i percorsi

Maggio 1991, Carovana di pace in Kosovo
(con Alex Langer e Adem Demaqi)
 

note di viaggio
di  VITTORIO CASTELLAZZI

   30 aprile. Parto in treno da Trieste alle 9,15 alla volta di Lubiana. Sono arrivato all'ultimo momento, perché ho cercato - e trovato - qualche dinaro (arcisvalutato) ancora in mattinata. Il treno è affollato, ma aggiungono vetture Roma-Belgrado. E' pieno di emigrati che tornano. Hanno per me un'aria familiare, ma non incoraggiante: sembrano tutti zingari, simili a quelli che si incontrano a Torino. Riesco a trovare libero un seggiolino mobile nel corridoio. C'è un grosso va-e-vieni: non posso fare a meno di sorvegliare il portafoglio.

Un dialogo in treno

   Una radiolina nello scompartimento mi informa in italiano sui problemi di Knin. Mi affaccio. Un serbo (saprò poi) con una larga faccia cordiale, che parla bene l'italiano, alza il volume. I presenti mi vedono interessato alle loro notizie e mi dicono "abbiamo molti problemi". Il ghiaccio è rotto. Spiego gradualmente che cosa vado a fare e si apre un fitto dialogo con il serbo. Gli altri - che sono albanesi del Kosovo (Priština) si fanno tradurre qualche passaggio, ma non intervengono. Il serbo se la prende con i presidenti delle repubbliche, che non si mettono d'accordo e con quanti pretendono di smembrare lo stato jugoslavo. Mi fa capire, anzi, che preferirebbe uno stato unitario: "perché 6 Paesi con nemmeno 30 milioni di abitanti complessivi?" "La gente è mescolata, la divisione fra le etnie artificiale, creata da sobillatori e mestatori. Con Tito sì, che si stava bene". Sollevo i problemi economici e della solidarietà fra le repubbliche. Cito gli Stati Uniti e la Svizzera: socchiude gli occhi e allarga le braccia (traduco tra me "lontani e diversi"). Sollevo il problema dell'esercito federale e della difesa territoriale. A questa è decisamente contrario: "Le armi nei villaggi servirebbero a spararci fra di noi". Vuol apparire l'uomo del dialogo. Leggo il pezzo di Robutti (un collega del Consiglio federale dei Verdi), che approva. Gli altri si fanno riassumere il dialogo. Sono stati in Italia (Firenze) per lavori temporanei ed hanno un lavoro che li aspetta (operai metalmeccanici dell'industria automobilistica?). Accenno all'autonomia soppressa e il serbo "tollerante" mi dice che era giusto sopprimerla, perché portava alla secessione. Ingiustificata perché era gente che stava bene ed aveva lavoro. "Molti ora l'hanno perso" - dico io. "Ed è giusto, perché hanno voluto 'ribellarsi'". Non replico. Passa il carrello con bevande e panini. Mi offrono da bere e noccioline. Io offro birra. Siamo amici. Uno dei kossovari, molto bruno, occhi petrolio, baffi spioventi, non più giovane, mi dice che rifiuta la birra perché musulmano. Cito l'inizio delle sure in arabo. Apprezzano. Traduco in italiano e il serbo mi dice che l'ho detto "in cattolico". Per lui tutti sono classificabili per religione. Anche Tito - che era "cattolico". Il discorso si sposta sulle traduzioni (verifico i miei vocabolarietti).

Il passaggio a Lubiana

Il treno si ferma spesso, con lunghe soste apparentemente ingiustificate, in villaggi sperduti. La scarsa popolazione rispetto al territorio è una costante che si nota particolarmente venendo dall'Italia: qui domina una natura soprattutto boscosa, esaltata dal verde nuovo della primavera inoltrata. Passano oltre quattro ore ed arriviamo finalmente a Lubiana. Salutati i compagni di viaggio, individuo subito, uscendo, la fermata n° 28 del bus per l'aeroporto. Partenza alle 14, cioè subito. Decido di rischiare il taxi e vado alla sede dei Verdi. Interpello qualcuno che, un po' in tedesco e un po' in sloveno, mi fa scoprire la via sulla mia rudimentale piantina. La città si presenta bene: molto civile, pulita e ordinata, decorosa nelle architetture mitteleuropee. Bei negozi. Bar invitanti. Gente ben messa. Arrivo in quattro salti.
Mi accoglie Marija Fabcic (notata al convegno di Venezia dei Verdi), che potrebbe fare la top model. Mi dà il promesso materiale sul Kosovo. Mi chiede che cosa so: le dico le mie poche informazioni e lei aggiunge qualche particolare. Non si può comprendere la situazione - afferma - se non la si vede nel contesto della crisi generale. Parla un inglese fluido e corretto. Io mi impunto sulla parola diffidenza: devo ricorrere al provvido piccolo "Collins" acquistato a Trieste (suspicion). Concorda, ma non tanto. I non serbi hanno ragione di diffidare dei serbi. Ci sono troppe prove delle loro ruberie, violenze e prevaricazioni. Esemplare il caso del Kosovo. E come si fa ad essere neutrali, come i Verdi di Belgrado? Dobbiamo sentire anche la campana dei kosovari contattati da loro. Sono qui per questo. Concordiamo sull'importanza del dialogo. E' bella e brava, nel suo tayeurino attillato in stoffa da divano. Gli amici si accertano intanto sull'ora del mio volo (17.15), cambiato ieri due volte. Non sono d'accordo sul numero della fermata (ma constaterò di aver visto giusto). Mi faccio dire comunque come si traduce "aeroporto" (letalnišce). Mi cambiano 500 nuovi dinari con pezzi più piccoli, per un totale di 5.000.000 di vecchi (non è comodo).

In volo per Belgrado

   Durante il volo la distinta signora accanto a me ha, in una gabbietta, un bel gatto grigio. Mi spiega, parte in inglese e parte in sloveno, che non è un "certosino", ma un "russian blue" a pelo corto, di un anno. Esce qualche volta dalla gabbietta: è molto nobile, ma a me - con tutta la simpatia che ho per i gatti - sembra un marziano, in questo Paese su cui incombe un'orribile guerra fratricida, che ha già fatto vittime e gravi danni. Gli aeroporti non presentano particolari inquietanti - a parte qualche soldato e qualche complesso di armi in vista. 
  Arrivo a Belgrado e non ho problemi con il mio piccolo bagaglio a mano (il mio fido sacco da montagna). Il bus parte subito e mi porta in breve al terminal. La città si presenta bene: grande, spaziosa, gradevole, moderna senza troppa sciatteria. Per andare al mio albergo percorro un piccolo tratto della Maršala Tita. L'Hotel Park è un tipico albergo nuovo dell'Europa Orientale, ben concepito e mal mantenuto. Scendo nella hall e incontro, come programmato, Giuseppe La Porta, il professore di filosofia foggiano, nonviolento, a Belgrado in questi mesi per una borsa sulla filosofia jugoslava contemporanea. Facciamo un piccolo giro passando per la sede dei Verdi nella Casa dello Studente, per i luoghi dei recenti scontri intorno all'antenna della radio, la grande chiesa di S. Marco, la chiesetta russa retrostante, la Skupština, la piazza della Repubblica. Per cenare andiamo, vicino all'albergo, nella Skadarska, una stradina pedonale costeggiata da ristoranti tipici. Gli amici Verdi non hanno previsto una cena in comune e hanno bensì riservato un tavolo per noi due ai "3 cappelli", che è appunto un antico ristorante turistico. Se non incombesse, nei nostri pensieri, la guerra - sempre più inevitabile - mi sentirei un perfetto e felice turista. Avevo conosciuto la Jugoslavia molti anni prima, nella versione marina-balneare della costa dalmata. L'interno, e in particolare la vecchia Belgrado, è tutto per me da scoprire e l'approccio avviene in un'atmosfera allegra, ma marcatamente diversa da quella dell'Europa occidentale: direi più vecchiotta, nonostante il bagno nel comunismo più ambizioso e volto al nuovo. I camerieri hanno un'aria innocentemente complice, l'insegna dei "Trois chapeaux" (noi mangiamo nel dehors sulla strada) ammicca ai viveurs di un tempo, con cilindri colorati. Gli avventori sono gente del posto, che può permettersi un pasto tradizionale, ma abbastanza caro. Qualche risata, conversazioni fitte. Giuseppe ed io ci troviamo a nostro agio nell'ambiente e fra noi, anche per quanto riguarda le analisi politiche che non possiamo esimerci dal fare. Tornando ci imbattiamo in un ubriaco caduto sui gradini di un sottopassaggio. Riverso, perde sangue dalla testa, ma è sveglio e tranquillo. Mentre ci guardiamo intorno, diverse persone sopraggiungono: la solidarietà non manca (penso a una scena simile a Torino: non so se il malcapitato avrebbe avuto una pronta assistenza): possiamo non sentirci impegnati e andiamo a nanna.

1° Maggio. Partenza in pullman alle 8 da una piazzetta vicina all'albergo. Siamo una quarantina. Incontro gli amici serbi conosciuti a Venezia. Arriva Alex, con il suo computer portatile.

   Un bel pezzo di autostrada, poi usciamo e facciamo una piccola sosta a Kragujevac.e successivamente attraversiamo Kraljevo (cittadina industriale). Tanta bella campagna non intensamente coltivata (pochi vogliono fare i contadini). Superiamo la Morava (del Sud) e ci addentriamo nella valle del suo affluente Ibar. Il paesaggio, prima dolce, si fa più aspro in una valle (nella quale avvisto rari lillà fioriti) dominata, nel tratto più infossato, da un'antica fortezza, che incute ancora, con le sue rovine grigie, un sinistro rispetto. Faccio una lunga chiacchierata con Alex e poi con Dejan. Saliamo per una stradina a visitare l'antico monastero di Studenica (anno 1187), culla della cultura serba, su una bella balconata prativa che domina la valle scoscesa, coperta da boschi di pini. Ci illustra le ricchezze artistiche  e culturali, con dovizia di particolari e di colti commenti, un monumentale pope, dalla rigorosa veste nera, barba nera fluente e voce soave, bassa, ben calibrata. Mi piacerebbe sentirlo cantare, ma già il suo eloquio serbo è molto melodico. Continuiamo per una strada tortuosa, un po' monotona, fra colline ripide, ricoperte da una vegetazione arborea non ancora completamente rinverdita. Quasi tutti dormicchiano e io non sono da meno.

Titova Mitrovica, squallore fatto città

Arriviamo a Titova (Kosovska) Mitrovica, squallore fatto città. Il primo approccio è con una miniera a cielo aperto (di piombo e zinco), dotata di due enormi ciminiere, con depositi scoperti di polvere di carbone e di non so che cosa, sul bordo di un fiume. La città è annunciata da cartelli in serbo e in albanese, nonché da piccoli depositi di immondizia ad ogni incrocio di strade e stradine. Si vedono alcune fabbriche da archeologia industriale, brutte case, polvere, edifici non intonacati, gente malvestita. Sugli edifici pubblici sventolano 4 bandiere: jugoslava, serba, albanese (rossa con aquila bicipite nera e stella rivelata da un contorno d'oro) e turca (rossa con mezzaluna e stella bianche).   Non sapevo che esistesse anche una minoranza turca. Giriamo intorno alla cittadina e imbarchiamo amici locali. Attraversiamo un sobborgo minerario (piombo e zinco) e arriviamo in un villaggio industriale in fondo a una valletta. Gli alberi delle colline sono bruciati, non si sa se dal fuoco o dai prodotti chimici. Torniamo a Titova Mitrovica perché la riunione che si doveva fare con i minatori del luogo è saltata a causa di un nostro ritardo di due ore. Ci sono trattative con alcuni poliziotti in macchina e riusciamo a improvvisare un'altra riunione in una scuola. Ci arriviamo attraversando una borgata piuttosto povera, con gente vestita alla turca. I bambini ci fanno il gesto della vittoria. Ci sono la televisione bosniaca (Jutel) e molti fotografi.

Il primo incontro

   Riempiamo l'aula magna di una scuola moderna, ma sporchetta. In un pannello di polistirolo è raffigurato un minatore che si staglia su uno sfondo costituito da una bandiera rossa con la data del 1° Maggio e una scritta incomprensibile in albanese. Sbirciando nelle aule vicine spiccano numerosi ritratti di Tito. Vari oratori di parte albanese dichiarano di essere molto contenti dell'incontro, perché credono che possa esserci pace fra i popoli, al di là degli errori dei governanti e dei partiti. Lo sostiene anche una radicale di Zagabria (Diana Rexhepi). Dragan Jovanovic (presidente dei Verdi serbi e capo delegazione)  dice di aver voluto da tempo questi incontri e di aver difeso gli albanesi a Belgrado. Adem Demaqi, il "Mandela" kosovaro, crede in particolare nell'azione dal basso e nel gradualismo.
   Un giornalista della nostra "carovana" chiede se è vero che 300.000 albanesi hanno attraversato la frontiera nell'ultimo anno. Un albanese lamenta fatti negativi: assistenza al parto negata, 12.000 minatori senza salario da settembre.
   Alex Langer insiste sull'importanza dell'azione interetnica dal basso, citando esempi sudtirolesi, con il prudente avvertimento di non pretendere che possano valere in pieno anche per situazioni distanti come quella del Kosovo. Parla - in albanese - un ingegnere minerario licenziato: "12.000 licenziati qui a Mitrovica, 53.000 nell'intero Kosovo. Situazione molto drammatica: i licenziati sopravvivono con la solidarietà di chi lavora. Non hanno assistenza medica. Hanno sempre cercato il dialogo e non hanno accusato (sic, almeno nella traduzione) il popolo serbo. Come dialogare se non su un piede di uguaglianza? Il figlio di 7 anni gioca con i compagni serbi. Chi ci rappresenta nel Parlamento della Serbia? Perché i serbi non si fanno interpreti dei nostri problemi? Temono la solidarietà con noi perché avrebbero difficoltà." Un professore testimonia sulla triste situazione della scuola per gli albanesi. Altre testimonianze approfondiscono il tema della discriminazione, ma nessuno si scalda. Parla un giornalista:"sui 53.000 licenziati ce ne sono sicuramente molti in eccedenza tecnologica, ma perché solo albanesi? C'è poi chi ha perso il lavoro perché non ha voluto partecipare al censimento, che è volontario, un medico perché teneva il registro in albanese, un conducente di autobus perché dava informazioni in albanese,... E' tutto provato. 53.000/60.000 è un terzo degli occupati del Kosovo (?). La politica della Serbia è sbagliata e aliena l'amicizia dei popoli intorno. La situazione precedente era diversa." Un minatore che parla albanese dice di aver lavorato nella miniera 26 anni e racconta i dettagli del licenziamento. Un'infermiera ha lavorato 20 anni in un ospedale, è stata premiata due volte come miglior infermiera, non è di nessun partito e ora è stata licenziata. Motivo: ha risposto a un'inchiesta sui diritti umani ed ha riferito sulla situazione del Kosovo. Un altro albanese ringrazia noi stranieri per aver avuto il coraggio di venire qui, ma chiede agli intellettuali serbi perché non sono venuti prima, dieci anni prima. Sono colpevoli quelli che sono arrivati con i carri armati. Cercate il colpevole. Dragan:"i carri armati spadroneggiano anche a Belgrado. Può essere che dopo questo viaggio il partito Verde non esista più. Cercheremo di testimoniare quello che abbiamo visto e sentito alle massime autorità". Un attore albanese che vive a Belgrado testimonia che là è difficile essere informati. Un vecchietto sdentato racconta antiche persecuzioni subite per la falsa accusa di essere un "cetnik": "mi hanno buttato in un pozzo e mi hanno tenuto lì per lungo tempo". La sala è strapiena: ci sono almeno 150 persone. C'è molta voglia di parlare, ma gli interventi si susseguono ordinati  e senza interruzioni. La gente dice cose drammatiche, ma con pacatezza. Nessuno si aspetta, né alcuno di noi promette, risultati concreti dalla nostra "carovana", ma l'iniziativa è apprezzata. Ci salutiamo amichevolmente.

Sono le 20.40. Prendiamo una strada accidentata di montagna per raggiungere la cittadina turistica di Pec, a pochi chilometri dal confine albanese. Un professore di antropologia e filosofia di Skopije (Ferid Muhic) sale con noi, insieme a Demaqi ed altri: L'antropologo, molto vivace e allegro, parla almeno cinque lingue e chiacchieriamo un po' in francese e italiano. E' un alpinista, che ha fatto il Bianco, l'Elbrus e varie altre cime nel mondo.

I preti ortodossi chiudono la porta

   I preti ortodossi del Patriarcato di Pec, che dovevano ospitarci, si rifiutano di riceverci: siamo arrivati troppo tardi (c'è qualcuno che pensa che abbiamo dato troppo retta agli albanesi). Andiamo in un albergo dall'aspetto nuovo e pulito, discretamente efficiente. Sto con Giuseppe in una bella camera moquettata. Cena un po'rozza, ma sana. Ci hanno raggiunto Branka Jovanovic, che ha accompagnato con la sua macchina due tirolesi arrivati a Belgrado in treno dopo la nostra partenza, e Michele Boato con la famiglia (in camper da Dubrovnik). Dopo cena facciamo il punto della situazione, scambiandoci le impressioni: concordiamo. Do a Alex e Dragan la documentazione e gli indirizzi della missione parlamentare slovena. Ad Alex do pure il documento dei friulani/giuliani. Concorda che è un buon documento, valido per la prossima riunione di Strasburgo, anche se troppo sbilanciato sull'autodeterminazione.

   2 maggio. Dopo colazione faccio un microgiro in Pec, circondata da imponenti montagne innevate. Accanto al nostro albergo c'è un piccolo bar-snack che si chiama MEG DONALD. (A Belgrado ci sono 3 veri "McDonald's"). Incontro Demaqi e scambiamo qualche parola in inglese. Vuol sapere quanti stranieri sono nel gruppo e apprezza che gli italiani siano una decina (non ci sono altri stranieri).

   Ripartiamo. Il tempo è bello. Attraversiamo paesi e cittadine. Casette basse e squallidi casoni. Dignitosa povertà. Il punto più basso resta Titova Mitrovica. Attraversiamo un altopiano verde. Verso l'Albania ci sono alte montagne. Me lo fa notare Giuseppe, ma gli dico il mio slogan (portato in vetta al Bianco con il bandierone del Parlamento Europeo insieme a Carlo Alberto Graziani): "Le montagne dividono gli stati, non i popoli". Vediamo molti mercatini all'aperto: frutta, due tacchini... Un piccolo monumento ricorda due eroi della resistenza, un albanese e un jugoslavo: può essere un simbolo da valorizzare.

   Una riunione nella scuola

   Arriviamo a Zhur, in una gradevole conca verde. Due macchine della Milicija (una ci ha scortato). Ci fermiamo in una piazza non pavimentata con una fontana e un abbeveratoio a livello del pavimento, con acqua fangosa. Qualcuno si lava piedi e scarpe. C'è un acre odore di bestiame: mi ricorda Korr, nel deserto del Kaisut in Kenia. Molte donne sono in attesa dell'acqua con dei recipienti di plastica. Andiamo verso la scuola. Dalle case, dagli usci semiaperti, occhieggiano bambini e donne in braghesse (già viste da Mitrovica in poi). Molti ci fanno il segno di vittoria con l'indice e il medio. Davanti alla scuola c'è una piccola folla e la televisione di ieri - "Jutel". Ci sono tutti i maschi del villaggio. Stringiamo le mani che ci porgono gli anziani, barbe bianche come gli  zucchetti di lana che tengono fieramente in testa, a cupolina o ripiegate a fez, ultimo residuo dei costumi tradizionali. Qualcuno ci dà il benvenuto in italiano. Si potrebbe stare al sole davanti alla scuola, ma ci vogliono all'interno. Entriamo in un'aula seminterrata, dominata da un grande ritratto di Tito, qui ancora onorato perché sostenitore della convivenza interetnica. Hanno spostato i banchi , trasformando l'aula in una specie di refettorio, con bottigliette di bibite per noi. Il locale è strapieno: quelli che non han trovato posto si affollano di fuori, intorno alle basse finestre.

   La riunione comincia con poche parole di benvenuto: "..sono tre anni che non si facevano riunioni così." Un rappresentante locale legge un lungo documento sulle discriminazioni e repressioni.Nel tragico marzo 1989 sono stati trascinati in prigione dei bambini, di 6,7 e 8 anni e persino di 6 e 8 mesi,  per semplici espressioni verbali. Tutti in piedi per qualche secondo per onorarli (slavé!). Ma la polizia ha anche sparato sugli inermi. C'è un elenco di morti e si ripete la cerimonia. Tutti in piedi: "slavé!". Tre giovani salgono su una sedia per mostrare cicatrici sul petto dovute ad armi da fuoco. Un padre descrive dettagliatamente gli scontri e precisa che per ottenere il corpo del figlio morto ha dovuto firmare una dichiarazione che scagionava la polizia. Molti hanno perso il lavoro e con questo il diritto alle previdenze sociali, alla stessa assistenza medica. Vivono per la solidarietà di chi ha ancora un lavoro e un reddito. Mi hanno prevenuto (da parte serba) sulle drammatizzazioni e su vere e proprie documentazioni false (per esempio: feriti di incidenti stradali fotografati e fatti passare per "feriti dai serbi"). Mi sembra però di sentire qui accenti di verità.

"Vogliamo l'autonomia" 

   Dopo la rievocazione degli scontri si passa a una solenne richiesta di autonomia (completa) nella "Federazione Jugoslava" (se ho capito bene leggendo il testo in serbo) e iniziano gli interventi sul "che fare", in gran parte simili a quelli ascoltati ieri. Dragan dice che siamo qui per evitare nuove tragedie e addita  ad esempio l'equilibrio e la generosa apertura di Demaqi, che pure ha tanto sofferto (Grande applauso). Anton Qetta (o Çetta), impegnato contro le faide, indica 3 principi: libertà, uguaglianza e giustizia. Ferid Muhic (il primo che ha scritto dei fatti di Zhur) insiste sul dialogo fra serbi e albanesi e anche fra albanesi, eliminando le faide. Un problema: la disinformazione. Un giovane smilzo, non tanto alto, mostra una cicatrice da pallottola. Anche un ragazzo. Un omone ha cercato di portare feriti all'ospedale, ma la polizia non lo ha permesso. L'auto era piena di sangue. Circolano foto di feriti. Un uomo mostra la pallottola che l'ha ferito. Si parla anche di avvelenamento con gas. (?) Entra ancora un altro testimone. La stanza è strapiena. Molti,  fuori, sono ammassati alle finestre. Il testimone descrive dettagliatamente i fatti. Per avere il corpo del figlio morto ha dovuto scagionare la polizia. La professoressa di antropologia  belgradese Zagorka Golubovic introduce il problema dell'emotività. Coll'emotività anche i bambini si politicizzano. -Interruzioni (emotive?) - Una prima risposta: "è vero che i bambini si politicizzano, ma da entrambe le parti. E non sono responsabili. (...) Uno degli albanesi fa presente la debolezza dell'opposizione: come può aver successo il dialogo? Dragan cerca di rispondere. Alex Langer ripete il discorso di ieri, introducendo l'esempio delle vicende sud-tirolesi. (...) Demaqi dice che è giusto non riporre più speranza in che ci governa, ma che dobbiamo ancora sperare nell'opposizione e continuare nel dialogo. Non è nell'interesse dei serbi avere qui degli schiavi.

I bambini senza insegnanti

   Uscendo dalla scuola la barba più bianca del villaggio mi abbraccia con calore quando viene a sapere che sono italiano. Un altro che parla bene il francese mi spiega che durante la guerra gli occupanti italiani si sono comportati più che civilmente ed hanno aperto le scuole albanesi. Branka Jovanovic ci dice che per le scuole proporranno al governo serbo di trovare una formula per non far perdere ai bambini quest'ultimo anno scolastico. In effetti i nuovi programmi imposti sono stati rifiutati dagli insegnanti albanesi, che in gran parte sono stati licenziati e privati dello stipendio. C'è il braccio di ferro fra le due parti e ci scapitano i bambini, ma finora gli albanesi erano in qualche modo interessati ad avere altre vittime. Se si riesce a spuntare qualche favorevole cambiamento si dà un segnale forte che il metodo del dialogo è giusto e che iniziative come la nostra servono. Il prof.Miladin Zivotic è però scettico perché l'opposizione è debole: come si fa a dialogare?

La tomba dello zar Dusan

   Riprendiamo il viaggio e dopo un po' di campagna ben coltivata arriviamo a Prizren, con la sua bella moschea antica ed altri nobili monumenti. Li vediamo solo di fuori, non ci fermiamo e ci addentriamo in una gola. In un'ampia ansa del torrente troviamo esigui ruderi di una cittadella e la pietra tombale dello zar serbo Stefano Dušen (o Dusan), i cui resti sono a Belgrado nella chiesa di San Marco. Tra il 1331 e il 1335 la Serbia di Stefano Dušen si era ingrandita a dismisura, assorbendo la Macedonia, la Tessaglia, l'Epiro e l'Albania, ma lo scontro con gli emergenti turchi Ottomani, culminato nella mitica battaglia del Kosovo del 1389 aveva rapidamente distrutto il nuovo impero slavo. I serbi da allora considerano il Kosovo sacra terra patria e sembrano disconoscere che accanto al Principe serbo Lazar si erano generosamente battuti il Re bosniaco Tvrko, il Voivoda romeno Mircea, nonché i Conti albanesi Balsha e Jonima. Il luogo di morte dello zar, nella valle ombrosa, è triste come si conviene, ma al tempo stesso è prorompente di vitalità vegetale, nello splendore di maggio. Un sacchetto di immondizia fa bella mostra di sé accanto alla tomba, sull'erba smeraldina. Roccia grigia e vegetazione fanno pensare alla Corsica (la scala di Santa Regina). La gola, prima molto stretta, si apre e appaiono sullo sfondo le montagne innevate. La carovana lo è ora di nome e di fatto. Sul versante della montagna sulla quale ci inerpichiamo apre la strada il nostro pullman, seguito dalla caravan di Michele Boato e dal taxi di Demaqi. Il panorama è sempre più aperto. Il versante opposto ha tutte le cime bianche e nella valle un villaggio musulmano fa nota di colore, con la sua moschea bianca e l'alto minareto. Arrivati a un valico scendiamo per una valle ricoperta di faggi.

In contro con la comunità serba di Štrpce

Alle 14.40 giungiamo ad una piccola stazione turistica e mangiamo in una specie di chalet svizzero, nel quale si apre un'interessante conversazione in italiano con Anton Qetta (o Çetta ?), vecchio professore albanese folklorista, che ci intrattiene  sulla complessa realtà culturale e psicologica della regione e sulla lotta che lo impegna contro le faide . Ci servono alle 17 e arriviamo in ritardo all'appuntamento con la pur vicina comunità serba di Štrpce, ma facciamo comunque la riunione. Siamo anche qui in una scuola, in una piccola aula. Apre la riunione Muhic, che spiega gli scopi della carovana.
Dragan si scusa per il ritardo, accenna all'incontro di Zhur e spiega la posizione dei Verdi sul pericolo di guerra civile e sui modi di salvaguardare la pace. Maliqi afferma vigorosamente che è possibile l'accordo fra i popoli. Si aprono gli interventi dei locali (23 persone prevalentemente sui 50-60 anni, abbastanza "ben messi". Un vecchietto dà il benvenuto e dice che che con gli albanesi le cose son cominciate a andare male con la seconda guerra mondiale e con la resistenza. E' d'accordo sul dialogo con gli albanesi, che devono però convenire sul rispetto reciproco. Un altro anziano parte dai monumenti: è il cuore della Serbia. Un terzo fa presente che la presenza serba qui è diminuita perché c'è timore degli albanesi, anche quando la maggioranza è serba. Sul problema di Zhur, bisognerebbe sapere che cosa esattamente dicevano quelli (i serbi?, mi domando) di Zhur. E la polizia? chiede uno di noi. Un giovane dice che gli albanesi non sono così poveri come sembra. Alcuni ci rimproverano di avere nel nostro gruppo Maliqi, che è dichiaratamente a favore degli albanesi. I morti e feriti di Zhur avevano assaltato il posto di polizia: qui ormai sono in maggioranza. Però la situazione attuale è intollerabile. Uno dei serbi dice che è impossibile dare "una mano di pace" agli albanesi finché questi dicono che questo è il loro paese. Inoltre non è vero che il 30% degli albanesi ha perso il lavoro. Afferma tuttavia che "vogliamo la pace con loro". 

Simpatia per le parole di Alex

   Alex ripete il suo discorso e così pure Diana Rexhepi. L'intervento di Alex è accolto con simpatia, perché è un ecologista, ma gli si fa notare che "qui le foreste sono state distrutte dagli albanesi, che hanno rubato il legname". Domanda di una del nostro gruppo: "distrutte o bruciate? per il 40% sono private e il taglio degli alberi è un diritto". Il prof. Miladin  Zivotic dice che lo sviluppo degli albanesi e delle loro proprietà e il corrispondente ritiro dei serbi è stato pacifico, senza violenze (hanno comprato la terra e l'hanno lavorata,...). "Il vero problema è comune ai serbi e agli albanesi: è il totalitarismo. Non possiamo lasciare la soluzione dei nostri problemi ai presidenti delle sei repubbliche". Un altro serbo sostiene che è impossibile la pace fra serbi e albanesi. "Questi distruggono chiese e tombe". Alla fine i toni sono concitati e gli interventi si sovrappongono. Un serbo si alza e dice che si può essere in pace se gli albanesi riconoscono la Jugoslavia. La riunione si scioglie. In un mio colloquio diretto (in uno stentato tedesco da entrambe le parti) con l'unico giovane presente, questo insiste sulle bugie albanesi. Sembra che la mancanza di giovani alla riunione sia stata una scelta degli organizzatori locali: hanno fatto venire solo gli ex resistenti comunisti, responsabili del fallimento politico e scontenti. Un gruppo di giovani della carovana decide di rimanere e di parlare ancora con la gente. Intanto Dragan Jovanovic con un gruppo rappresentativo dei partecipanti alla carovana si era spostato a Stuble, per l'appuntamento con gli albanesi cattolici di tale località.

Si va a per Priština

   Sono le 20.40 e partiamo direttamente per Priština. Chiacchieriamo di filosofia e politica con Giuseppe La Porta e la dolce Olja, moglie di Dragan, anche lei laureata in filosofia, che parla un buon italiano. Dopo una curva Priština ci appare dall'alto. Sembra più grande di quello che è (150.000 abitanti), con i suoi alti edifici centrali (case statali, abitate dagli impiegati e funzionari serbi) e le piccole case a uno o due piani sparse sulle collinette della conca. Ci fermiamo davanti al monumentale albergo Priština (5 stelle) e andiamo a piedi in una boite de nuit, il "Trussardi club", con tanto di cane attorcigliato. E' un buco sotterraneo con tanta bella gioventù che beve bibitine e ascolta musica jazz ad alto volume. Folklore moderno. Alex, Giuseppe ed io siamo ospiti di una famiglia albanese che abita in un'ampia villetta sulla collina, con bella vista sulla città. Ci accoglie la moglie, giovane, grande, solenne. 

   Entrando ci togliamo le scarpe. La casa è cosparsa di eleganti tappeti nuovi di disegno tradizionale ed è arredata con qualche pretesa. Il padron di casa, Ramush Mavriqi, un giovane alto e magro (saprò poi che è professore a Priština di filosofia etica), ha lavorato in Germania e parla un buon tedesco. Capisco direttamente il filo del discorso, ma il mio tedesco è molto scarso e Alex è troppo bravo a tradurre, con una fantastica esperienza di traduttore alle spalle (in Alto Adige ha avuto grandi successi nel suo tentativo di rompere la barriera fra le due etnie, mescolando continuamente persone che parlavano e scrivevano le due lingue - tre col ladino -  con comprensione diretta a vari stadi e con l'indispensabile aiuto di disinvolti interpreti come lui). Gli sposi hanno un bel bambino di 4 o 5 anni. Ci offrono the e dolcini di tipo turco. Ascoltiamo il notiziario radio delle 24 sui nuovi scontri di Knin: 3 morti fra gli uomini della polizia militarizzata croata. Le voci erano peggiori, ma siamo preoccupati.

I quartieri separati

   Il cortesissimo ospite ci spiega diversi aspetti della vita a Priština. I quartieri serbi e albanesi sono nettamente separati. Così sarebbe più facile bombardare quelli albanesi. Le prepotenze sono diffuse e palesi. Per esempio il Palazzo della Gioventù (un edificio moderno e pretenzioso, dal tetto nero con una serie di cuspidi abbinate, che si vede bene dalle finestre) è stato costruito con i soldi di tutta la cittadinanza, ma, dalla sospensione del Parlamento del Kosovo, viene gestito unicamente da serbi, che ne vietano l'uso per riunioni di albanesi.  Si diffonde sui problemi della scuola e ci dà interessanti informazioni di prima mano (è stato ufficiale) sull'esercito federale ("la settima repubblica" secondo Zaro Pregelj, deputato Verde sloveno che ho incontrato a Trieste). E' tra i più forti d'Europa, sia per organizzazione e tecnologia, che per qualità di armi, in parte prodotte direttamente, con un ottimo know-how anche per la manutenzione (grave punto debole, invece, per Saddam). La "difesa popolare" è stata invece abolita e gli albanesi del Kosovo sono pertanto del tutto disarmati. Inoltre il governo federale possiede, in Bosnia, un arsenale abbastanza importante di armi chimiche.

E' tardi e andiamo a dormire. C'è un bagno moderno e pulito, ma secondo l'uso orientale non si usa carta igienica, bensì l'acqua proveniente da un apposito rubinettino basso situato nella toilette alla turca. In tre abbiamo due grandi stanze e dormiamo benissimo su tre divani letto (ho portato inutilmente materassino e sacco a pelo). Da un calendario-manifesto appeso a una porta Skanderbeg e altri due eroi albanesi veglieranno su di noi.

3 Maggio. Caffè alla turca e salutiamo la signora. Il padron di casa ci accompagna invece con la sua macchina tedesca non ancora immatricolata qui, perché costa 11000 dinari: la fa viaggiare a queste ore (prima delle sette) perché teme la polizia. Anche la benzina costituisce un problema, perché è difficile da trovare (c'è chi ha dovuto attendere anche dieci ore prima di poterla ottenere.

I giornali parlano di scontri a Vukovar

   L'appuntamento è davanti all'albergo Priština. Aspettando gli altri entriamo nella hall. Dai giornali apprendiamo che ci sono stati scontri fra serbi e croati a Vukovar, fra Osijek e Novi Sad: 35 morti. E' l'inizio della guerra civile? I giornali non parlano della Krajna. Dalla radio sapremo poi che tutto è sotto controllo. Andiamo in un sobborgo  (Lipljani) per incontrare un'altra comunità serba.  Goran ha telefonato a un conoscente, che doveva organizzare la riunione, ma davanti alla scuola dell'appuntamento (vicina a un comando di polizia) non c'è nessuno. Goran ritelefona  e viene a sapere che anche la polizia aveva dato l'O.K., ma che nessuno ha voluto incontrare noi zeleni (verdi), che parliamo con gli albanesi. Il paese è fedele al P.S.S. di Miloševic. Il nostro contatto ci dà un appuntamento personale lì vicino, ma non si fa trovare. Ripartiamo. Ci siamo intanto ricongiunti con i giovani rimasti a Štrpce. Questi hanno parlato con altri serbi (anche giovani) e han scoperto che il problema con gli albanesi non esiste localmente: gli abitanti della località sono solo serbi. Sono un po' irritati con gli organizzatori: hanno l'impressione che ci abbiano condotti da serbi non tipici per non smascherare le bugie albanesi (sembra: a me non l'hanno detto). Vengo a sapere che in effetti l'incontro è stato improvvisato in occasione dell'ultima tappa. I contatti nel Kosovo sono difficili e non è strano che i capi del nostro gruppo non siano riusciti a trovare le persone giuste di parte serba. Il gruppo che ha incontrato gli albanesi cattolici a Stuble è rimasto ammirato del luogo e della messa in scena. Stuble è in cima a un monte e la riunione, molto ampia (200 persone?), si è svolta nella chiesa, a lume di candela, in una dorata scenografia bizantina che convergeva sul vescovo locale. E' stato meno spontaneo che negli altri centri: hanno parlato i capi a cominciare dal vescovo (per noi Dragan e altri), un poeta albanese ha recitato versi e si è inneggiato alla pace.

La basilica bizantina di Gracanica

   La radio dice che "l'ordine regna a Vukovar": l'esercito federale ha la situazione sotto controllo. Attraversiamo la verde pianura di Priština e giungiamo all'antica basilica bizantina di Gracanica (1321). La visitiamo con l'appassionata assistenza di una religiosa rotondetta, tutta vestita di nero, con un velo in testa che lascia traparire solo l'ovale del viso. I magnifici affreschi sono stati un modello valido anche per la Russia e la religiosa ce li descrive con dovizia di particolari, soffermandosi anche sui significati principali delle immagini  e  sulle vicende storiche che hanno coinvolto la costruzione. In particolare ci mostra il luogo, scoperto dopo secoli, in cui i "barbari" turchi aprirono un piccolo varco,  trafugando il ricco tesoro d'oro (nove quintali: ci vollero nove cavalli per portarlo via). Uscendo, sul muro di cinta, notiamo una lapide bilingue serba e albanese: la parte albanese è imbrattata vistosamente.

L'ultima riunione all'università di Priština

   Ritroviamo tutti gli altri a Priština, dove torniamo per la riunione finale presso la facoltà di lingue. Brutto edificio, molto sporco. Apre la riunione Ferid Muhic, poi Alex fa il suo discorso, con nuovi dettagli e rinnovato calore. Uno del nostro gruppo fa presente la difficoltà di ottenere comunicazioni corrette e dà atto che la nostra carovana è stata ben accolta. In particolare cita l'esempio di tolleranza di Demaqi. Dragan si presenta (ha fatto parte del "68 di Belgrado"), parla di queste giornate e nota che ci sono state riserve da parte dei serbi. E' un Verde, ma la carovana è venuta qui in missione umanitaria al disopra dei partiti, con diversi intellettuali e giornalisti indipendenti. Valorizza l'intervento di Langer e auspica che si possa inviare una delegazione nel Sud Tirolo. E' importante fare cose insieme: a favore di opere utili (come un certo viadotto) e contro opere inutili (come una certa nuova centrale termoelettrica). 

   Per loro Verdi di Belgrado  si è trattato di superare notevoli difficoltà e rischi per venir qui, a parlare con gli albanesi, e si affronteranno altri rischi al ritorno. Demaqi: più importanti iniziative come la nostra che tante parole dei politici, più importante la qualità della quantità. Valide anche le iniziative di pochi. Ama i fratelli serbi, perché ama il suo popolo. E' stato un buon esempio di tolleranza la pazienza dei minatori di Mitrovica per il nostro ritardo. Ci è stato rimproverato (a Zhur) di politicizzare i bambini, ma è la situazione che porta a questo. Spera che la tolleranza eviti tutto questo: è con la tolleranza che vinceremo. Staša Zajovic di Belgrado ("donna in nero") parla dei problemi delle donne (in generale e in particolare per il Kosovo: pare, tra l'altro, che qui ci siano tentativi per ridurre forzatamente la natalità degli albanesi). La professoressa Golubovic ringrazia. Qualcuno dice che questa riunione avviene troppo tardi, ma non lo pensa. Due giorni sono pochi per tirare delle conclusioni, ma considera di aversentito parole sincere: come antropologa lo può dire. Certo ci sono due mondi diversi, che vedono le cose in modo che ci siano due verità. Il dialogo è difficile: per gli albanesi che hanno avuto dei morti e per i serbi che hanno paura. E' vero che molti hanno perso il lavoro e che le scuole sono chiuse? Demaqi: non ci sono intellettuali serbi del Kosovo perché c'è paura.

"La logica di blocco blocca la logica"

   La logica del blocco blocca la logica, come dice Langer. Spiega come è difficile stare all'opposizione. Scritte albanesi vengono cancellate, ma guai se gli albanesi cancellano una scritta serba. Un universitario albanese: non si fa più il 4° e 5° anno di medicina a Priština perché i professori albanesi non hanno accettato di fare lezioni in serbo. Ramush Mavriqi (il nostro ospite per la nottata: professore di  filosofia etica): la repressione nella scuola sta riducendo gli universitari di Priština (in breve da 27.000 a meno di 20.000) col sistema del numero chiuso (65 % riservato ai serbi e 35% agli albanesi), perché la cultura è contestativa. Anche sulla scuola media si sta esercitando una forte pressione. Io aggiungo poche parole nel filone dei discorsi che fa Alex. Remsi Bakalli, professore albanese di agricoltura, membro dei verdi del Kosovo, chiede perché i verdi sono così poco presenti: qui ci sono molti problemi ecologici. I verdi devono far pressione sul Governo.
   Dragan: c'è il pregiudizio che gli ecologisti non devono occuparsi di politica e avere un programma minimalista. E' stato considerato un traditore per la sua posizione sulla guerra del golfo. Ha provato a collegarsi con il partito democratico, ma questo ha la stessa posizione del PSS (Partito Socialista Serbo). Quando tornerà a Belgrado cercherà di incontrare Miloševic e di far pressione su di lui, ma è scettico. Uno della nostra carovana rilancia la proposta già presentata da Branka Jovanovic a Zhur di trovare una formula per non far perdere ai bambini quest'ultimo anno scolastico, che non han potuto frequentare. Testimonianza di Greta Kaqinari, un'insegnante che lavora in situazioni molto difficili, perché i ragazzi serbi sono a un livello di preparazione e gli albanesi a un altro. I sistemi di valutazione sono inoltre discriminanti con gravi conseguenze economiche. 

Facoltà di medicina: 1210 licenziati...

   Altro intervento sulla facoltà di medicina: 1210 (!?) persone fra professori, assistenti, lavoratori vari licenziati o comunque privati del lavoro. (....) Avvocato albanese: discriminazione basata sul jus utendi et abutendi. Anche  la proprietà privata è limitata per gli albanesi. Filosofo: come sono originati i conflitti. Geografo: gli albanesi non sono una piccola minoranza: in Jugoslavia sono il 10 - 12 %. Alex Langer, in risposta a chi gli aveva contestato di voler regalare uno stato agli albanesi: avere uno stato nazionale alle spalle può essere utile, ma non è indispensabile. Non è possibile che ci sia "ogni popolo uno stato".
   Bene il federalismo europeo e, naturalmente, la difesa delle minoranze. Sdrammatizzare l'importanza dei confini. Belgradese: gli albanesi considerano minimale l'autonomia del Kosovo nella Jugoslavia. Così gli estremisti serbi rivendicano la "Grande Serbia". Non è possibile il dialogo. Nataša Markovic (giornalista di Belgrado): la Grande Albania o la Grande Serbia si ottengono solo con la guerra civile. E' colpita dalle testimonianze udite e propone una tavola rotonda a Belgrado fra intellettuali serbi e albanesi. La sua casa del Kosovo è stata bruciata dagli albanesi durante la guerra, ma è per il dialogo. Muhic corregge espressioni quali "il popolo albanese mi ha bruciato la casa" in "alcuni albanesi mi hanno...."  Anton Çetta chiuderebbe in questo modo: "non è per il dialogo chi dice: ...dialogo, ma..." L'autore di questa espressione (uno della carovana) precisa che l'espressione ha tradito il suo pensiero: è per il dialogo senza limitazioni. Un serbo della carovana propone di prolungare il soggiorno, ma di parlare anche con i serbi. Non si possono ammettere due verità. Muhic evidenzia le difficoltà di dialogo con i serbi della nostra carovana. Siamo alla fine della riunione e Giuseppe La Porta fa appello al comune senso di umanità di tutti per raccogliere aiuti a favore dei danneggiati dal tifone che ha imperversato nel Bangladesh. Primi saluti.

Si riparte

  Andiamo a piedi in un ristorante della "passerella", che è la "galleria" di Priština (o meglio una specie di bazar): un budello coperto, con negozi squallidi, due "pizzeria" (con "spagheti" e "cappuccino"), il pesapersone (una persona seduta con bilancia fra le gambe) e altre curiosità da terzo mondo. Pennellata di colore nel "boulevard" appena percorso: da una macelleria un uomo scarica nell'ampia ex fioriera davanti al negozio una mezza dozzina di scheletri appena spolpati di grandi animali (cavalli?). L'interno del ristorante è decente e mangiamo buona carne. A tavola vengo a sapere che la radicale di Zagabria aveva protestato stamattina, perché qualcuno del nostro gruppo aveva preferito dormire a Štrpce per non essere ospitato da albanesi. Pare purtroppo che sia stato detto, perché nessuno lo contesta. Credo però che non sia la sola ragione: c'era la voglia di approfondire il dialogo coi serbi. Scambiamo indirizzi e qualche informazione con i Verdi del Kosovo. Saluti calorosi e partiamo. Sono le 18.

Alex scrive un comunicato stampa in tedesco e in italiano

   Durante il viaggio Alex scrive, contemporaneamente in tedesco e in italiano,  nel suo computer portatile predisposto ai testi bilingui, una bozza di comunicato stampa sulla carovana e la sottopone a noi italiani. Rispecchia bene lo spirito, gli obiettivi e anche le difficoltà incontrate e abbiamo poco da aggiungere e togliere. Arriviamo alle 21.40 a Kragujevac, dove scende un primo gruppo di partecipanti. Ci fermiamo un po' e ci facciamo un gelato in un'affollata e ben fornita cremeria. Una delle partecipanti di Kragujevac ci fa visitare il suo atelier di moda, proprio di fronte alla gelateria. Tipico chic jugoslavo: abiti da sposa e da cerimonia. Nel laboratorio le pareti sono piene di ritratti di parenti. Molte fotografie sono piuttosto vecchie e ritraggono personaggi caratteristici, balcanici e anche austroungarici. Prima di separarci dai partecipanti di Kragujevac un gruppetto di donne, fra cui la piccola, vivace sarta, improvvisa nella piazza un coretto patriottico, che ad ogni couplet inneggia alla Srbija! Non ne ho capito alcun'altra parola, ma non mi sembra proprio una buona conclusione della carovana.

Il rientro a Belgrado, l'incontro con i dirigenti verdi

   E' circa mezzanotte quando arriviamo a Belgrado.  Dopo i saluti i dirigenti verdi belgradesi, Alex ed io ci ritroviamo nel nostro  hotel (Slavia) per mettere a punto l'incontro del 17 a Strasburgo. C'è qualche problema diplomatico con il neonato partito verde del Kosovo (in quanto neonato) e con i verdi sloveni. Viene fuori che quelli di Belgrado hanno aiutato quelli di Lubiana nella loro campagna elettorale ed hanno anche  piantato dei simbolici tigli sloveni in un parco di Belgrado.
   Li hanno poi invitati a partecipare all'organizzazione a Belgrado di una riunione federale dei verdi jugoslavi, ma sono stati snobbati e la riunione si è poi svolta, invece, a Venezia, in margine a una riunione internazionale dei Verdi (quella alla quale ho partecipato anch'io). Anche per la battaglia contro la centrale nucleare di Krsko non si è riusciti  a organizzare qualche cosa insieme. Ci sono poi il dissenso manifestato a Venezia e le diffidenze sulla carovana nel Kosovo. Dico che proprio la carovana con le nostre testimonianze può favorire un nuovo clima. Farò telefonate diplomatiche a Bergamaschi (esponente dei Verdi italiani nell'organizzazione internazionale) e a Mioni (esponente dei Verdi friulani) e invierò agli sloveni il comunicato stampa di Alex sulla carovana, con un mio commento.

Si torna a casa, Alex va in Israele 

   Alex, che durante la carovana aveva ricevuto in dono una riproduzione di icone della basilica di Gracanica, ricambia con una tavoletta riproducente antichi salmi ebraici (ne porta alcune nella sua missione in Israele). Dejan Popov, rimasto silenzioso per tutto il viaggio di ritorno (per ragioni sentimentali -  mi ha confessato - che l'hanno distratto anche dalle vicende del Kosovo) si entusiasma (è stato un anno in un Kibbuz) e si mette a cantare uno dei salmi. "E' giusto - fa notare Alex : è ormai sabato". Abbiamo superato l'una di notte. Domani/oggi Alex va in Israele via Zurigo e io metto la sveglia alle 6 per informarmi bene sui voli e decidere come tornare a Torino. 


   o
(Alex Langer)
Ho scritto questi appunti "in diretta" e nelle riunioni mi sono avvalso quasi esclusivamente delle traduzioni sommarie effettuate - con scioltezza e precisione - da Staša Zajovic di Belgrado (in italiano) e da Teuta Arifi di Tetovo (Macedonia) (in francese).
 La citata riunione dei Verdi jugoslavi a Strasburgo (del 17 Maggio 1991), presso il gruppo dei Verdi al Parlamento Europeo, alla quale fui presente, si svolse con la partecipazione dei belgradesi (Dragan Jovanovic, Goran Kostic e Dejan Popov), dei croati (Nikola Viskovic, Vladimir Lay, Ezio Giuricin e Maurizio Tremul: gli ultimi due di etnia italiana di Rijeka) e di uno sloveno (Leo Seserko). Non dei kosovari che non avevano ottenuto l'autorizzazione a lasciare il paese (pare). La riunione vide burrascosi contrasti tra i serbi da una parte e il blocco (più o meno compatto) di tutti gli altri sul tema dell'indipen-
denza, negata dai primi e rivendicata dagli altri. Il più ostinato fu il giovane Dejan Popov, che per primo parlò di necessità di scendere in 
guerra in caso di dichiarazione unilaterale di indipendenza. 
Alla fine si arrivò
a un documento comune, politicamente debole, imperniato sulla necessità di un dialogo a oltranza.

Vittorio Castellazzi


I PARTECIPANTI
ALLA CAROVANA
DI PACE DEL  '91
(Elenco incompleto)

Alexander LANGER - deputato europeo (gruppo dei Verdi)

Adem  DEMAQI - presidente della "Società per i diritti umani" di Priština

Dragan JOVANOVIC - filosofo - presidente dei Verdi serbi; responsabile della "carovana"
Olja JOVANOVIC - filosofa - moglie di Dragan - Verdi di Belgrado

Branka JOVANOVIC - sorella di Dragan? - Verdi di Belgrado

Dejan POPOV - studente - Verdi di Belgrado

Goran KOSTIC - studente - Verdi di Belgrado

Diana REXHEPI - radicale di Zagabria

Miladin ZIVOTIC - filosofo di Belgrado - rivista "PRAXIS"

Zagorka GOLUBOVIC - antropologa di Belgrado

Nataša MARKOVIC - giornalista di Belgrado

Staša ZAJOVIC - "donne in nero" di Belgrado

Teuta ARIFI - studentessa kosovara di Tetovo

Shkëlzen MALIQI - professore - segretario del Partito Social-
democratico del Kosovo

Anton ÇETTA  (o Qetta)- professore di etnografia e folklore - Priština?

Ferid MUHIC - professore di antropologia di Skopije

Ramush MAVRIQI - professore di filosofia di Priština

Michele BOATO - consigliere regionale Verde del Veneto - Mestre

Maria e Chiara BOATO - moglie e figlia di Michele Boato

Cristina HERZ - Verde del Süd Tirol/Alto Adige
Günter BAUR - Verde del Süd Tirol/Alto Adige

Vittorio CASTELLAZZI - consigliere federale dei Verdi - Torino


 Torino, redatto in base agli appunti
del 1991
nel marzo 1999

 
 

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Kosovo
24 marzo 2000

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