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Macedonia, prove teniche di militarizzazione
La rivolta albanese, il disimpegno occidentale, l'arrancare della democrazia e della pace



di LUKA ZANONI 

  I n un precedente articolo (Nonluoghi 12 marzo 2001) riguardante la situazione ad alta tensione al confine tra Serbia e Macedonia, è stata messa in evidenza la reale possibilità che ad occuparsi militarmente della crisi possano essere gli eserciti dei paesi balcanici. Ci sia consentito rafforzare questa opinione, peraltro non peregrina, con alcune citazioni tratte da un articolo pubblicato in questi giorni da Le monde diplomatique (allegato a il manifesto del 15 marzo 2001) che titola appunto: L'Occidente arruola il resto del mondo. L'autore, Mariano Aguirre, direttore del Centro de Investigaciones para la paz di Madrid e ricercatore al Trasnational Institute di Amsterdam, chiarisce come alcuni paesi occidentali come gli Stati uniti, la Francia e la Gran Bretagna addestrino e formino gli eserciti di paesi africani e latinoamericani. L'intento è quello di rafforzare gli apparati statali e aiutare le forze armate locali nella lotta alla criminalità e al narcotraffico. Il rischio che viene denunciato è, invece, quello di rafforzare i poteri militari e di indebolire i governi civili.
  Anche se Aguirre non entra mai nel merito della questione balcanica la sua analisi sembra suffragare l'ipotesi che abbiamo sostenuto in precedenza, ovvero un disimpegno degli eserciti occidentali in favore di un impiego degli eserciti balcanici. Ciò che, infatti, preme ai paesi occidentali è di non rimanere immischiati in un altro conflitto e di non affogare nel pantano balcanico.
  Nell'articolo di Aguirre si legge, infatti, che dopo la morte di 18 marines in Somalia nel 1993, il presidente americano, Bill Clinton, "ha emesso la Presidential Decision Directive n° 25 (1994) che limita la partecipazione delle truppe americane alle missioni ONU, scaricando quindi su questa organizzazione la responsabilità del fallimento somalo. Nel giugno 2000, il congresso ha cominciato a discutere l'American Servicememember's Protection Act, che potrebbe vietare la partecipazione delle truppe americane ad ogni operazione guidata dall'ONU se esse non ottengono un'immunità preventiva in eventuali processi istruiti dal Tribunale penale internazionale. Un'istituzione questa, la cui creazione è stata ratificata dagli Stati uniti solo alla vigilia della partenza di Clinton dalla Casa Bianca nel gennaio scorso" (Lemonde diplomatique, 15 marzo 2001, p. 6).

   E poco più oltre, l'autore, citando The new american way of war di Michael Ignatieff, prosegue la sua analisi affermando che dopo il Vietnam e il Kosovo, risulta sempre più evidente che "gli Stati uniti parteciperanno a questi interventi umanitari di tutela dei diritti umani solo se il rischio per i loro soldati sarà minimo. Quanto alla futura strategia americana, rimane da sapere se si accetterà che i cittadini nord-americani partecipino ad operazioni di terra. In questa nuova concezione della guerra americana, le forze aeree hanno un ruolo preponderante, in quanto esperte di interventi di precisione da grandi altitudini; la marina si assume il ruolo di piattaforma di lancio per missili e aerei; la fanteria da sbarco può servire per assicurare una testa di ponte per l'evacuazione di cittadini americani in pericolo". Il risultato è una guerra tecnologica condotta a distanza e una delega dell'uso della forza a battaglioni locali sotto controllo (Ibid. p. 6).

  Si intonano a queste affermazioni le parole di Svetozlav Terziev che con esplicito    riferimento alla pericolosa situazione di questi giorni, nel nord della Macedonia, scrive: "Gli americani sanno come salvarsi da un tale vicolo cieco. All'inizio degli anni '70 si sono tirati fuori dalla guerra del Vietnam esattamente attraverso la politica della vietnamizzazione - hanno lasciato i vietnamiti (del nord e del sud) a uccidersi reciprocamente" ( La NATO ha trovato un'uscita dalla crisi: la balcanizzazione, Notizie Est # 412). L'ipotesi di un disimpegno di forze occidentali sembra quindi più che probabile e sembra trovare ulteriori conferme nell'affermazione del Dipartimento di stato americano riguardante l'inesistenza di un piano di spostamento verso la Macedonia di truppe NATO stanziate in Bosnia e Kosovo (Beta, 17-3-2001), e in altri segnali dati in questi giorni dalle forze occidentali. Ovvero la dimostrata riluttanza occidentale verso la creazione di una nuova fascia di sicurezza ai confini macedoni, nella quale verrebbero dislocate le truppe della NATO; il ritiro di 750 soldati statunitensi di stanza in Bosnia approvato il 15 marzo scorso (Ansa, 15-3-2001) e l’evacuazione di 600 dei 1200 soldati tedeschi della KFOR di stanza a Tetovo (Beta, 17-3-2001), dopo che è stata colpita la caserma dove erano alloggiati.

  Vogliamo concludere con un’altra citazione di Aguirre, il quale spiega che la politica statunitense rivolta ai paesi in crisi e dalla grande importanza regionale, "è in effetti basata sull'esigenza di ottenere petrolio a basso costo, aprire i loro mercati e favorire l'adozione di misure anti-corruzione. In cambio, viene promessa loro, insieme alla Banca mondiale, una maggiore stabilità politica e un incremento delle attrezzature militari. Una politica che si dimostra tuttavia assai poco efficace nel ridurre la povertà e nel consolidare la democrazia. A causa del modello economico veicolato, assistiamo ad un inasprimento dell'uso della violenza ed alla scomparsa della società civile e dei processi di democratizzazione" (Le monde diplomatique, 15 marzo 2001).

  Sappiamo bene che difficoltà e ostacoli incontra ancora la fragile società civile negli odierni Balcani, purtroppo però assistiamo spesso ad una scelta strategico-politica tutta intenta a fornire un appoggio tecnico militare a discapito di una soluzione democratica e pacifica dei conflitti regionali.

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Primavera balcanica
di Luka Zanoni

È quasi primavera e come spesso accade l’arrivo della mite stagione coincide con l'inizio delle manovre militari. Nella fattispecie si tratta di quell’area ad alta tensione che collega geograficamente la Serbia, la Macedonia e il Kosovo. In un precedente articolo si era fatto cenno a quest’area (Kosovo in primis) come ad una sorta di barometro balcanico. Così sembra proprio essere.  Ultimamente la pressione, già da tempo piuttosto alta, ha subito un'impennata e non annuncia sicuramente bel tempo. Le ragioni dell'aumento della tensione nell'area vanno ricondotte alla presentazione della soluzione serba alla crisi della valle di Presevo e alla reazione armata dell’UCPMB (l'Esercito di liberazione di Presevo, Medvedja e Bujanovac) che ha provocato la morte di alcuni militari, sia macedoni che serbi.
Come scrivono alcuni, sembra ripetersi il copione della solita guerra balcanica e con particolare riferimento alla scorsa guerra del Kosovo. Eppure se certe dinamiche belliche sembrano essere le medesime, lo scenario entro il quale si gioca l'attuale partita è molto differente. Non solo gli ortodossi (macedoni, serbi e bulgari) hanno condannato l'estremismo albanese, ma anche gli stessi partiti albanesi di Macedonia e del Kosovo (in misura minore LDK di Rugova). Ad essi si è poi unito il coro della comunità internazionale, nell'affermazione che non c'è posto per il terrorismo e per l'estremismo negli odierni Balcani (di recente abbiamo assistito all'allontanamento di Ante Jelavic, nazionalista croato e presidente dell'HDZ BiH). Ma oltre le formali condanne
rivolte alle azioni estremiste dell'esercito di liberazione, c'è tuttavia qualcosa che occorre considerare, al fine di mostrare la differente cornice del quadro che sta prendendo forma in questi giorni. Occorre rilevare, infatti, che dietro le apparenti preoccupazioni e la cura della NATO per l'area in questione, sembra aprirsi la possibilità di lanciare nel conflitto gli eserciti balcanici, come prevede d'altra parte l'allargamento della difesa nel sud est europeo. Sarebbe difficile far digerire all'opinione pubblica occidentale qualche connazionale morto in combattimento in un paese di cui ancora pochi conoscono con esattezza la collocazione geografica.  Sembrerebbe quindi che a risolvere la situazione sul campo ci dovrebbero andare le truppe macedoni, cosa che in una certa misura stanno già facendo, e l'esercito jugoslavo, che sembra già essersi messo in moto.
L'idea di lasciar ritornare l'esercito jugoslavo è spiegabile alla luce dell'interesse che la RFJ di Kostunica ha destato in Occidente e di un conseguente ripristino di una sua  centralità politica all'interno dell'area balcanica. Infatti la presentazione della piattaforma per la risoluzione del conflitto nel sud della Serbia è stata accolta con favore da parte occidentale, mentre la proposta di soluzione da parte albanese non ha raccolto nessuna reazione (cfr. Notizie Est # 413 ) Inoltre  per una  parte rilevante dei paesi occidentali non è più una priorità la consegna di Milosevic al Tribunale dell'Aja  (cfr. Notizie Est # 413 ). Cosa  questa che non stupisce più di tanto.
L'ex presidente dovrebbe, infatti, rendere conto degli oltre dieci anni di relazioni internazionali proprio con quei paesi che prima l'hanno appoggiato e poi demolito. Non da ultimo poi la firma dell'accordo sulle relazioni speciali e parallele tra la Repubblica federale di Jugoslavia e la Republika Srpska, previsto dagli accordi di Dayton, ma che da parecchi è stato accolto con diffidenza (cfr. notiziario di nonluoghi dell’8 marzo).
Senza nulla togliere alla volontà democratica della nuova Serbia, rimane il fatto che proprio in questo frangente essa stessa andrebbe dimostrata. Per esempio facendo il possibile per realizzare un accordo con la controparte albanese, lasciando da parte qualsiasi mito nazionalistico che produrrebbe un’escalation del conflitto. Dall’altra parte la comunità internazionale dovrebbe contenere, come da più parti è stato richiesto, l’offensiva degli estremisti albanesi e fare il possibile per implementare un accordo sulla pacificazione dell’area, evitando gli errori commessi in passato.
Purtroppo però sappiamo  che i nazionalismi sopravvivono e ciclicamente alzano la voce  in tutta quanta la ex Jugoslavia  e  che i paesi occidentali talvolta sfruttano abilmente le degenerazioni politiche a proprio vantaggio.


 



 
 
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