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Dove vola il lobbista
Nella formazione delle norme ambientali pesa di più l'interesse delle imprese. Ecco come
 

di MARCO ONIDA

  A conclusione di un editoriale sul Corriere del 30 gennaio 2000 ("Alla ricerca dell'aria pulita'), Alberto Ronchey cita la necessità di prendere atto del fatto che "l'industria non può più trincerarsi più dietro la logica dei conti economici convenzionali, finché non includano i costi che l'inquinamento scarica sui bilanci pubblici". Prendendo spunto da questa conclusione, largamente condivisibile, si vuole proporre una riflessione che non ponga al centro del dibattito sull'ecologia la sostanza delle regole, quanto il loro processo di formazione. 
   Senza voler sminuire l'importanza del dibattito sui contenuti delle norme ambientali, si vuole sottolineare come tale dibattito rischi di diventare sterile, se non è accompagnato da una riflessione sulle procedure di formazione delle norme, cioè sul fatto se effettivamente tali procedure rappresentino equamente gli interessi contrapposti in gioco: da un lato, l'interesse pubblico della tutela dell'ambiente che, in quanto generale, dovrebbe essere predominante, dall'altro, gli interessi privati di chi produce (e inquina). Finché le procedure di formazione delle regole non saranno in grado di garantire un'equa rappresentanza e tutela degli interessi, sarà difficile poter pretendere cambiamenti nei conti economici dell'industria. 

La tutela degli interessi in gioco

   Il punto di partenza (non è una novità) è che l'ambiente un interesse diffuso che non ha una sua 'voce'. Esistono molti interessi pubblici, ma nessuno è 'mal rappresentato' in politica come l'interesse ad un ambiente pulito. Si pensi alla tutela dei consumatori, legato alla libera concorrenza. Se la concorrenza viene violata, si trova immediatamente chi protesta, presenta riscorsi, e fa ristabilire la situazione (esistono in tutti i Paesi moderni Autorità Antitrust, con grandi poteri esecutivi). 

  La rappresentanza delle esigenze ambientali è invece lasciata alle associazioni ambientaliste. In Europa, queste associazioni non sono né culturalmente né economicamente attrezzate per far sì che la formazione delle normative avvenga effettivamente sulla base di un equilibrio fra interessi contrapposti e non rispecchi invece un vantaggio strutturale degli interessi economici su quelli ambientali. La differenza nella dotazione delle risorse dedicabili al cosidetto 'lobbying' da esercitare presso il legislatore è gigantesca, e nonostante l'ambiente sia oggi inserito fra i programmi delle imprese come di tutti i partiti politici, non si può certo affermare che questi programmi siano sufficienti. I dati scientifici sono chiari: lo stato dell'ambiente non migliora, ma peggiora.

"Lobbisti!" e decisori

   Lo squilibrio nelle forze in campo.
   Quanto avviene presso le istituzioni comunitarie è illuminante. Gran parte della politica ambientale Europea oggi passa necessariamente per Bruxelles, che è quindi il paradiso delle società di  public affairs. Vi sono oggi più di 10.000 'lobbisti' a Bruxelles specializzati nel fare in modo che una norma 'segua un certo percorso'. Questa attività richiede una costante presenza sul campo, tempo e denaro, conoscenza di calendari,  procedure e lingue straniere, in modo da poter avvicinare le persone giuste al momento giusto. I lobbisti di professione sanno bene chi si occupa di un certo dossier, dal livello più basso (per esempio, il funzionario) al livello più alto (il membro del Gabinetto e, ovviamente il Commissario). Per ogni livello di decisione, sanno chi avvicinare, conoscono le date delle riunioni interne. Inviano 'regali' (partecipazione ad eventi o cene - ad esempio, la McDonald sta offrendo biglietti per l'Europeo di calcio). 
Generalmente tendono a istituire relazioni costanti, se possibile diventando 'amici' della persona che si vuole influenzare. Così fra il richiedere una semplice informazione o di tenere presente un certo fatto nella redazione di un testo, il passo è breve (anche questa non è una novità: in Italia la tecnica dell'invito a cena va sempre per la maggiore). 

   A fronte di questo, vi sono invece le associazioni ambientaliste, che contano sull'amicizia di qualche parlamentare, ma che non dispongono di mezzi paragonabili a quelli dispiegati dall'industria, e che quindi sono costrette ad affidarsi alla dedizione dei loro membri. 

   Allo squilibrio economico, si somma quello culturale, il che implica, ad esempio, che molte ONG devono contare su volontari, o su persone insufficientemente preparate, o che (a giusto titolo), sono pronte ad accettare lavori più remunerativi appena se ne presenta l'occasione. Vi è quindi una strutturale mancanza di professionalismo che possa contrastare gli interessi forti. A titolo incidentale, si poteva immaginare che il periodo di gestione dell'amministrazione ambientale italiana da parte delle forze 'ambientaliste' avrebbe migliorato la situazione, a causa del supporto che tale amministrazione ha dato alle ONG ambientali. Paradossalmente invece,  non vi sono stati 'segnali' di interesse sistematico da parte di tali associazioni per la politica comunitaria. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che si è verificata una quasi totale osmosi fra posizioni governative (italiane) e ambientaliste, ed il ruolo di opposizione delle ONG ambientaliste si è ridotto di molto. Purtroppo però, si sa, i compromessi necessari quando si sta a palazzo non consentono di assumere sempre posizioni 'veramente' ambientaliste. 

   Bisogna poi tenere conto dei tempi e dei modi che regolamentano i lavori legislativi. I tempi sono resi strettissimi dalla mole di decisioni da prendere e dal relativo fardello amministrativo (si pensi solo alle traduzioni in 11 lingue). I deputati hanno a disposizione pochi giorni o poche ore dal momento in cui si rendono disponibili le traduzioni degli emendamenti al momento del voto. Visto il numero di 'dossiers' che impegna un europarlamentare, è impensabile che egli possa farsi idee precise su tutto, per cui è costretto a seguire le indicazioni di altri (per esempio, il relatore), i quali possono influenzare enormemente il risultato del voto.  Va da sé che in ogni parlamento i deputati non possano occuparsi di tutto. 
Ma i tempi e i modi delle procedure attuali rendono ancora più difficile la vita a chi vorrebbe interessarsi. Il punto chiave è: come può un'associazione ambientalista, in tali condizioni, pensare di contrastare l'azione di lobbying che viene effettuata dalle imprese? Nel caso di alcune delle più importanti direttive in discussione recentemente, due ONG (e due persone) in totale hanno perorato la causa dell'ambiente, a fronte di centinaia di imprese e consulenti che si sono adoperati per fare 'annacquare' i testi. Con la differenza che i due rappresentanti delle ONG ambientaliste dovevano contemporaneamente occuparsi di tutto: dalle manipolazioni genetiche, alle biodiversità, alle sostanze chimiche nei giocattoli, alla petroliera Erica, etc. Con la differenza che, nei giorni precedenti le decisioni, l'industria ottiene sulla stampa larghi spazi (anche pubblicando comunicati a pagamento), spazi che mai sarebbero concessi alla lobby ambientalista. 

Le possibili strade da percorrere

   Varie strade sarebbero percorribili per migliorare la situazione. Una prima possibilità è quella dell'istituzione di centri di ricerca indipendenti. Il poter disporre di studi e dati obiettivi è già un importante primo passo per un'informazione equilibrata verso il legislatore. Nessuno osa più opporsi apertamente ad una politica che migliora l'ambiente, a condizione che si possa sostenere a giusto titolo che le misure proposte sono effettivamente giustificate. Ed qui spesso l'industria ha gioco facile, sostenendo, decine di studi (di parte) alla mano, di avere "idee migliori". 

  In secondo luogo, il finanziamento di associazioni ambientaliste indipendenti. Ottenere risultati, è soprattutto una questione di risorse. E' noto come alla vittoria di Seattle abbia contribuito internet ed il ridotto costo di circolazione delle informazioni.

  In terzo luogo, un accesso equo alle informazioni ed alle istituzioni. Informazione è potere, è risaputo. Il poter disporre in tempi rapidi dei progetti di leggi o il conoscere le intenzioni delle istituzioni con anticipo rappresenta un enorme vantaggio. E quasi sempre, anche per questi aspetti, l'industria è in netta posizione di vantaggio, sia per una questione di risorse, sia perché la politica ambientale è molto 'giovane' rispetto alle politiche che riguardano interessi economici, per cui di fatto una 'par condicio' procedurale fatica a prendere corpo. Ad esempio, il rappresentante della FIAT a Bruxelles dispone di un 'pass' di accesso alle istituzioni comunitarie, che gli permette di evitare le normali procedure di accreditamento. Il funzionario di un'associazione ambientalista deve invece prima telefonare e chiedere un appuntamento. Si può immaginare che il rappresentante di Greenpeace o del WWF ottenga lo stesso 'pass'? Difficile. Cose di poco conto, si potrebbe sostenere. Ma quando si devono incontrare 50 persone nello spazio di due giorni, sono queste le cose che fanno la differenza. 

   E' vero, nell'industria si incontrano sempre più 'giovani ingegneri' animati dalla voglia di cambiare. Ma il lento ricambio generazionale 'naturale' all'interno delle imprese (conservatrici per definizione, lo aveva già notato Adam Smith), si scontra con la necessità di adottare misure in tempi stretti. Per questo la responsabilità della tutela ambientale resta - e resterà sempre - nelle mani del legislatore, su cui grava la responsabilità di garantire la prevalenza degli interessi diffusi su quelli privati.


o Marco Onida lavora alla Direzione ambiente dell'Unione europea.
Le opinioni contenute
nel presente articolo sono espresse a titolo unicamente personale.
L'articolo è tratto dalla rivista Gaia
del luglio 2000.
(18 luglio 2000)

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