Per un giornalismo critico 
I fatti e le idee
fra emergenza e utopia...


 
LE "RAGIONI" DI UNA GUERRA SENZA RAGIONI
Qualche riflessione sulle impudiche dichiarazioni belliche di politici e militari 

 
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_____________________________________di Pietro Stara__________

È divertente notare come sia un dato oramai appurato che le origini e le forme di quello che in occidente viene definito come radicalismo islamico siano diretta conseguenza della colonizzazione prima e delle politiche di destabilizzazione geo-politiche poi. Le ragioni dell'uno e dell'altra sono ascrivibili a diverse motivazioni che nel corso dell'ultimo secolo hanno portato numerose potenze occidentali a muoversi e a far muovere lo scacchiere internazionale. Non aggiungerei nulla dicendo che spinta essenziale di tali sommovimenti sono da ricercarsi negli elementi propulsori, ovvero in quello economico ed in quello ideologico-culturale. Si può ben pensare che ognuno di essi sia funzionale all'altro e che entrambi costruiscano il senso di ciò che è avvenuto e ciò che sta avvenendo. Voglio citarvi, a tal proposito, alcuni nemici, in modo tale da contribuire a fornire documentazione altra alla forza delle nostre ragioni. Inizierei da un'intervista [1] rilasciata da Zbigniew Brezinsky alla rivista francese "Le Nouvel Observateur" nell'insospettabile gennaio 1998. Brzezinsky ammette che la CIA iniziò ad aiutare i mujaheddin afgani ben sei mesi prima dell'intervento sovietico, in modo tale da accelerare il processo di invasione imperiale dell'allora URSS. Le notizie di regime ci hanno sempre raccontato, a tale proposito, che gli aiuti furono seguenti all'intervento e non precedenti. Ma quale era lo scopo precipuo degli statunitensi? "Il giorno che i sovietici hanno varcato il confine afgano ho scritto al presidente Carter che adesso avevamo l'opportunità di dare all'Unione Sovietica la sua guerra del Vietnam." Successivamente il giornalista gli domanda: "e nessuno di voi si è pentito di avere supportato l'integralismo ed il terrorismo islamico con armi e addestramento?" Brezinsky, con una "innocente" tranquillità, gli risponde: "Cosa è più importante per la storia del mondo? I talebani od il collasso dell'impero sovietico? Qualche mussulmano esaltato o la liberazione dell'Europa Centrale e la fine della guerra fredda?" Ma come, si indispettisce il giornalista "qualche esaltato musulmano? Ma è stato detto e ripetuto che il fondamentalismo islamico rappresenta oggi una minaccia mondiale".

E Brzezinski conclude: "Balle. Si dice che l'occidente abbia una politica globale riguardo l'islam. Ciò è stupido. Non esiste un islam globale. Prova a guardare all'islam in modo razionale e senza demagogia o emozione. È la religione principale al mondo ed ha un miliardo e mezzo di seguaci. Ma cosa lega il fondamentalismo Saudita, la moderazione di stati quali il Marocco, il militarismo Pakistano, il filo occidentalismo Egiziano e gli stati laici dell'Asia centrale? Nulla più di ciò che unisce le nazioni cristiane." [2] Da questa breve intervista, quanto veritiera (non aveva motivi contingenti per dire il falso come guerre o attacchi terroristici vicini), emergono alcune valutazioni di rilievo. Primo: che le guerre così come i sostegni a regimi vari (vendite di armi appoggi a golpe e quant'altro) sono frutto non di logiche "occidentali" od "orientali", ma di interessi politici ed economici ben precisi e talvolta, come già detto in più occasioni, in contrasto tra loro. Secondo: il mondo arabo teme visceralmente le proprie componenti pan-islamiste (fondamentaliste in gran parte) più che lo stesso l'Occidente sia perché rompono con la logica degli interessi statuali, sia perché sono elementi di forte destabilizzazione interna ed infine perché minano ideologicamente il primato di tolleranza (esclusivamente legato agli affari s'intende) di cui gran parte degli stati arabi si fanno portatori. Terzo: se non hanno mai avuto la possibilità di contarci palle sul loro sostegno al mondo islamico "integralista" ora ne hanno sempre di meno. Le loro favolette anti-terroristiche è bene che inizino a raccontarle soltanto più ai loro fidi segugi e militanti di partito.

Ma torniamo "a bomba" sul Vietnam: il paragone con il disastro militare statunitense sembra preoccupare e non poco diversi analisti militari. Come sempre nulla di simile, ma è interessante però segnalare, dalle loro stesse parole, la valutazione del tipo di intervento militare che è stato messo in atto contro l'Afganistan e delle possibili conseguenze "umanitarie" di tali operazioni di polizia internazionale. È quello che fa in questi giorni F.B. sulla rivista telematica militare www.analisidifesa.it [3]

F.B, ad un certo punto, dopo aver fatto il paragone tra gli eserciti degli Stati Uniti (grosso elefante) e l'Afganistan (agile mosca), si pone una domanda diretta e semplice, ovvero: "Quali saranno gli obiettivi strategici di una Forza Armata navale, di terra e aerea in un contesto come quello Afgano?" E si risponde così: "A mio avviso assolutamente simile, se non peggiore, a quello Vietnamita: nessun vero obiettivo industriale o strategico da colpire, un'area territoriale aspra ed impervia, esiguo il numero dei sostenitori interni... scarsissima fiducia dei paesi confinanti (...) le inevitabili perdite fra i civili" potrebbero far precipitare il conflitto in un possibile "Vietnam". Lasciamo perdere le comparazioni di notevole dubbio con il passato conflitto. Ciò che l'autore ammette candidamente nel suo articolo è che in quel territorio non esistono veri obiettivi strategici di tipo industriale o militare. La domanda che gli porrei sarebbe: per quale altro motivo hanno deciso di bombardare e di inviare, contemporaneamente, delle truppe di terra? Per combattere il terrorismo? Ci sono più cose che non tornano. Rimanderei allora i lettori alle precedenti analisi sul contesto geo-politico mondiale e sul fatto che in quell'area si gioca una delle partite più importanti del nuovo secolo: acqua, petrolio, metano, droga ed armi. Se a questo si aggiunge che con l'intervento di terra si costituirebbe un "presidio militare" permanente degli Stati Uniti di fronte al "concorrente" numero uno, la Cina, magari potremmo avere più di una spiegazione. 

Voglio concludere l'articolo con un'altra chicca proveniente dalle fila militari. Si tratta dell'articolo di Claudio Maria Polidori [4]: l'autore cerca di evidenziare la continuità e le discontinuità tra l'attuale guerra e quella precedente in Kosovo e parlando dei profughi, visti come "prodotto" negativo delle operazioni belliche ed aiuto indiretto al regime di Kabul, ci dice quanto segue: "L'esperienza dell'ultimo decennio ci ha, infatti, insegnato che le guerre possono essere combattute anche strumentalizzando le emergenze umanitarie ed in particolare determinando lo spostamento di grandi masse da una regione all'altra in modo da ostacolare le operazioni militari avversarie. Durante il conflitto serbo-bosniaco, ad esempio, ci si accorse che lo spostamento massiccio di civili non era un caotico effetto della guerra, ma piuttosto un evento calcolato, deliberato, non solo allo scopo di creare zone etnicamente pulite, ma anche per coprire i movimenti delle truppe e riparare talune aree d'interesse militare dagli attacchi avversari." L'autore si riferisce esclusivamente al governo Serbo, ma nulla ci impedisce di affermare che la medesima tattica (i profughi e gli aiuti militari come strumenti di guerra) è stata ampiamente utilizzata dalla NATO come pretesto per intervenire militarmente in quelle aree e non andarsene più. Le scuse si trovano sempre, ma al medesimo tempo sono sempre gli stessi a pagarla. Una cosa, però, ho capito da un pezzo: non abbiamo bisogno di costruire delle prove a sostegno delle nostre tesi, lo fanno già piuttosto bene i nostri avversari.
 
 
 

Note

[1] "Come io e Jimmy Carter abbiamo creato i Mujaheddin" Ora si trova nel sito pacifista www.peacelink.it

[2] Ibidem

[3] F.B., Speciale guerra al terrorismo, Siamo di fronte ad un nuovo Vietnam?, Analisidifesa, ottobre 2001

[4]Claudio Maria Polidori, Speciale guerra al terrorismo, Nuovi conflitti, Nuove strategie, in Analisidifesa, ottobre 2001 
 

24 ottobre 2001

Tratto da Umanità Nova n.36 del 21 ottobre 2001

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