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Natura, giustizia, crisi dello sviluppo: che paghino i ricchi
Intervento di Wolfgang Sachs al Damm di Napoli: proposte per la conversione sostenibile
 

di WOLFGANG SACHS

    La mia storiella del mondo può incominciare con un piccolo racconto.
  Due, tre anni fa camminando in compagnia di Gustavo Esteva per un quartiere di Mexico City, Tepito, mi sfuggì, assecondando il pregiudizio corrente, di definire le persone che lì abitavano povere. A tale affermazione mi fu prontamente risposto “Non siamo poveri siamo Tepitegnos”.  Anch’io avevo utilizzato in quel momento un quadro di riferimento sviluppista. Mi potevano apparire poveri, mentre la loro percezione di sé era assai diversa, perché mi uniformavo ad una certa idea del mondo nata dopo il secondo conflitto mondiale. Prima non era possibile parlare di povertà globale, l’abbiamo vista solo quando gli economisti hanno incominciato ad usare una certa misura, il PIL, il prodotto interno lordo, il metro dello sviluppo. In quest’ottica, non è possibile considerare gli stili di vita di tuareg, zapotechi, o rajastani come modalità diverse e non comparabili di esistenza umana, ma come qualcosa di manchevole rispetto a ciò che è stato ottenuto dai paesi “avanzati”. Il rapporto della Banca  Mondiale del ’46 registra, per la prima volta, questa gerarchia del mondo e indica la necessità di aiutare i paesi in fondo alla lista ad intraprendere la strada del progresso. Definire la metà del mondo povero è quindi il frutto di un’operazione statistica e politica. 

L'epoca sviluppista

   L’epoca sviluppista è cominciata in un giorno preciso: era il 20 gennaio 1949, Truman assumeva la presidenza degli Stati Uniti d’America e nel suo discorso al Congresso inaugurava l’era dello sviluppo. Quel giorno, due miliardi di persone divennero sottosviluppate. Esse smisero di essere quello che erano, con tutte le loro diversità, e furono trasformate, come allo specchio, in un riflesso inverso della realtà altrui: uno specchio che li sminuisce e li spedisce in fondo alla fila. Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano una macchina produttiva formidabile e senza sosta. Erano al vertice della scala evolutiva e da questa posizione privilegiata esportavano ovunque l’idea che il livello di civiltà si misurasse con quello della produzione! La missione che i padri fondatori avevano lasciato in eredità, quella di essere sempre un “segnale sulla collina”, assumeva dimensioni planetarie.
  L’imperativo, che ha funzionato per cinquant’anni, a quel punto è diventato quello di promuovere lo sviluppo economico globale come garanzia di giustizia e di pace. La massima aspirazione capace di ottenere illimitato consenso e di accomunare Nord e Sud divenne quella grande allucinazione chiamata sviluppo. Più che un’impresa socioeconomica è una particolare forma mentale, una percezione che modella la realtà, un mito consolatorio per le società, una fantasia che scatena le passioni. Nord e Sud si vedevano in viaggio su di un unico convoglio: il primo accelerando la sua folle corsa al progresso, il secondo dietro ad emularlo. E così il concetto di giustizia fu inglobato da quello di sviluppo. Il progresso continuo a cui tutti avrebbero potuto partecipare, bastava allinearsi, avrebbe garantito la giustizia tra i popoli. Non importava quanto ognuno prendesse tanto la torta avrebbe continuato a lievitare, e tutti avrebbero potuto prendere la propria fetta.  Le politiche di sviluppo si sono, quindi, impegnate a portare nella grande arena del mercato globale quei Paesi che andavano per proprie vie e una volta integrati a renderli competitivi, capaci di affrontare la gara. Quest’idea in cinquant’anni ha prodotto due grandi crisi, due falde sismiche dalle quali scaturiranno i terremoti del prossimo secolo, parlerei di crisi della giustizia e crisi della natura. 

Crisi della giustizia e crisi della natura

   Partiamo dalla prima. La promessa di Truman che la giustizia potesse affermarsi attraverso lo sviluppo si è chiaramente rivelata un’illusione. L’idea di giustizia come perseguimento di ricchezza da parte di tutti è fallita. E’ sotto i nostri occhi che il divario tra i cosiddetti  mondo sviluppato e  mondo sottosviluppato non si è che accresciuto nell’ultimo cinquantennio. Nel 1960 i paesi del Nord erano venti volte più ricchi di quelli del Sud, nel 1986 lo erano di quarantasei volte. Quello che si è ottenuto è la creazione di una classe media globale, di una classe consumistica globale. Questa classe vive per la stragrande maggioranza nei paesi dell’Ocse, ma la si incontra ovunque. La globalizzazione, da un lato elimina le barriere tra le nazioni, dall’altro erige nuove barriere all’interno degli stessi paesi. Nord-Sud non sono più categorie geografiche, ma categorie socio-economiche presenti in ogni stato. La spaccatura, la tensione sociale è tra questa classe media e, in termini economici, la restante popolazione superflua, che non ha e non avrà la possibilità di accedere agli stessi livelli di consumo. Non si può più pensare di estendere ancora questa classe, la natura non potrebbe sostenerla. 

Impossibile diffondere la "crescita"

  La prospettiva di una maggiore equità non può intendersi nel senso di una crescita continua. Siamo arrivati all’altra grande crisi, quella della natura. L’idea di Truman fallirà davanti al tribunale della storia non tanto perché la gara sviluppista è stata condotta con metodi ingiusti, molti sono stati ostacolati, ma soprattutto perché questa competizione porta ad un abisso: la crisi ecologica. Nonostante che solo il 20% della popolazione abbia partecipato al frutto del progresso, la pressione esercitata sull’ambiente ha già mostrato i limiti della natura, usata da un lato come miniera e dall’altro come discarica. Sia a livello locale che globale, risulta ormai evidente che le risorse messe a disposizione dalla natura si vanno esaurendo o sono state fortemente compromesse.
   Facciamo un esempio: l’effetto serra. L’anidride carbonica non è di per sé inquinante; le biomasse terrestri e oceaniche sono in grado di assorbirne ogni anno dai 13 ai 14 miliardi di tonnellate, a ciascuna persona sarebbe consentita un’emissione pari a 2,3 tonnellate. Però se oggi tutti seguissero l’esempio della Germania, in cui un tedesco medio ne emette 12 l’anno, il mondo emetterebbe 69 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Avremmo quindi bisogno di 5 pianeti da usare come discariche. Parlare di ambiente vuol dire parlare del volume totale di risorse che viene divorato dalle nostre economie e poi rilasciato come rifiuto. 

Una società sostenibile

   L’ambientalismo non è quindi un movimento per rendere più pulite le nostre città, ma per una società sostenibile, che pesi di meno sulla natura e sugli altri popoli. Bisogna fare attenzione: parlo di società sostenibili e non di sviluppo sostenibile. Quest’ultimo concetto così come usato dai nostri governanti, è un inganno, un cavallo di Troia costruito nelle grandi conferenze mondiali. Le élite del Nord e del Sud, solo in apparente contrapposizione,  non sono disposte a rinunciare all’idea di sviluppo, ma non potendo anche loro non vedere le crepe che si vanno formando in questo sistema, ci aggiungono l’aggettivo sostenibile che di per sé non significa nulla. A parole i centri di privilegio e di poter hanno accettato il concetto di “sviluppo sostenibile”, ma nei fatti non affrontano la questione che non ci può essere sostenibilità senza una limitazione della ricchezza. 
   La finitezza nel tempo e nello spazio dello sviluppo, dimostra la fine di quell’idea del progresso economico illimitato. 

Il nostro benessere senza futuro

  Oggi lo sbandierato e osannato “diritto allo sviluppo” finisce con il coincidere con le aspirazioni delle classi dominanti ad una maggiore affermazione sul mercato, piuttosto che con una maggiore solidarietà tra i popoli.

   Il nostro benessere è incapace di futuro, è incapace di giustizia, abbiamo creato un benessere oligarchico, anche se volessimo estendere i nostri livelli di consumo a tutti i popoli del mondo non potremmo farlo. La democratizzazione del nostro benessere ci porterebbe alla crisi ecologica.
   La richiesta di giustizia oggi presuppone prima di tutto l’abbassamento, la trasformazione della vita dei ricchi, invece di innalzare quella dei poveri, come si è predicato da Truman in poi. E’ solo coll’Illuminismo, con la nascita dell’idea di crescita, di progresso che il divario che separa i ricchi dai poveri incomincia ad essere visto come una mancanza dei più deboli, piuttosto che come un’eccessiva avidità dei potenti.
   Parlare di giustizia oggi vuol dire parlare di come ristrutturare i nostri paesi. Al nostro istituto, il Wuppertal, abbiamo fatto degli studi per vedere che vuol dire portare un paese come la Germania alla sostenibilità, cioè a non pesare sulla natura e sugli altri popoli. Noi usiamo una formula fattore 10: l’economia tedesca in un cinquantennio dovrebbe utilizzare l’80-90% in meno di risorse. Un semplice calcolo può aiutarci a capire che vuol dire fattore 10. Secondo gli scienziati delle Nazioni Unite se vogliamo evitare un surriscaldamento intollerabile della Terra dobbiamo dimezzare in cinquant’anni l’emissione globale di anidride carbonica. Se a ciò aggiungiamo il diritto di tutti quei paesi “in via di sviluppo” ad utilizzare più risorse e spazio,  giungiamo a quella riduzione dell’80-90% per paesi come la Germania.

Come rendere sostenibile un Paese

  Al Wuppertal abbiamo ricercato e individuato alcuni modi per rendere sostenibili le nostre società e rispondere alla sfida del fattore 10. Ovviamente è un discorso assai complesso, tenterò di indicare alcuni esperimenti già in atto, delle idee-guida. Le nostre ricerche partono dalla convinzione che bisogna cambiare l’indirizzo del processo tecnologico: non produrre sempre più con sempre meno persone, ma lavorare con più persone e sempre meno natura. Il Nord è chiamato non solo ad operare una più equa ridistribuzione della ricchezza (ritiro dall’occupazione di terre altrui, cessione di quote di beni ambientali comuni, atmosfera, oceani), ma anche a ridefinire i modelli di produzione e di consumi. 

  La nostra analisi invita a spostare l’attenzione dalla parte finale (tamponare le fonti di inquinamento al termine del processo) alla parte iniziale dei cicli di trasformazione delle risorse in output. Per attuare una tale trasformazione bisogna operare sia in una prospettiva di efficienza, come fare bene le cose: ridisegnare come si produce, sia in una prospettiva di sufficienza, pensare le cose giuste: ripensare a come si consuma. Dopo la conferenza di Rio de Janeiro del ’92, nonostante i discorsi altisonanti, i governi non si sono un gran che mossi sulla strada della sostenibilità, ma due gruppi della società si. Da un lato cittadini e istituzioni locali, dall’altro pezzi della grande industria. Un esempio ci viene offerto dalla Rank Xerox  che prima vendeva fotocopiatrici ed oggi il servizio di copiatura attraverso una commistione di affitto e leasing. La proprietà, i costi, i rischi di manutenzione e lo smaltimento delle macchine rimangono al fabbricante, il cliente paga il costo pattuito per ogni copia. L’interesse dell’impresa è cambiato: non vendere sempre più macchine, ma procurarsi macchine di lunga durata, facilmente riparabili e riutilizzabili. E questo potrebbe essere il nuovo modello di utilizzo di automobili, frigoriferi, computer… la cui proprietà è lasciata ai produttori, in modo che, alla fine del periodo stabilito per questa sorta di noleggio, la responsabilità dell’oggetto diventa del producente, che dovrà quindi occuparsi della sua riciclabilità, della sua fine, sin dalla fase di progettazione.

La giustizia non è dare di più ma prendere di meno

   La sfida della giustizia di domani non è dare di più, ma prendere di meno, combinare moderazione ed efficienza. I socialisti del secolo scorso avevano ragione a dire che la giustizia, la garanzia di una vita dignitosa per tutti passa per il progresso tecnologico. Era giusto individuare una soglia sotto la quale non ci sarebbe potuta essere giustizia, ma ora non si può non vedere che c’è una soglia sopra la quale, altrettanto, non ci potrà essere giustizia. 
   La giustizia sociale, alla fine dell’era dello sviluppo, vuol dire mettere i ricchi con le spalle al muro, imporre una modifica della loro vita e non di quella dei poveri

(Trascrizione a cura di Renata Pepicelli)

o Con questo articolo aggiungiamo materiale per un dibattito sulle posizioni di Sachs e sull'approccio del Wuppertal Institutt.
Chi volesse intervenire può scriverci
 (22 maggio 2000)
 


A maggio dell’anno scorso per discutere su sostenibilità e sviluppo abbiamo invitato W. Sachs al Damm, che per facilità e brevità, definisco, seppur in maniera un po’ riduttiva, inviandovi per maggiori informazioni al sito del Damm, un centro sociale di Napoli. 
Malgrado le differenze politiche dei diversi partecipanti all’assemblea l’incontro è stato molto utile per tutti noi. 
Vi proponiamo una trascrizione-sintesi dell’incontro, già apparsa sul primo numero di Pocodibuono del mese di marzo 2000, che può contribuire al dibattito aperto su questo sito su Sachs e un certo ambientalismo da lui rappresentato.
Vi segnagliamo, inoltre, i titoli 
dei suoi testi pubblicati in Italia : Archeologia dello sviluppo, Macroedizioni, Sarsina (FO) 1992; da lui curato con R. Loske e M. Linz, Futuro Sostenibile, EMI, Bologna 1997, e da lui curato, Dizionario dello Sviluppo, AGA, Torino 1998.
 

Renata Pepicelli
 



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