inchieste&reportage

La giustizia non è uguale per tutti
I vent'anni uccisi di Margherita, dalla droga al carcere alla morte
 

di MARTITA FARDIN

    La tossicodipendenza, la criminalità ad essa legata, il carcere, quando si acciuffa un drogato con le mani nel sacco, sono temi che si prestano a fare discutere e riflettere. Per questo abbiamo deciso di divulgare la storia di Margherita Frisina, apparsa su «Una città» (il numero 65, febbraio 1998, le era dedicato), mensile di Forlì attento ai problemi del disagio. E’ giusto che una ragazza giovane, perché eroinomane, per uno scippo di 70.000 lire, un assegno rubato, debba scontare anni di carcere o sia costretta forzatamente dalla legge a riabilitarsi?
   La scelta di smettere non dovrebbe essere personale?
   E’ giusto schiaffarla in prigione per quattro anni per atti compiuti in una situazione di disagio e sofferenza?

L'alternativa alla violenza del carcere?

   L’alternativa allora? Legalizzare le droghe pesanti, in modo che gli scippi, i furti dei tossici non disturbino l’ordine sociale? Il carcere quando rubano o vendono per la dose? Esiste una soluzione che sia una via di mezzo tra le due, meno coercitiva? La questione è spinosa. Le risposte molte e diverse. Tossicodipendenti e reati connessi. L’alternativa ce l’hanno:  programma terapeutico o carcere. Basta che scelgano. Matematico. Il punto è che non sempre tutti sono immediatamente convinti di andare in comunità, non si sentono pronti, o non vogliono semplicemente andarci. Non tutti quindi ce la fanno a restarci. Scatta  il meccanismo della fuga. Ma in affidamento, se si scappa, si torna dentro. Secondo i parametri della giustizia, il tossicodipendente che non  decide subito, in base ai tempi dettati dalla legge, brucia l’opportunità di tornare ad essere un individuo normale, perfettamente sano ed integrato nella nostra società. Non ha insomma la "fibra morale" per stare al mondo. Ma per rimanere in carcere sì.

Il racconto di una mamma ferita

    Ecco la storia di Margherita Frisina, una ragazza dai capelli corvini.
Una storia come tante altre. Solo che la madre, Francesca, ha scelto di rendere pubblica la  vicenda della figlia sul mensile «Una città», di Forlì, che si occupa di temi sociali e di emarginazione. Margherita aveva confidato a lei i suoi pensieri più intimi di disperazione e di angoscia, di quando ci si sente soli, abbandonati dalla realtà del  mondo che fuori ci circonda, quando ci si trova schiaffati in una cella di un carcere illuminata da un sole cupo e freddo. Tutto per un errore di gioventù. Forse la scelta della signora Francesca a qualcosa servirà.  Anche se ormai Margherita non può più né parlare, né chiedere aiuto. Il 6 maggio del 1997 la giovane, dopo una prigionia durata due anni e otto mesi, quando la libertà era vicina, ha tirato le cuoia.
Si è uccisa. No, non con l’eroina e non per l’eroina.
   Chissà se quel giorno dalle sbarre della sua cella penetrava l’ossessionante sole cupo e freddo? Oppure quello ridente  e giallo che simboleggia la luce, il calore, la vita? Perché si è suicidata?  Facciamo un passo indietro e ripercorriamo il suo calvario, basandoci sul racconto della madre e sulle lettere scritte dalla ragazza detenuta.

I primi guai con la legge

   Margherita diventò dipendente dalla droga a diciassette anni. Erano gli anni ’89- ’90. I guai con la legge iniziarono con uno scippo compiuto, con un  ragazzo, ad una vecchietta. Loro a bordo di un ciclomotore. L’anziana in bicicletta. In tutto settantamila lire di lire in contanti. Giusto il ricavato di una dose schifosa da spararsi in vena, bollente. Per poi ricominciare. Perché i soldi non bastano mai. Non importa quanto denaro accumuli o quanta gente freghi: l’eroina rende costipati. E Margherita divenne costipata. Ma c’era sua madre accanto a lei. Impotente come tutti i familiari e le persone che ti vogliono bene e soffrono. La giovane, con il sostegno della mamma, a cui era molto legata, decise forzatamente di intraprendere un programma di riabilitazione per tossicodipendenti: il giudice di sorveglianza l’aveva affidata alla comunità. Ma lei non si sentiva ancora matura per la comunità. Per Margherita era come una condanna a morte. Aveva paura di uscire con il cervello piatto.
Così scappò. Venne riacciuffafata in breve e messa in prigione. Anche gli arresti domiciliari , richiesti dalla madre,  non ebbero buon esito. Di nuovo fuggì. Era il 1994. Scattò la pena e venne internata : due anni e otto mesi, da scontare nella Casa circondariale di Pisa.

"Mamma, portami via di qui o ne uscirò nelle bara"

   La mamma sostiene che Margherita sentiva delle voci in carcere, quelle voci che le suggerivano di farsi sempre del male: "Cosa ci stai a fare al mondo? Non sei buona a nulla. Non vedi che nessuno ti vuole più bene?". Durante una visita la donna ricorda queste parole della figlia: "Mamma, portami via di qui, perché sennò esco dentro una bara". Non capiva bene il senso di quelle parole la signora, perché vedeva che imbottivano Margherita di farmaci, per via delle voci che sentiva. La  situazione nervosa della giovane era ai limiti.  La madre si diede da fare. Per tirarla fuori della prigione, si rivolse alla Usl in cerca di una comunità, perché Margherita, con una lettera, l’aveva informata di avere  maturato  la decisione di entrarvi. Era l’aprile del 1997. Ma i tempi si allungavano, troppo.
   Alla Usl procrastinavano. Intanto Margherita si tagliò le vene. Non ce la faceva più. Scrisse una lettera alla madre:  «Cara mamma io sto uscendo di senno, aiutami tu con l’amore che hai per me. Mi devi perdonare se mi sono tagliata, ma l’ho fatto in un momento di depressione. Non ti preoccupare. Non mi farò più del male, ma tu devi fare di tutto per farmi uscire di qui, fatti fare i fogli dalla Usl, fatteli fare. Vieni il più presto possibile al colloquio, ho bisogno di vederti e di parlarti, sto bene quando sono con te». 

Un'altra condanna, i permessi sospesi: il crollo

Margherita stava ormai per terminare la carcerazione. A novembre avrebbe finito. Aspettava quel momento.Sperava, scriveva: "Anche se ci saranno queste umide e fitte sbarre, la mia anima è libera, anche se il sole che mi guarda rimane cupo e freddo".
   Ma tutto andò storto. Le sue speranze crollarono, e la sua voglia di tornare a vivere anche, quando un giorno si vide infliggere un’altra condanna per ricettazione di un assegno rubato. Cominciò a peggiorare psicologicamente. La firma non era sua, come dimostrò una perizia calligrafica, ma dei testimoni avevano visto lei entrare in banca per cambiare l’assegno. Ad aprile avrebbe ottenuto i permessi per recarsi a casa, ma vennero sospesi. L’aspettavano altri due lunghi anni.
Il 14 aprile del ’97, Margherita inviò poche righe alla madre: "Cara mamma, ieri mi hanno dato un definitivo di due anni e quattro mesi, condonato Pontedera per ricettazione. Sono disperata. A questo punto esco nel 2000".
Il 6 maggio la ragazza, approfittando dell’assenza del personale intento a distribuire la terapia ai carcerati, si suicidò con il gas.
  La trovarono a letto, il sacchetto legato al collo con un calzino. E in un cantone la bomboletta vuota.


   o
 

"Quel sole 
cupo
e freddo
era quello che Margherita Frisina vedeva da una cella divenutale insopportabile. Dedichiamo questo numero del giornale a lei, alla ragazza di vent'anni che sognava di fare l'operaia in fabbrica e di tornare a vivere con la madre amatissima, alla ragazzina che compì uno scippo a 17 anni, che evase da casa sua quando era agli arresti domiciliari, che infine spacciò un assegno rubato e contraffatto da altri, e contro la quale, per tutto questo, si è accanita l'ottusa malvagità della giustizia".

Dalla Copertina di Una Città, febbraio 1998
 
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