento femminista ne aveva dato ampia dimostrazione - possono generarsi dinamiche realmente nuove e, oserei dirlo, eversive. Su «La rivista del manifesto» (gennaio) Luciana Castellina sembra dubitare che tra i desideri del popolo di Seattle ci sia quello di cambiare radicalmente le cose e il mondo, ma una questione cruciale e complessa come quella del rapporto con le tecnologie (dalla biotecnologie agli hackers) sembrerebbe far supporre il contrario. Semmai è proprio il rapporto con le tecnologie, che certo nessuno oggi, nemmeno il più ingenuo, oserebbe proporre come neutre, la cui centralità è riconosciuta da chiunque parli di new economy e di antiliberismo, che andrebbe considerato con maggiore attenzione in sé: se creatività e tecnologia possono infatti marciare di pari passo fino ad assimilarsi – lo dimostrano lo sviluppo di forme estetiche enunciate a partire dalla tecnologia, lo dimostrano pratiche televisive capaci di captare l’attenzione del pubblico proprio a partire dalla tecnica, lo dimostrano alcune aree, in verità ancora molto limitate, della ricerca (Università, Istituti di ricerca), e tutti gli aspetti democratici della comunicazione in rete (la stessa idea hacker di comunicazione si definisce come «orizzontale, decentrata, non gerarchica né autoritaria, non controllata né censurata», lo recita il manifesto hacker ’99, il concetto di «Lavoro in Rete» è una «pratica che non ha frontiere, né conosce etnie e che quindi per sua natura non può fare altro che opporsi attivamente a qualsiasi logica di guerra»), lo dimostrano infine le forme stesso del meticciato che fondono (appunto nel segno della liquidità), fondandole sull’urgenza di esprimere piuttosto che di rappresentare, di mischiare più che di rendere vero, tradizione e tecnologia -, la costruzione di nuove soggettività sembra avere come prezzo la negazione della soggettività stessa in quanto imprescindibile momento di presa di coscienza, di assunzione di responsabilità. Non si tratta qui evidentemente di riproporre cogito cartesiani, ma di cercare di comprendere perché mai il rifiuto del pensiero individualista e autoritario occidentale porti la sinistra alla negazione di ciò che il femminismo, mettendo un segno di importanza epocale ma al tempo stesso destinato al fallimento con lo slogan il personale è politico, slogan che il movimento del ’77 cerca di far proprio generalizzandolo all’intero vissuto sociale, aveva indicato come snodo non eludibile per la realizzazione di una nuova saldatura tra soggettività e politica, insieme e prima del rifiuto stesso della politica. Una soggettività, certo, sempre più difficile da definire socialmente e sempre meno identificabile con l’antica coscienza dello sfruttamento oggi appesa (ma non per questo azzerata come dicono alcuni) ai due poli estremi di modi di produzione sempre più parcellizzati e legati a logiche sovranazionali da una parte (e si è visto come l’incremento del Pil non corrisponda affatto ad un aumento di ricchezza o di occupazione della forza lavoro o a un incremento della spesa sociale, basti guardare alla situazione del Mezzogiorno) ma caratterizzati da condizioni di lavoro molto vicine a quelle dei duri anni Cinquanta che avevano preceduto la stagione delle grandi lotte e delle conquiste sindacali ed operaie, come dimostrano ogni giorno l’altissimo tasso di incidenti e di mortalità sul lavoro e le, invero oggi non numerose, inchieste condotte nelle fabbriche italiane (cfr. l’indagine Fiom – una Fiom che sta per compiere 100 anni -negli “storici” stabilimenti Fiat di Mirafiori e Rivalta, ma anche le condizioni dei lavoratori immigrati nelle piccole imprese fatti oggetto delle più pesanti discriminazioni, per non parlare del lavoro nero; cfr. anche Cremaschi, Zipponi, «il manifesto», 19 luglio). Una soggettività difficile da definire anche politicamente, se è ragionevole affermare, per esempio, che su una questione come la flessibilità del lavoro si incrociano le esigenze produttive del postfordismo e le contraddittorie riflessioni della sinistra sulle sue potenzialità democratiche (sull’onda lunga del rifiuto del lavoro?), come in qualche modo sembravano adombrare gli stessi interventi di Gigi Sullo su «Carta» e su «il manifesto» a proposito del dibattito sul job on call alla Zanussi (L’esclusione e le sue frontiere, «il manifesto», 18 luglio). Sullo, pur non auspicandone l’approvazione, si interrogava su quali nuove possibilità e fisionomie avrebbe dischiuso tale eventualità, tutt’altro che remota nelle sue previsioni, vedendo in essa un ulteriore segno della necessità (e questo in contrasto con Rossanda, Il punto cruciale resta il lavoro, «il manifesto», 11 luglio) di spostare il conflitto dalla fabbrica alla società, affiancando «alle mille forme di lavoro autonomo, precario e in affitto, altri modi della relazione sociale, altri passaporti utili a riscuotere protezione sociale»: una strategia che muove da quello che egli definisce un «ambito territoriale» scelto sì dal capitale ma in cui le relazioni tra persone e gruppi sociali sono «a portata di sguardo», la città piuttosto che la grande fabbrica, «cittadinanze plurime» piuttosto che l’«uniformizzazione» fordista. Ma il voto alla Zanussi è un No politico, che raccoglie il 68 per cento dei voti rispetto a un 84 per cento di partecipanti al referendum: «la lotta al neoliberismo ha trovato un pilastro nel rifiuto operaio della flessibilità selvaggia nell’uso della forza lavoro», commenta Paolo Cacciari, che aveva mostrato in precedenza tutti i rischi di questa «apoteosi della flessibilità» rappresentata da un lavoro a chiamata che, facendo soprattutto leva sui bisogni dei lavoratori immigrati (in primis il permesso di soggiorno), realizzerebbe «il sogno di ogni padrone: il pagamento a prestazione della forza lavoro», finendo con il capovolgere l’idea stessa di contrattazione articolata (L’antiliberismo operaio e Chiama il lavoro: www.carta.org/editoriali, 20 luglio). Del resto il dibattito che da qualche mese prepara e anticipa, con punte delicate e preoccupanti come il caso Agostinelli, i temi del prossimo congresso Cgil ci sembra estremamente indicativo se non di una vera spaccatura - ma è innegabile che una larga parte del sindacato mostri di voler proseguire in una politica subalterna della cogestione e del rispetto delle compatibilità (cfr. appello per Agostinelli, «il manifesto» e «Carta», 2 settembre) -, di un certo disorientamento accanto ad alcune importanti consapevolezze da parte delle forze sindacali alla vigilia di quello che sembra profilarsi come un autunno piuttosto caldo. Quella che Agostinelli chiama «sovraesposizione politica» del sindacato, riflette a suo parere proprio il «disancoramento della politica dal lavoro», la difficoltà dei rapporti tra partitit e organizzazioni dei lavoratori, finendo con l’oscurare, di necessità, quella che è oggi la necessità imprescindibile di costruire nuove consapevolezze rispetto ai profondi cambiamenti che nell’era della globalizzazione investono l’organizzazione del lavoro, lo Stato, la socialità, producendo una divaricazione crescente tra produttività e redditi, una mortificazione dei modi di lavoro e della qualità della vita. I temi che il segretario della Cgil lombarda individua come essenziali per la discussione del Congresso condensano con estrema lucidità e consapevolezza le problematiche emergenti nell’ambito del modo di produzione postaylorista, dove il controllo dell’articolazione delle prestazioni non può più essere riassunto dal Consiglio di fabbrica come espressione di un punto di vista antagonista, ma dove occorre comunque rintracciare le «coordinate attorno alle quali ricomporre lo spettro dei lavori frammentati da un incrocio tra lavoro dipendente, parasubordinato, indipendente ma pur sempre subordinato ed eterodiretto». Una lotta «contro la precarizzazione e per l’estensione dei diritti», una lotta in grado di riagganciare i salari alla produttività e contro la monetizzazione dei diritti, una lotta che abbia come obiettivo la creazione di strumenti «che prevedano una funzione pubblica di ridistribuzione, ma anche di programmazione dello sviluppo» e rispetto alla quale lo strumento non può più essere la semplice concertazione, ma le politiche dei governi e della Banca Europea, un maggior ruolo dello Stato nell’economia, la partecipazione dei lavoratori. Proprio la Carta Europea dei Diritti Fondamentali può, scrive Agostinelli, rappresentare l’occasione per un’azione comune dei sindacati europei rivolta ai diritti sociali oltre che civili. È ancora una volta il problema dell’unità ad inquietare, un problema che va al di là degli schieramenti di maggioranze e minoranze. Non si tratta di insistere sul vecchio concetto delle rappresentanze, ma nemmeno di partire dalle cosiddette autonomie semplicemente sganciandole dalle logiche di sviluppo (il passato insegna) senza chiedersi quanto l’articolazione di strategie antiliberiste possa essere possibile a partire da una concezione della politica in cui la libertà appare «divisa nel relativo affrancamento dei singoli» e che, in questo non si può non dar ragione a Rossanda, sembra ignorare che l’energia con la quale il padronato «tenta di offuscare l’importanza del lavoro dipendente è pari soltanto a quella che impiega per negarne i diritti: sarebbero il salario, l’orario, le normative, i sistemi previdenziali che impedirebbero al capitale europeo di competere sul piano mondiale» («il manifesto», 11 luglio). Il processo di alienazione della forza lavoro dal proprio prodotto, che in Italia giunge a compimento negli anni del boom generando la nuova figura dell’operaio massa (non è stata proprio la forza lavoro del Sud la “garanzia” di quel salto economico e, al tempo stesso, la protagonista dell’invenzione di comportamenti nuovi costruiti non sull’ideologia ma sulla materialità dello scontro?), può dirsi oggi sublimato nell’illusione di una riappropriazione del lavoro stesso attraverso l’atomizzazione dell’impresa o attraverso la definitiva rimozione del lavoro dall’identità del singolo. Già le avanguardie storiche avevano compreso nelle loro folgoranti intuizioni le potenzialità titaniche racchiuse nel rapporto nuovo che il mondo moderno andava istituendo tra la macchina e l’uomo e pronte a sprigionarsi - come già avevano svelato quegli stessi studi sul movimento che avevano portato, coniugando tecnologia e desiderio, alla nascita di un cinematografo pronto a catturare vedute ma che avrebbe di lì a poco registrato le opere e i giorni della Rivoluzione d’Ottobre ma anche, e in diretta, l’alito della morte nelle trincee e nei campi di sterminio -, attraverso l’inferno della fabbrica e gli orrori della guerra, seducendo uno sguardo sempre più ansioso di sapere, attraverso lo sferragliare di una locomotiva o la potenza dei pistoni o l’ampiezza di una veduta aerea (è proprio a partire dalla macchina, una apparecchio che cattura la realtà, l’aviazione che sorvola gli spazi, che Paul Virilio può affermare che cinema e guerra sono la stessa cosa). Una scoperta che operava ancora come opposizione: il rapporto uomo/macchina, si traduceva nell’esplorazione dei confini tra due mondi, una macchina-vapore-modernità che trasforma, assoggettandola ma al tempo stesso ponendo le premesse per la sua liberazione, la forza lavoro. Una scoperta che la fabbrica, ma anche la macchina bellica, estende alla società, marchiando, almeno nell’Italia del dopoguerra, il passaggio da un’economia rurale al taylorismo delle metropoli del Nord e le cui punte, estremizzando, possono essere considerate, sul piano della proposta politica, rispettivamente la “via italiana al realismo” e la riscoperta della questione meridionale e quelle “isole” in cui il controllo operaio elabora appunto il “rifiuto del lavoro”. È davvero possibile, chiedeva Rossanda rispondendo a Marco Revelli e Aldo Bonomi, pensare, come gli autori sembrano sostenere («La rivista del manifesto», aprile) a una società diversa all’interno dell’attuale, «per isole o zone liberate, dentro al reticolo dei rapporti di produzione esistenti», e che possa prescindere dal problema dell’abbattimento del modo di produzione capitalistico? La domanda è “senza confini” e mi rimbomba nel cuore. C’è chi tenta, come Alberto Burgio, di rilanciare le varie note rossandiane, operando una sistematizzazione di schieramenti e aree, isolando le ragioni obiettive e soggettive nell’ambito della sinistra storica (dalla progressiva scomparsa al suo interno del quadro operaio al generale arretramento della lotta di classe in Italia dalla seconda metà degli anni Settanta in poi), ma anche quelle della sinistra «critica» che, in alcuni suoi consistenti settori, abbandona appunto la centralità del conflitto tra capitale e lavoro: da chi ritiene inscindibile il lavoro dalla vita e dunque con una prassi sociale come fonte di valore di per sé, a chi, guardando alle «nuove realtà del “lavoro immateriale” ha del lavoro un concetto forse problematico, non facilmente saldabile al tema della soggettività antagonistica, della classe», a chi, infine, sulla scorta di Rifkin, parla di «fine del lavoro» e di «obsolescenza del conflitto di classe» (ma l’autore non manca di enumerare anche le posizioni di quanti parlano di «irrilevanza dell’attività produttiva ai fini della costituzione del soggetto» o di una frammentazione della classe salvifica nel senso di una sua autonomia dal capitale e per questo «non più interessata a contrastarlo»). Non solo una negazione, per Burgio, delle ipotesi marxiane, ma un vero e proprio «abbaglio» che si alimenterebbe di generalizzazioni arbitrarie come quella della «scomparsa (in realtà solo tendenziale e geograficamente limitata) delle tute blu e la dispersione della forza-lavoro lungo le filiere della microimpresa e del sommerso». Se l’intervento adombra ancora un certo ottimismo rispetto al problema delle forme del conflitto e della sua organizzazione, vi si riflettono consapevolmente dubbi e disorientamenti ma anche «timidezza, paura di scoprirsi soli o in scarsa compagnia a sostenere ipotesi e persino ad avanzare interrogativi in controtendenza rispetto alle convinzioni dei più» («il manifesto», 16 luglio ). Questo mi spinge a un’ulteriore riflessione, se cioè la frammentazione, l’inapplicabilità attuale di metodologie consolidate, magari attinte ad ambiti diversi, all’ambito della politica non equivalga a movimenti analoghi registrati nei luoghi della ricerca e della produzione di teoria in generale. Come dire, anche se rischia di essere un gioco di parole, che la politica adesso non possa essere altro che pensare la politica stessa e il suo essere, insieme, ma sempre più in momenti separati, modo regola scienza arte tecnica di governare il mondo. Ecco perché, forse, Deleuze, in Che cos’è la filosofia?, individuava nella filosofia, nell’arte, nella scienza «i tre aspetti in base ai quali il cervello diviene soggetto», in quanto facoltà di creare concetti, spirito nel medesimo tempo in cui «il concetto diviene l’oggetto come creato, l’evento o la creazione stessa, e la filosofia il piano d’immanenza che porta i concetti e traccia il cervello». La politica, invece, in un mondo sempre più nel segno delle mescolanze e delle minoranze, è dappertutto ed è sempre più difficile, come molti affermano, delimitarla, marxianamente, come forma della lotta di classe. Perché «la sola cosa che sia universale nel capitalismo è il mercato» e non uno Stato democratico: per quanto i modelli degli stati nazionali possano essere eterogenei «essi non sono meno isomorfi rispetto al mercato mondiale, in quanto questo non presuppone soltanto, ma produce ineguaglianze di sviluppo determinanti». Ecco perché, conclude Deleuze, gli stati democratici sono comunque legati agli stati autoritari, ecco perché «la difesa dei diritti dell’uomo deve necessariamente passare attraverso la critica interna di qualsiasi democrazia». Ecco perché, forse, la Rivoluzione va interamente ripensata come evento globale rispetto al quale la “stagione” delle lotte in Europa (per l’Italia basti già pensare a quella prima rivoluzione tradita che fu il Risorgimento italiano, e alla Resistenza e alla rivoluzione imminente immaginata dai sessantottini) può forse dirsi irrimediabilmente sconfitta, può essere ripensata appunto nella consapevolezza della alterità dei luoghi possibili e delle componenti in gioco. Così come è quanto meno ingenuo pensare a una filosofia della comunicazione che ipotizzi di tornare, come dice ancora Deleuze, a una società di saggi «formando un’opinione universale come “consenso” capace di moralizzare le Nazioni, gli Stati e il mercato»: chi può, infatti, «contenere e gestire la miseria, e la deterritorializzazione-riterritorializzazione delle bidonvilles se non poliziotti e eserciti potenti che coesistono con le democrazie? Quale socialdemocrazia non ha dato ordine di sparare quando la miseria esce dal suo territorio o ghetto?». Torniamo allora all’irriducibilità (perduta del tutto?) dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, torniamo al problema della scomparsa della politica. Le domande mi si moltiplicano: cosa può significare per esempio parlare di politica in quanto tecnica alla luce delle nuove declinazioni del rapporto soggettività tecnologie? Potremmo dire, semplificando ed estremizzando, che la prima ormai sia patrimonio degli Stati e delle rappresentanze politiche (comprese le sinistre storiche), mentre il secondo sembra definire il costituirsi stesso dei soggetti, quanto meno per quanta riguarda i flussi di informazione dai quali questi si trovano ad essere investiti e ogni tipo di professionalità legata a interventi territoriali che presuppongano una capacità di gestione del confronto e dello scontro. La tecnologia, si sa, è ormai tutt’uno con i corpi, essa propone una flessione estetica ma anche una flessione funzionale, dalle cosiddette macchine del visibile al corpo appunto protesizzato, a, se vogliamo spostarci agli aspetti più macabri della politica, quelli che non risparmiano il sacrificio e l’orrore celati dai suoi stessi misteri, ai corpi dei marinai del Kursk (che chiedono una giustificazione più complessa delle tecnologie desuete dell’ex-URSS che minacciano il il Mar di Barents, il Mar di Kare, la Nuova Zemlia e che sono tutt’uno, e al tempo stesso Altro, dalla rappresentazione che il cinema della Rivoluzione aveva dato del rapporto tra Uomo e Natura, evidenziando, Ejzenštejn, la “non indifferenza” di quest’ultima, le forze generatrici - le parti, il Tutto - della spirale ininterrotta di un’organicità che permea la natura quanto l’opera d’arte, cantando, Vertov, l’utopia di una concezione dell’organico e della materia capace di creare luoghi immaginari e concreti – Mosca, Kiev, Odessa –, di unire insieme l’occhio meccanico e sovrumano della cinepresa e le gambe della rivoluzione – le donne, gli uomini, le macchine – nella nuova didattica, un cinema non scritto, non recitato, della Dittatura del proletariato). Ecco dove ci sembra debole l’intervento dal quale siamo partiti: quando Dino e Alfonso sostengono che gli immigrati di Brescia e di Roma «non si sono mossi su linee di alterità e contrapposizione culturale», come sembrerebbe invece supporre Sullo («il manifesto», 25 giugno), ma secondo un movimento che gli autori definiscono provocatoriamente «per l’integrazione (…) non nel senso dell’assimilazione subalterna, ma della rivendicazione di uno status di esistenza giuridica e quindi dell’ingresso nella sfera dei diritti formalmente condivisi dagli italiani e, in subordine, dagli stranieri “regolari”. È un movimento di “diversi” per l’uguaglianza, fatto di persone che sognano ciò che sogna un qualsiasi disoccupato in miseria (…) staremmo per dire che è un movimento proletario, nel senso della coscienza di sé come lavoratori nella fabbrica-mondo», toccano lo snodo cruciale del discorso, che è quello che li rende lontani dalla lettura di Sullo e vicini al tempo stesso, cioè lo snodo delle nuove forme del lavoro e del lavoro operaio, le sue nuove coordinate spaziali e temporali, il suo qui ed ora, ed è per questo che, se si vuole andare al di là dell’appello, quanto affermano è fragile di per sé. Ma, come ho
detto, la parola chiave del titolo era per me la parola chiave di quella
notte in Rete: la parola solitudine, i compagni italiani che il 2 giugno
si contano in piazza sulla punta delle dita, la solitudine, appunto, della
lotta degli immigrati, la contrapposizione tra quotidianità politica
e riflessione teorica, lo scollamento tra l’impegno dei singoli (spesso
tali per necessità) e i bisogni del movimento, nonostante l’esplodere
continuo di contraddizioni, nonostante la velocità con cui questi
giorni passano senza che vi sia alcuna vera tregua.
L’ultimo giorno del mese: a Roma i kurdi e le associazioni protestano davanti l’ambasciata turca, mentre nel silenzio di una città ancora quasi deserta gli immigrati, che non hanno mai cessato le loro attese ai commissariati di zona, fanno i conti, e ancora da soli, con la marcia indietro del governo, fanno i conti, in tutta Italia, con le retate degli irregolari, col silenzio dei mezzi di informazione, con la violazione reiterata e tutt’altro che sommessa dei diritti sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Fulvio Vassallo, paleologo, www.nonluoghi.org/immigrati.html, 20 luglio), col rigetto delle richieste di asilo dei profughi e delle vittime della pulizia etnica, come kurdi e kossovari, con le espulsioni. Corpi all’ammasso, corpi affamati, provati, infreddoliti, come quelli che sbarcano dalle carrette del mare e dai gommoni, uniti, come quelli dei manifestanti di Philadelphia, un solo corpo che inventa tecniche di resistenza, di guerriglia urbana, legarsi insieme per non essere divisi e dispersi dalle forze dell’ordine che oppongono alla loro capacità di organizzarsi a distanza, alla loro mobilità quella delle biciclette. Ancora velocità, mentre la legislazione che dovrebbe tutelare gli asilanti va a rilento, e i mezzi di informazione continuano a chiamare i profughi clandestini. I passati anni Novanta, gli anni della globalizzazione e del consolidamento planetario del capitale, gli anni dell’Impero, che potremmo definire gli anni della resistenza al liberismo, della lotta per i diritti degli emarginati e degli oppressi, delle lotte dei disoccupati e degli immigrati, delle aggregazioni temporanee e dei movimenti parziali, vengono visti da molti pensatori francesi come anni oscuri, anni di attesa, anni che annunciano l’evento, la rottura, il cambiamento (così come la filosofia di Althusser o gli scritti di Lacan, che rileggono Marx e Freud, o i comitati per il Vietnam, lo spostarsi del dibattito politico in sedi diverse da quelle tradizionali, le tensioni che attraversano il blocco socialista e oppongono Cina e URSS preparerebbero in un certo senso l’evento ’68). Gli scioperi del ’95 in Francia, vissuti genericamente, oscuramente per Badiou, come resistenza al liberismo, articolati intorno al concetto di servizio pubblico e dei diritti dei lavoratori, il movimento dei disoccupati e dei sans papier, costituiscono zone di precarietà, movimenti parziali, corrisponderebbero alla costruzione di siti evenemenziali possibili ma non ancora ad eventi (Alain Badiou, Manifeste pour la philosophie). Da qui la necessità di insistere sull’importanza della distanza della politica dallo Stato e delle lotte dai canali rivendicativi istituzionali: sarebbe questa una delle indicazioni più fertili del ’68, è l’immaginazione al potere, è, anche, scrivere non importa cosa: «ognuno aveva qualcosa da dire, da scrivere (sui muri); ma cosa? Questo aveva poca importanza. Il dire sovrastava il detto. La poesia era quotidiana», scrive Blanchot a proposito del ’68. Non a caso uno dei propositi più pressanti del movimento era quello dell’invenzione di una nuova politica, anche se il più delle volte il primato sarebbe andato all’ideologia. In quell’evento, la cui virtualità prescindeva dallo stato stesso delle cose, la filosofia era davvero un vuoto, esso si attualizzava nei corpi, nei vissuti, e tuttavia conservava quella che Deleuze chiama una parte «ombrosa e segreta che non cessa di sottrarsi o aggiungersi alla sua attualizzazione: al contrario dello stato delle cose, non comincia né finisce, ma ha raggiunto o conservato il movimento infinito al quale dà consistenza». Quella mobilità si esprimeva attraverso spostamenti (uscire dalle scuole), inchieste, immissioni in nuove realtà (anzitutto le fabbriche), ricerca di alleanze. Oggi ci muoviamo, mi sembra, secondo altre direttrici, è la globalizzazione stessa a legittimare, in un certo senso, i nostri spostamenti: ma, è lecito chiedersi, questi implicano di per sé delle trasformazioni? Mentre una parte sempre più ampia del mondo sogna/costruisce di fatto un mondo senza confini, le politiche economiche oscillano tra misure protezionistiche e processi di integrazione, dove appunto la auspicata (dal capitale) flessibilità del lavoro si configura come imbuto a due aperture che oppone lavoratore e datore di lavoro. E, ancora, i nuovi spazi urbani di aggregazione nei quali crescono e si moltiplicano le autonomie, costituiscono indubbiamente un salto in avanti rispetto a quel processo che i CPM avevano definito «rivoluzionario globale e politico culturale»: ma ne sono protagonisti non più e non solo genericamente un movimento quanto nuove soggettività che è difficile riassumere in garantiti e non, trattandosi di immigrati, asilanti, giovani disoccupati, emarginati, artigiani, lavoratori autonomi, ecc. Nuove soggettività che, scrive Rossanda, non si proporrebbero né il rovesciamento né la correzione riformistica delle grandi tendenze liberistiche: esse sarebbero interpreti non di «antiche radicalità» ma di «nuove reazioni al divenire della produzione rivoluzionata dalla tecnologia e dalle nuove società di mercato» («La rivista del manifesto», gennaio). Dal rifiuto del lavoro, dunque, al rifiuto della politica. Così diciamo il popolo di Seattle piuttosto che il movimento di Seattle, diciamo il movimento degli immigrati e non il movimento, o meglio il movimento è antiliberista. Non si tratta di perderci nelle definizioni. Anche se nel mese dei cruciverba sulle spiagge sarebbe lecito farlo. I luoghi - quelli di cui parla la “sinistra diffusa” - si definiscono come luoghi dell’incontro, dell’organizzazione e dello scontro, sono mobili e interscambiabili, appuntamenti, fissati dai vertici internazionali o dalle vertenze - e stupisce solo a un certo punto che proprio a Seattle, forse per la prima volta nella storia dei movimenti negli Stati Uniti, siano stati gli operai ad avere una netta maggioranza, gli operai e i sindacati: ma centralità del problema del lavoro oggi significa anche, come scrive Castellina, il problema del Sud del mondo, e della concorrenzialità degli schiavi bambini venduti per lavorare 16 ore al giorno. La terra diviene allora «memoria dei popoli, la geografia riprende i suoi diritti». Così c’è stata, nel passato, un’analoga, inversa, corrispondenza tra assenza della classe operaia nei movimenti americani e sviluppo dei Cultural Studies che hanno al loro centro questioni come i generi, la razza, le classi sociali. Così, almeno negli Stati Uniti, il movimento femminista non è stato emarginato o ghettizzato dalla politica come dalla teoria. Sono elementi, tutti, sui quali dovremmo riflettere. I luoghi si definiscono come cantieri, anch’essi pure virtualità lungo le quali però si muovono i corpi vivi e sofferenti dei protagonisti, sfruttati, schiavi - come afferma Kevin Bales («il manifesto», 3 settembre), meno che merce di poco prezzo, come li avrebbe definiti Marx, ma «”immissioni” nel processo produttivo», un cambiamento drammatico nella storia della schiavitù: non si tratta più di comprare «un’attrezzatura di importanza vitale per il ciclo lavorativo», quindi da tenere in vita, ma di comprare una «penna di plastica usa e getta» -, produttori di ricchezza come gli emigranti sono da sempre, ma in condizione adesso di creare valore grazie al semplice trasporto della loro stessa carne, che sia viva o morta, che serva a produrre lavoro o soltanto organi. Centralità dei corpi. Non posso non pensare, in queste notti solitarie, al mio corpo. Non posso non chiedermi, come molte altre donne, «dove sono?» Credo di avere diritto di pormi e porre questa domanda e non solo in virtù della ormai lontana militanza femminista. Sento il bisogno di dare un senso a questa mia invisibilità che è anche l’invisibilità di molte altre donne. La mia “collocazione sociale”, il mio fare ricerca in una Università, rispondono solo in minima parte a questa domanda non più rinviabile. Se Rete significa anche nuovo modo di comunicazione della politica e nella politica – tecnologia e creatività appunto, tecnologia e, mi piace dire, utopia piuttosto che democrazia – forse ho anche il diritto di scrivere questa lettera, anche impiegando più di una notte, anche leggendo le lettere e gli interventi dei compagni, quelli che conosco e quelli che non, col batticuore, col timore di raccontare soltanto, di riassumere soltanto, di comprendere solo in parte. Ma questa solitudine non è quella che ricordo e rincontro sfogliando le Lettere dal “movimento” a «Lotta continua» (1978, complemento del titolo: cari compagni, … saluti non a pugni chiusi perché a stò punto non so che significa), non è la solitudine che nasce dalla delusione e dalla disperazione di chi non vede più coincidere parole d’ordine e vissuto, personale e politico appunto. È una solitudine piena, consapevole, che intendo affrontare con la ragione prima che col cuore. Dove saranno quei compagni adesso? Dove sono io? La risposta sembra ovvia: molti “persi per strada”, altri riciclano le loro energie nelle attività e nelle associazioni di volontariato, altri cercano di fare il meglio che possono nel proprio ambito professionale, altri ancora continuano a fare politica nelle istituzioni o nel movimento, pochi – perché, i “quadri” sono pochi, come scrive Magri sull’ultimo numero della «rivista del manifesto», e perché i pochi militanti non hanno il tempo di essere quadri -, si interrogano sul che fare. Eppure, come si è visto, il conto non torna. Non conosco le divergenze e le incomprensioni che dividono e sfiancano i compagni, Ho il massimo rispetto per loro, e proprio per questo giro a loro la domanda. La “proposta” di Magri, che è altro dalla proposta Pintor, l’ultima in ordine di arrivo, parte da un’analisi consapevole e convincente della situazione politica nella sua globalità e dei nodi intorno ai quali si coagula o si arresta l’attuale dibattito delle sinistre. È una proposta che trova quella che chiamerei una proiezione speculare nelle stesse argomentazioni propositive dell’apertura di un «processo costituente, dall’alto e dal basso nel quale ciascuno manifesti la disponibilità a mettere in discussione qualcosa di sé, che via via produca una discussione permanente, cresca su esperienze reali e continuative, coinvolga forze diverse, organizzate in varia forma o non organizzate affatto»: non è un caso che Magri usi il termine processo costituente e non processo di aggregazione pur individuando quali luoghi e soggetti di esso, o almeno così mi sembra, quelli che sono espressione del movimento piuttosto che delle rappresentanze politiche o sindacali. Se l’«obiettivo esplicito» è quello di approdare ad «una nuova e vera “forza politica”», le domande più urgenti sono certo quelle sulla via da percorrere, piuttosto che sulla forme di una tale forza, cioè, secondo Magri, l’articolazione di alcune ipotesi complessive caratterizzanti e a partire dalle quali costruire il confronto. Ipotesi che devono fare i conti con una mancanza che affonda le proprie radici nella storia stessa del movimento operaio organizzato ma che è oggi suggellata e rafforzata da un’ideologia dell’esodo dalla politica che troverebbe la sua ragion d’essere nella durezza dello scontro, nella forza del “pensiero unico” del capitalismo attuale. Un capitalismo capace di scomporre classi, territori, soggetti e di manipolare il corpo sociale. Se la critica dell’economicismo, della politica, dello statalismo esprimono e riassumono le nuove contraddizioni, le nuove tensioni ideali, la storia stessa dei movimenti, la storia del Novecento, dimostrerebbe la necessità epocale di un progetto che li sostenga e li superi per costruire un’alternativa reale: «un progetto e una pratica che si contrappongono a un assetto capitalistico storicamente determinato – neoliberista e neoimperiale» per modificarlo, e proprio per questo, suggerisce Magri, politiche nel senso gramsciano , cioè capaci di elevare la lotta di classe a un «livello etico-politico». Magri traccia alcune linee possibili di questa strategia comune, in linea, mi sembra, con quelli che sono i punti oggi più discussi e di “consenso” nell’area antiliberista. Ma il problema di fondo rischia di rimanere irrisolto e lo scritto di Magri sembra avere più gli esiti di un appello che quelli di una proposta, sembra guardare alle dinamiche degli equilibri politici esistenti piuttosto che ai vuoti angosciosi che separano le nostre esperienze, quei “buchi” nella Rete che ci impediscono di saldare le battaglie di ogni giorno - quelle che per molti, per i più deboli, vogliono dire la sopravvivenza -, alle analisi di lungo respiro. Forse soltanto moltiplicando le discussioni e gli incontri potremo venirne a capo. Fose non semplicemente cercando altri spazi, ma aprendo i nostri, quelli nei quali ci impegniamo ogni giorno, o creandone di nuovi. Credo che ci sia anche, in molti di noi, qualcosa di più irrazionale e sotterraneo con cui dobbiamo fare i conti, che non è semplicemente il rifiuto della politica, ma il rifiuto della delega (tutt’altro che nuovo mi sembra), e in definitiva dell’organizzazione, anche se soltanto per fare una manifestazione occorre organizzarsi. Forse si tratta davvero di costruire delle nuove soggettività e non semplicemente di nominare nuovi soggetti. Poche decine di militanti (certo, era fine agosto) hanno manifestato giorni fa per la Colombia di fronte all’ambasciata americana a Roma. Un giornalista scherzando mi ha detto: siete sicuri di non aver nuociuto alla Colombia facendo vedere quanti pochi eravate? È una battuta, ma amara. Ma anche un problema più “vicino” come quello dei profughi kurdi non soltanto non trova ancora alcuna soluzione politica, ma non registra nessuna presa di posizione coraggiosa e chiarificatrice che non sia quella delle associazioni. È di questi giorni l’ennesima dichiarazione antiprofughi («bisogna respingere le navi ed espellere gli immigrati indesiderati», dichiara Chiaravalloti) che spinge i sindaci di Badolato e Soverato e il presidente della Provincia di Crotone a ribadire invece la loro posizione di solidarietà e di sostegno. Perché nessun Comune italiano si propone quale promotore di una autentica trattativa di pace presso le Nazioni Unite? Ha qualche speranza, la mia, di non restare una domanda retorica? Posso chiedere questo, ex-cittadina di Palermo, al Primo Cittadino di Palermo, città della tolleranza e dell’accoglienza, città che oggi ha preso pubblicamente le difese di Rocco Derek Barnabei candidato alla pena di morte e vittima di un sistema di discriminazione che ha contato tra i tanti morti, in un’altra estate lontana, due immigrati come Sacco e Vanzetti? Molte cose possono unire la gente e non tutte passano attraverso la contrattazione più spicciola. Discutiamo, compagni, discutiamone insieme. «L’assenza è una distanza assoluta e incolmabile», ha scritto una femminista americana. Parlava dell’assenza delle donne. Sarebbe importante dire anche di questo, di un femminismo troppo spesso ricordato soltanto in quanto movimento nel segno della differenza. Eppure credo che pochi movimenti abbiano saputo discutere con altrettanta profondità della politica come concetto e come funzione, della politica e della società, della socialità e al tempo stesso dell’intimità dei corpi. Inutile ricordare qui e adesso come le donne continuino a esser parte della parte più debole del nuovo soggetto sociale: carne da macello che rende profitti in continua crescita, sfruttate in fabbrica e nel lavoro nero, oppresse, ancora, nelle struttura familiare, discriminate, nel quotidiano e nel privato, tradite, inascoltate, punite dalla giustizia dei tribunali per ogni loro moto di emancipazione, ricattate, esuli, mogli e madri in attesa di riabbracciare i propri cari, prigioniere, vittime delle torture e della guerra… Ecco perché è più facile parlare dell’anima delle donne, dell’alleanza che solo esse sono capaci di proporre, «fatta al tempo stesso di corpo e di parola», del loro respiro, perché, come dice Luce Irigaray, «respirare è il primo gesto di autonomia del vivente» (Luce Irigaray, Il respiro delle donne). Parlarne non significa, care compagne, relegare le donne sul piano della spiritualità, o scivolare nell’ambigua cancellazione della loro socialità. Non mi piace pensare a un mondo in cui le mense e gli asili soddisfino i nostri bisogni e bastino ai nostri bambini e in cui tutti si sia sollevati dalle “inutili” attività domestiche. Voglio pensare piuttosto a un mondo in cui tutti possiamo liberamente scegliere di impegnarci o meno, e se sì con soddisfazione e rispetto, donne e uomini, non più irrimediabilmente divisi tra la fabbrica e il supermercato, tra i libri e le torte di mele. Un intellettuale-padre-di sinistra (che era riuscito ad avere i figli in affidamento togliendoli alla sua compagna in nome dei pari diritti) scrisse una volta all’avvocato della parte avversa: perché mai un intellettuale come io sono dovrebbe perdere il suo tempo a spignattare? Mi rifiuto di considerare persa la vita delle nostre nonne e delle nostre madri, i prodigi delle loro dita, le sofferenze che costava il loro silenzio, le punizioni che si abbattevano sulle loro ribellioni o soltanto sulle loro disubbidienze, la forza che hanno saputo tramandare. Non voglio né posso dimenticare le donne che ancora vivono non libere nella maggior parte del mondo, ma non ho alcun modello da proporre loro, se non la diversità della cultura cui appartengo. La prima alleanza sarà allora nel segno semplice ma faticoso della pace, la seconda in quello della lotta a un capitalismo che rende tutte e tutti figli della violenza, la terza infine, ma non in ordine di importanza, la nostra identità di donne. Ho manifestato
il 2 giugno a Roma, l’8 luglio al gay pride, il 27 luglio davanti al Serraino
Vulpitta, ma non mi sentivo nulla di più che una compagna di strada.
Cosa preparano i siti evenemenziali, le zone di precarietà, la radicali
parzialità dei nostri movimenti, il «Menù alla Carta»
- pronti a scegliere tra Praga, Nizza, Porto Alegre da settembre a gennaio
-, che «Carta» propone ai suoi lettori per i mesi che verranno?
Questa lettera è forse anche un monologo, ma intende essere soprattutto
un appello. Un appello a riprenderci la vita riacquistando un posto nel
mondo. Un appello alla solidarietà e alla lotta. Un appello all’amore
anzitutto per le cose che facciamo e per le persone che ascoltiamo e che
ci ascoltano, e per quelle che chiedono. So che è il momento di
concluderla: facendolo, mi scuso per la sua lunghezza ma anche per le cose
inevitabilmente tralasciate. È la mia estate, forse la nostra estate.
Forse anche un modo per non sentirmi sola. Ribattezziamo allora le parole.
Solitudine, ma anche Rivoluzione. Lasciatemi ancora una citazione. Scrive
Deleuze (riandando a Kant): il concetto di rivoluzione sta innanzitutto
«nell’”entusiasmo” con il quale è pensato su un piano di immanenza
assoluta, come una presentazione dell’infinito nel qui-adesso, che non
comporta nulla di razionale o di ragionevole», come dire, di nuovo,
della distinzione tra stato delle cose e avvenimento, una autoreferenzialità
della rivoluzione che fa sì che «nulla nello stato delle cose
o nel vissuto possa attenuarla, neanche i disinganni della ragione. La
rivoluzione è la deterritorializzazione assoluta nel medesimo punto
in cui fa appello alla nuova terra, al nuovo popolo».
Giulia Fanara, Università di Roma «La Sapienza»
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o | Pubblichiamo
una lettera inviataci da Giulia Fanara, che ringraziamo: è
una lunga e articolata riflessione notturna sul movimento antagonista,
le sue potenzialità e le sue contraddizioni.
Una
lettera che ci sembra significativa in tempi di riattivazione caotica
(11
settembre 2000)
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