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Etiopia-Eritrea, non solo
una guerra di confine
L'analisi di un conflitto sanguinoso che
ha già provocato una tragedia umanitaria
La guerra fra Eritrea ed Etiopia continua con nuovi
scontri dopo una fase che aveva visto la supremazia etiopica, con Addis
Abeba che dichiarava chiuso il conflitto e si sedeva al tavolo dei negoziati
di pace ad Algeri dove, a tutt'oggi, però, le trattative sono ancora
incerte (anche se si parla di possibile cessate il fuoco) mentre le armi
sparano ancora.
La tragedia dei profughi Giovedì 1. giugno
erano a Trento per una visita ufficiale padre Tewolde, provinciale cappuccino
della Provincia Eritrea e Presidente della Conferenza Episcopale Eritrea,
assieme a padre Marino Haile, Cappellano degli Eritrei ed Etiopici in Italia
e Delegato per l’Estero del Comitato interreligioso emergenza dell’Eritrea.
Padre Tewolde ha lasciato la città di Barentu, compresa nel triangolo
di territorio eritreo rivendicato dall’Etiopia, il 20 di maggio, tre giorni
dopo la ripresa del conflitto; ha riferito che per giorni l’esercito etiope
ha bombardato le postazioni eritree, dopodiché è avanzato
con le sue truppe. I frati hanno dovuto temporaneamente lasciare la zona,
ma sono poi rientrati di nascosto, durante la notte, riportando dal fronte
impressioni drammatiche. “Le perdite – hanno detto i due cappuccini - sono
state terribili da ambo le parti. Ad esse ora si somma il problema dei
circa quattrocentomila profughi eritrei riparati verso il Sudan. Lì
ci sono ancora i campi nati negli anni Settanta per ricevere i profughi
della guerra di liberazione condotta contro il governo di Menghistu. Recentemente
circa centosessantamila eritrei avevano deciso di fare ritorno in patria,
contando anche su un programma di reinsediamento approntato dall’Alto commissariato
per i rifugiati delle Nazioni unite (che prevede o il ritorno dei profughi
in patria, o, alternativamente, il loro insediamento definitivo nello Stato
che li ha ospitati). Ma ora ovviamente tutto è cambiato, e questi
campi sono destinati piuttosto ad ingrossarsi”.
Addis Abeba voleva un nuovo governo ad Asmara L’Etiopia, a
loro giudizio, ha apparentemente ottenuto ciò che voleva, la porzione
di territorio eritreo rivendicata (triangolo di Badame) ma non ha raggiunto
gli obiettivi “inconfessati” di questa nuova offensiva militare, la distruzione
dell’esercito nemico e l’installazione di un governo filoetiope ad Asmara.
Lo stesso governo eritreo, peraltro, avrebbe commesso, nel corso dell’evolversi
della crisi, alcuni errori; il più grave, sempre secondo i due padri,
è stato quello di non essersi ritirato subito dall’area contesa,
risparmiando così molte vite umane che sono state invece inutilmente
sacrificate. Ma anche a proposito di uno degli atti politici che più
hanno contribuito ad incrinare i rapporti fra i due paesi, la decisione
di Afwerki, nel 1997, di dare all’Eritrea una moneta nazionale, il nacfa
(in precedenza, dopo l’indipendenza, l’Eritrea aveva adottato la moneta
etiope, il birr), il giudizio non è positivo. “Una decisione che
si sarebbe potuta rimandare, e che ha innescato una spirale di reazioni
negative”, hanno detto i due cappuccini.
Note su una guerra africana La guerra Eritrea-Etiopia
non si presta a facili semplificazioni. Meno che mai può essere
letta attraverso le consuete categorie che vedono dietro qualsiasi guerra
tra paesi in via di sviluppo la “longa manus” dell’Occidente. Questa guerra
non è una delle tante guerre a bassa intensità (la definizione
è stata resa popolare dal bel libro-reportages sulla guerra civile
in Salvador scritto da Lucia Annunziata) combattute negli anni Ottanta
da forze appoggiate rispettivamente dal blocco occidentale, dall’Unione
Sovietica o dalla Cina. E’ una guerra che era stata sì largamente
annunciata dalla massiccia campagna-acquisti di armi messa in atto dai
due paesi prima dello scoppio delle ostilità, ma al tempo stesso
relativamente imprevista, coinvolgendo due vecchi “compagni d’armi”, una
guerra in cui si impiegano, secondo la felice definizione di un giornalista
“armi della guerra di Corea (insomma, armi moderne), metodi da Prima guerra
mondiale (è stata una guerra di posizione, una guerra di trincee),
e apparati medico-sanitari del XIX secolo (il che spiega perché
il rapporto fra feriti e morti sia di circa 1 a 1 anziché di 1 a
3 come avviene nelle guerre fra paesi sviluppati o che coinvolgono paesi
sviluppati)”. Non è, soprattutto, una guerra civile come la maggior
parte di quelle che dilaniano il continente africano, ma una guerra fra
stati sovrani.
Due politiche contrapposte Inoltre essa, più che una guerra determinata dal retaggio coloniale (l’occupazione italiana, le successive vicende che hanno visto il Corno d’Africa al centro delle nostre mire imperiali, hanno comunque ovviamente il loro peso) sembra essere ereditata dal passato “comunista” del Corno d’Africa: ad essere contrapposte qui sono di fatto due forze politiche che rappresentano l’approdo alla politica di due movimenti di liberazione, il Fronte di liberazione dell’Eritrea e il Fronte di liberazione del Tigrai (il Tigrai è la provincia etiope che confina con l’Eritrea, ed è principalmente da questa regione che viene attualmente il sostegno al governo di Meles Zenawi), le quali dal 1977 fino al 1991 combatterono unite contro il regime del colonnello Mengistu, appoggiato dai sovietici. Entrambi i movimenti di opposizione in realtà si proclamavano all’epoca a loro volta filomarxisti, quantunque poi il loro marxismo si sia tradotto, nei fatti, solo in una spiccata propensione a governare i rispettivi paesi in maniera autoritaria. Con una significativa differenza: gli osservatori internazionali, e anche i due padri cappuccini con cui abbiamo parlato, sono generalmente concordi nel definire il leader eritreo molto popolare; certo, Afwerki non ha ancora dato concreta realizzazione al parlamentarismo previsto dalla Costituzione, e di fatto nel paese non si sono ancora tenute libere elezioni (alcuni partiti di opposizione, di orientamento filoislamista, sono appoggiati dal confinante Sudan, e con essi l’Etiopia, dopo l’inasprirsi delle relazioni fra i due Stati, ha cercato di stabilire un contatto). Tuttavia nel complesso la sua leadership sembra essere più stabile di quella del primo ministro etiope Meles Zenawi, il quale governa un paese assai più grande, più popoloso, e soprattutto più complesso sotto il profilo etnico-sociale. Accentuare le rivalità etniche a fini politici (o crearle a bella posta) è, com’è noto, una strategia consueta di molte leadership africane: nel caso dell’Etiopia, il governo al potere sembra essere oggi essenzialmente legittimato dall’appoggio dei Tigrini, mentre gli Oromo, il maggiore gruppo etnico del paese (40% della popolazione), e anche gli Ahmara (25% della popolazione) sono largamente esclusi dalle posizioni di prestigio in seno al governo di Addis Abeba. L’Etiopia del resto ha accusato l’Eritrea di appoggiare il Fronte di liberazione degli etiopi Oromo, nel tentativo di destabilizzare il governo di Zenawi e di arrivare di fatto a controllare il grande vicino. Insomma, la stessa accusa che gli eritrei rivolgono all’Etiopia, di voler arrivare a controllare il loro governo, anche se indirettamente, viene rivolta dagli etiopi all’Eritrea. Guerra per i confini, per l’economia, per la supremazia politica? La guerra ufficialmente
è scoppiata il 6 maggio 1998, con l’uccisione, da parte della milizia
di confine etiope, di alcuni soldati eritrei, i quali pare avessero comunicato
loro che avevano sconfinato. Un mese dopo vi sono stati bombardamenti da
ambo le parti, e da lì in poi ogni tentativo di ricomporre pacificamente
il conflitto è andato a vuoto. Sotto il profilo delle dispute territoriali
il clima si era surriscaldato già l’anno prima con la comparsa,
in Etiopia, di una cartina che attribuiva l’area di Badame all’Etiopia.
Asmara dice che gli etiopi avevano iniziato anche a “taglieggiare” le popolazioni
locali, imponendo loro tasse che non era lecito esigere, trovandosi il
territorio entro i confini eritrei. In ogni modo, gli osservatori sono
concordi nel giudicare questa porzione di territorio assolutamente insignificante
dal punto di vista strategico (il che ovviamente non significa che i due
paesi si stiano facendo la guerra “per niente”, ma semmai che la disputa
territoriale può essere giudicata un pretesto, al pari se vogliamo
dell’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono degli asburgo Francesco-Ferdinando,
con la quale prese il via la Prima guerra mondiale).
Un’altra tesi
accreditata da una parte degli osservatori internazionali è quella
della guerra economica. Dopo la nascita della nazione Eritrea, 3,5 milioni
di abitanti, l’impressione era che quest’ultima, molto più
piccola dell’Etiopia ma affacciata sul mare arabico, potesse avviarsi a
diventare una sorta di “Singapore” africana, capace di attirare gli investimenti
stranieri e di svilupparsi sotto il profilo sia industriale che commerciale.
L’Etiopia invece, con i suoi 60 milioni di abitanti, avrebbe rappresentato
l’enorme “granaio” del Corno d’Africa (e forse anche un serbatoio di forza
lavoro a buon mercato per la nascente industria eritrea). Rivalità
economiche sono sorte quasi subito fra i fragili comparti commerciali e
industriali etiopi, soprattutto quelli del Tigray, e l’assai competitiva
economia Eritrea. L’Etiopia, in risposta alla richiesta pressante di misure
“protettive” soprattutto per il Tigray, ha adottato una politica tariffaria
sfavorevole per i prodotti importati dall’Eritrea; l’Eritrea ha risposto
con il varo della sua moneta nazionale (giustificando quest’operazione
con il fatto che il birr etiopico era sopravvalutato, cosa che andava a
danno delle esportazioni dell’Eritrea verso il resto del mondo). L’Etiopia
si è rifiutata di accettare il cambio 1 a 1 fra birr e nacfa che
l’Eritrea si attendeva, pretendendo inoltre che le transazioni commerciali
fra i due paesi venissero effettuate in dollari, e così via.
In verità, probabilmente la guerra fra Eritrea ed Etiopia può essere spiegata con un concorso di fattori, come del resto molte altre crisi regionali che solitamente la stampa italiana non si prende la briga di analizzare. Le stesse ragioni economiche debbono, realisticamente, essere inscritte in una cornice più ampia, quella del deterioramento dei rapporti politici fra due paesi (e due leadership), che in passato furono alleate, e che nel 1993 si separarono in maniera, lo ripetiamo, consensuale. Tale deterioramento in parte può essere stato prodotto da cambiamenti negli equilibri interni ai due stati; è possibile ad esempio che il premier dell’Etiopia Meles Zenawi abbia utilizzato questo conflitto per ricompattare il fronte interno, e magari un domani per procedere ad una redistribuzione dei poteri (e delle cariche di governo) fra le diverse componenti etniche del paese (utilizziamo il termine “etnia” nella consapevolezza di quanto fragile, oscuro, fuorviante, strumentalizzabile esso sia). Del resto, anche il primo ministro dell'Eritrea Afwerki avrebbe puntato all’inizio del conflitto proprio sulla fragilità del governo etiope, sperando che una sollevazione interna avrebbe deposto la leadership tigrina sostituendola con una più favorevole ad Asmara. Responsabilità della comunità internazionale La comunità
internazionale è responsabile come al solito soprattutto dell’ambiguità
delle sue scelte passate; perché un intervento di proporzioni gigantesche
per il Kuwait e nessun intervento nel conflitto Eritrea-Etiopia?
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o | Per
un’eccellente
selezione di articoli (in inglese) concernenti la guerra fra Etiopia ed Eritrea vedi questo sito (9
giugno 2000)
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