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Jack Kerouac, una tappa
verso il nulla nella battaglia tra generazioni
La critica americana al pregiudizio in
un ideale percorso da Hawthorne a Carver
«Mi stavo ubriacando e me ne infischiavo; ogni cosa andava magnificamente». Probabilmente questa potrebbe essere la frase - presa pari pari da "Sulla strada" - più indicata per ricordare Jack Kerouac a trent'anni dalla sua morte per cirrosi epatica dopo una breve vita di stravizi. Dal "Libro" (come Fernanda Pivano chiama "Sulla strada") però, io ne avrei annotate altre due, che mi sono piaciute molto di più. Perché mi sembravano più azzeccate a descrivere una traiettoria letteraria. La prima, Dean (che
poi sarebbe Neil Cassady) la pronuncia in Messico, appena passato il confine
con gli Usa: «Ora Sal (Kerouac stesso) stiamo per lasciarci tutto
alle spalle ed entrare in una nuova sconosciuta fase delle cose. Tutti
questi anni e i guai e le baldorie... e ora questo! Così che riusciremo
indisturbati a non pensare a nient'altro e semplicemente a proseguire con
le facce protese in avanti così, vedi, e comprendere il mondo come,
per parlare realmente e genuinamente, altri americani non hanno mai fatto
prima di noi...». Dean per il quale Sal-Kerouac nutre una sorta di
ammirazione estatica, quasi ipnotica, è attratto da ogni cosa. Vuole
vedere tutto. Vuole annullare i pre-giudizi attraverso l'esperienza diretta.
C'è, in questa frase, un sottile attacco alla società americana
e alla morale prevenuta della quale è permeata. Pur rimanendo essenzialmente
ai margini del consorzio umano - anche nelle descrizioni - Kerouac lo critica,
ne rifiuta i principi, figli delle generazioni precedenti.
Per partecipare
al suo dolore o alle sue sensazioni. Nella sua corsa continua verso «quell'ultima
cosa» rimanendo ai margini della società reale americana del
tempo, Kerouac cerca una concreta risposta alle vulgate, all'accettazione
supina di modelli preconfezionati o al tentativo di scardinarli per imporne
altri, diversi ma pur sempre frutto della scelta di pochi su molti. Attraverso
l'autodistruzione vuole morire per com-prendere, com-patire e piangere.
Idealmente questo
percorso può essere fatto risalire alla metà dell'Ottocento,
quando Nathaniel Hawthorne scrisse il romanzo "La lettera scarlatta". In
quello scritto trasudano il conflitto generazionale e la ribellione all'assurdità
del pensiero unico come timone a barra fissa della vita di tutti. La "A"
di adultera che Hester Prynne, la protagonista del romanzo, è costretta
a portare sul petto per una figlia naturale della quale non volle mai rivelare
il nome, rappresenta il puritanesimo della società del tempo. Che
giudica e non comprende. Ma Hawthorne abitò quella società,
la visse (fu anche politico) e nutriva comunque fiducia. Tanto che La lettera
scarlatta apre anche alla possibilità che qualcosa cambi: «Negli
anni, stanchi e penosi, tutti dediti al bene, che conchiusero la vita di
Hester Prynne, la lettera scarlatta cessò di essere il simbolo del
castigo e del disprezzo per trasformarsi in segno di bontà e di
rispetto. E poiché Hester Prynne non era né egoista né
vana, ella diventò ben presto la consigliera di tutti i dubbiosi
e gli angosciati, che ricorrevano a lei come si ricorre a chi ha molto
vissuto e sofferto». Grazie alla vita vissuta, all'esperienza - anche
negativa - di qualcuno, tutta la cittadina di Salem poteva cambiare, aprendosi
e modificando i propri costumi e, soprattutto, i propri pre-giudizi.
All'inizio di
questo secolo un gruppo di scrittori aggiunse ancora una variabile a questa
denuncia: l'estraniazione. Nelle prime pagine del romanzo più famoso
di Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, Dasy, la protagonista, appena
nata sua figlia, saputo che era una bambina dice: «Sono contenta
che sia una bambina. E spero che sarà stupida: è la miglior
cosa che una donna possa essere in questo mondo, una bella, piccola stupida».
Stupida per non essere coinvolta in quell'alta società vagheggiata
per loro dai genitori ma in realtà formata da professionisti arrivisti,
egoisti, scialacquatori, contrabbandieri e gangster. Stupida per non capire
la vita, che i più intelligenti giudicano essere «una cosa
terribile». È appunto il principio dell'estraniazione dai
valori imperanti. Esplicitato da Ernest Hemingway, in "Fiesta", il romanzo-manifesto
di quel gruppo di espatriati (di cui faceva parte anche lo stesso Fitzgerald)
che Gertrude Stein - pur ospitandoli nella sua casa di Parigi - definì
la generazione perduta (lost generation). In un celebre dialogo tra il
protagonista Jake e il suo amico Bill, emerge con chiarezza l'inquietudine
e il profondo malessere di quel gruppo: «Tu sei un espatriato - dice
Bill a Jake-Hemingway, sui Pirenei per la pesca -. Hai perso il contatto
con la tua terra, stai diventando snob. I falsi valori ti hanno rovinato.
Ti stai ammazzando col bere. Ti fai ossessionare dal sesso. Passi il tuo
tempo parlando invece di lavorare. Sei un espatriato, capisci? Ciondoli
per i caffè». Poi, poco più sotto, solo poche righe,
lo stesso Bill-Don Steward aggiusta il tiro, si sfoga, liberandosi della
parte che sta giocando in quel momento, quella del maestro-scrittore. Ed
ammette che è meglio Jake, l'espatriato, piuttosto che i newyorkesi,
bacchettoni e pettegoli: «Tu sei un gran bravo tipo e io sono più
affezionato a te che a chiunque altro sulla terra. A New York non potrei
dirtelo. Significherebbe che sono checca. È per questo che è
scoppiata la Guerra Civile. Abraham Lincoln era checca. Era innamorato
del generale Grant. E anche Jefferson Davis. Lincoln liberò gli
schiavi per scommessa. Il caso Dred Scott fu montato dalla Lega antialcolica.
Col sesso si spiega tutto. La Colonel's Lady e Judy O'Grady sono lesbiche
mascherate».
Kerouac ed i suoi amici beat (battuti/beati) - è stato spesso scritto - hanno invece scelto di ignorare semplicemente questa società che non sentivano loro. Ed è sufficiente leggere "Sulla strada" per rendersi conto di come questa presa di posizione sia netta. Più di trecento pagine dedicate a viaggi assurdi, reali e metaforici, senza mai l'incontro con una parte di quella che è la quotidianità che la maggior parte di noi conosce: il mondo del lavoro, dello studio; gli sportelli di una banca; il supermercato. Niente (o quasi). Barboni, prostitute, cow boy autostoppisti, ciarlatani, ragazze madri abbandonate, venditori di droga: sono loro - i battuti - i protagonisti della strada. E Kerouac li descrive, ma soprattutto descrive le loro esperienze, la loro consapevole marginalizzazione. Matrimoni falliti, figli fatti nascere senza sapere come (e se) potranno essere mantenuti: nel caos del mondo non esiste passato e futuro, c'è solo un presente che va vissuto ognuno secondo l'unica regola: quella dell'esperienza diretta. Insomma: la
ribellione al preconcetto basato sui modelli imposti dalle generazioni
precedenti prosegue come un filo conduttore invisibile nelle opere di questi
scrittori ma in Kerouac - dopo la forte denuncia di Hawthorne, Twain e
quella di Hemingway e Fitzgerald - diventa essenzialmente un dato incidentale.
Dal quale si può evadere costruendo un proprio mondo passionale
e in certo modo mistico. «Che cosa state cercando?», chiese
un giornalista a Kerouac: «Dio, voglio che Dio mi mostri il suo volto»,
rispose lo scrittore. E poi via, a rincorrerlo sul bordo di qualche marciapiede.
L'autodistruzione
e la marginalizzazione porta Kerouac e i suoi vicino al nulla, ma ancora
manca un passo: l'alternativa presuppone qualcosa, non il nulla. E quel
passo, a mio avviso, lo ha compiuto Raymond Carver nei suoi racconti raccolti
in "Cattedrale" e "Di cosa parliamo quando parliamo di amore". Sulla scorta
dell'insegnamento tecnico di Hemingway (la short story dei Quarantanove
racconti), viene squadernata una quotidianità disarmante. Ma in
Carver non c'è più la ricerca di estraniazione da un mondo
che non si condivide. Quei racconti fotografano le scene più ordinarie,
banali (il genere sarà definito «minimalismo»), con
una freddezza, un cinismo e un disincanto che fanno specie. Che ti lasciano
di stucco. E in questa freddezza non c'è rivolta, non c'è
giudizio, non c'è alternativa. Ogni situazione è la tua situazione.
Ogni protagonista sei tu (o potresti esserlo). E quando realizzi che quel
mondo è il tuo mondo, ti senti mancare la terra sotto i piedi. Ecco
la morte, il nulla. Proprio in queste pagine ruvide e distaccate - rassegnate
- mi pare arrivare al capolinea il percorso iniziato da Hawthorne nella
critica al pregiudizio (e, se vogliamo, al giudizio collettivo fondato
sui valori delle generazioni precedenti), proseguito da Fitzgerald e Hemingway,
che Kerouac porta avanti e che avvicina incredibilmente al risultato: quel
nulla poi descritto e incastonato in pagina da Carver senza un minimo commento,
rimanendo enigmatico e suggestivo, prodromo di un giudizio e un'interpretazione
a carico del lettore, finalmente personali. Una specie di Sartre, ma meno
intellettuale e più misteriosamente asettico.
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o | Una
riflessione sull'America letteraria e le sue tensioni fra la denuncia di
una società percepita come estranea
e un'alternativa che non c'è. Ferlinghetti
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