ile interviste

"La mia fuga dalla pulizia etnica il 25 marzo 1998"
Sabrije Hasanramaj, insegnante kosovara, racconta la vita a Strellc, le violenze, l'incendio...
 


di TRITAN MYFTIU

   Qual è l’attività professionale che ha svolto fino al momento in cui si è allontanata dal Kosova (Kosovo, nella dizione in lingua albanese ndr)?

   Ero insegnante di lingua e letteratura albanese nella scuola media di Strellc in provincia di Deçan. Le condizioni nelle quali io ho svolto la mia attività professionale sono state difficilissime. Abbiamo insegnato ovunque c’era un po’ di spazio: nei garage, nelle cantine, nelle case non ancora costruite, in quelle abbandonate o, nei casi migliori, in quelle generosamente offerte da chi ne aveva in abbondanza a causa dell’emigrazione galoppante.

   Durante gli anni della sua vita lavorativa lei è stata sempre pagata dal fondo del governo di Rugova?

    Si, sempre. Per un anno, all’inizio di questa resistenza pacifica, abbiamo lavorato gratis. Così hanno deciso tutti gli insegnanti e i professori del Kosova, quando Milosevic, con la sua riforma costituzionale, ci ha negato l’autonomia e con essa anche il diritto di studiare e insegnare nella nostra lingua. Le scuole in lingua albanese furono chiuse e gli insegnanti licenziati. Noi, comunque, decidemmo così, pensando al grande bisogno che aveva di noi la “nuova generazione”. Pensammo che continuando a insegnare nella nostra lingua, almeno si evitava il rischio di crescere una generazione analfabeta. La cosa peggiore fu la persecuzione della polizia serba. Ogni insegnante albanese, quando usciva alla mattina per andar a lavorare, non sapeva se alla sera tornava a casa o no. La situazione si aggravò l’ultimo anno, quando gli scontri tra le forze serbe e l’ UÇK si intensificarono. Con la scusa del miglior controllo del territorio, piantarono una postazione a 20 metri dall’entrata della scuola. Cosi, ogni mattina, alunni e insegnanti, passavamo in mezzo ai poliziotti, con le facce dipinte di nero, che ci offendevano e sfottevano. 

   Quando avete deciso di andare via da Strellc  e perché?

   Il 25 marzo del 1998 il nostro paese fu attaccato dalle forze serbe. Il giorno prima ingenti forze militari e paramilitari serbe avevano assaltato un paese vicino al nostro.  Libeniq fu raso al suolo e alcuni dei suoi abitanti massacrati. Alle 12 cominciò l’attacco e poco prima riuscimmo ad allontanare i bambini dalla scuola. Tutti gli abitanti del paese, non in grado di combattere, si sono radunati in alcune case più riparate e vicine alle vie di fuga. I maschi avevano deciso di resistere, armi in pugno. E’ stato il giorno più triste della mia vita. Eravamo in una casa grande, la casa dello zio di mio marito, tutti donne, vecchi e bambini. Tremavo tutta stringendo attorno a me i quattro figli che piangevano. Nella mano sinistra tenevo una bomba a mano, alla quale dovevo togliere la sicura se dei militari serbi si fossero affacciati alla porta del cortile. Tremo ancora quando penso che dovevo ammazzare i miei figli, ma era l’unica soluzione rimasta per non cadere nelle mani di quelle belve che avevano dato prova della loro ferocia nelle precedenti guerre. Cosi ognuna di noi aveva una bomba in mano. La battaglia durò per otto interminabili ore. Alle 18 i serbi fermarono gli attacchi. I nostri uomini avevano resistito. Fu per loro il primo giorno di arruolamento nelle file di  UÇK. Prevedendo un attacco serbo più massiccio fu deciso che donne, vecchi e bambini dovevano essere evacuati in altri villaggi, più in profondità nell’altipiano di Dukagjin.  Dalla radio sono venuta a sapere dell’uccisione di mia madre ad opera dei paramilitari serbi. Sentendo i boati delle bombe e degli spari che venivano dai villaggi vicini, temevo che la stessa fine avesse fatto anche mio marito. Ero sconsolata, piangevo dalla mattina alla sera. La sera in cui l’ho visto arrivare sono rinata. Anche lui aveva saputo della morte di mia madre. Ma non avevamo molto tempo, i nostri uomini dovevano ritirarsi e lui era venuto a prendermi. Dovevamo passare la strada controllata dai militari serbi palmo a palmo. Abbiamo camminato dalle 21 alle 4 di mattina, abbiamo passato la strada in una curva e poi abbiamo camminato senza sosta fino ad arrivare in un maso in montagna, dove abbiamo riposato e ci siamo fermati per tre settimane. Il cibo cominciò ben presto a scarseggiare, la vita in montagna diventava ogni giorno più difficile. Così decidemmo di passare con i figli in Montenegro. 

   Dove avete alloggiato in Montenegro?

   Abbiamo preso una stanza in affitto a Ulqin. Lì era stagione turistica e cosi abbiamo dovuto sborsare un bel po’ di soldi. Hanno sfruttato la nostra situazione. Non ho più saputo niente di mio marito, mentre ogni giorno ci arrivavano notizie di vicini, parenti e conoscenti massacrati, o caduti combattendo contro i serbi nelle file dell'UÇK. Sono stati mesi di angoscia e tormento. Non stavo ne in cielo e ne in terra, pensavo ogni giorno al peggio.

   Quando vi siete rivisti?

   Dopo quasi 4 mesi di combattimenti con le forze serbe, le formazioni dell’UÇK che difendevano l’altopiano di Dukagjin non hanno più potuto resistere, trovandosi a corto di munizioni e cibo. Le truppe serbe avevano iniziato già nei primi giorni di agosto un massiccio attacco appoggiati da elicotteri e carri armati. Cosi hanno rotto le linee dell' UÇK. Il 29 agosto è arrivato l’ordine di cessare la resistenza e di mettersi in salvo. Mio marito mi ha raggiunto a Ulqin dopo giorni di marcia sulle montagne del Kosova e Montenegro. Volevamo fermarci lì, ma con l'arrivo di diversi maschi la polizia si era messa in moto per scoprire chi veniva dal fronte e chi no. Ci consigliarono di andarcene. Ormai l’unica strada era quella verso l’Albania. Abbiamo passato il lago di Scutari con una barca e poi abbiamo raggiunto la città con un taxi, pagando ovviamente per ogni spostamento. Abbiamo passato la notte in uno dei centri allestiti per i profughi dalla Caritas. Quella notte, vedendo la situazione che si era creata in Albania e con i risparmi che stavano per finire, decidemmo di partire per Valona.

   Li vi siete messi in contatto con i famigerati scafisti?

   Speravamo di poter partire per l’Italia abbastanza presto, ma non era così facile. Ci hanno messo in una casa dove pagavamo 15 DM al giorno e ci rinviavano la partenza con le più disparate scuse. Tutto ciò per far alzare il prezzo dell'attraversata. Abbiamo avuto più paura di quando eravamo nel mirino dei serbi. Sapevano che avevamo con noi delle somme di denaro. Era gente senza scrupoli. Una notte ci hanno fatto improvvisamente partire dopo averci fatto pagare 4800 marchi, 800 per ogni membro della famiglia. Siamo partiti  alle 22 e siamo arrivati verso mezzanotte. Un viaggio allucinante. I figli piangevano e noi cercavamo di tenerli vicini perché non cadessero in acqua. Eravamo in venti su quel gommone. Nel prezzo della attraversata ci avevano promesso anche il viaggio fino a Milano. Ci hanno invece abbandonato in un posto inaccessibile dove, bagnati fino al midollo,  abbiamo aspettato per più di 12 ore. Non sapevamo cosa fare per scaldare i bambini, che tremavano  dal freddo. Finalmente ci hanno avvistato gli elicotteri dei carabinieri, abbiamo passato la giornata andando da un ufficio all’altro per tutti gli adempimenti burocratici. Nel campo profughi abbiamo aspettato finchè ci hanno consegnato i permessi di soggiorno e ci hanno detto che dovevamo arrangiarci. A mio marito venne in mente di chiamare al telefono un suo amico bolzanino. Fu lui ad accoglierci prima a Milano e poi ad ospitarci generosamente qui a Bolzano. 

   Qual è oggi la vostra posizione giuridica in Italia? Qual è il vostro status?

   Alla  Questura di Brindisi abbiamo presentato una richiesta di asilo politico. Ora siamo in attesa della risposta, che si prolunga da più di un anno. Mentre le altre persone, arrivate più o meno nello stesso periodo, si sono viste accogliere la domanda, noi, abbiamo saputo, dopo diverse ricerche, che a Roma  la nostra pratica era stata smarrita. 

   E in Kosova? 

   Avevamo una casa di due piani dove vivevamo in sette, noi sei e mia suocera. Abbiamo un po' di terra e avevamo una stalla dove tenevamo delle mucche. Ma ciò che manteneva la famiglia era il lavoro di mio marito. Lui è dentista e aveva una clinica a Decan,  la città più vicina al nostro villaggio. Di tutto ciò è rimasto solo la terra. Tutto è stato saccheggiato, distrutto o bruciato.

   Volete vivere qua o tornare in Kosova?

   Pensiamo di tornare a vivere in Kosova appena ci saranno le condizioni di una vita dignitosa, nonché la sicurezza che i terreni intorno al nostro villaggio siano stati bonificati dalle mine.

   Avete avuto vicini di casa o colleghi serbi? Come sono stati i rapporti? Sono stati influenzati dal clima politico?

   Io non avevo tanti rapporti, visto il lavoro che facevo e il fatto che nel nostro villaggio non c’erano serbi. Mio marito invece ne aveva diversi come clienti. Negli ultimi 10 anni era difficile trovare un serbo in Kosova che capisse la nostra situazione e non sfruttasse il fatto di trovarsi dalla parte del più forte. Mio marito aveva un cliente che era cresciuto, aveva vissuto e lavorato sempre con gli albanesi, parlava l’albanese come noi,  conosceva bene tutta la zona. E’ stato lui, nel periodo della guerra, che ha guidato i paramilitari alle famiglie dei combattenti dell’UÇK. Era lui che aveva fatto sapere  anche in Montenegro che mio marito era uno dell'UÇK, costringendoci così a partire per l'Albania. Sono convinta che gran parte dei crimini sono stati commessi dai serbi del Kosova e non da reparti militari e paramilitari.

   Oggi molti serbi abbandonano il Kosova. Forse anche i vostri vicini, colleghi, clienti si trovano nelle stesse condizioni nelle quali vi siete trovati. Che cosa direbbe loro se li avesse davanti?

   Noi albanesi da 10 anni, tramite le nostre istituzioni parallele, i mezzi d’informazone e con l’aiuto delle istituzioni europee, abbiamo chiesto a loro di non diventare delle marionette nelle mani di Milosevic. di non sfruttare la posizione di supremazia ai nostri danni, ma non siamo stati ascoltati. Quasi la totalità dei serbi del Kosova hanno seguito Milosevic nella sua follia nazionalista. Se fossero davanti a me direi loro che stanno raccogliendo ciò che hanno seminato.

   Cosa ne pensa dell’intervento della NATO?

   Era un intervento giusto, ma è arrivato in ritardo. Come ho detto anche prima, noi per dieci anni avevamo scelto la via della non violenza, avevamo mostrato al mondo che non volevamo la guerra. In dieci anni il mondo doveva capire chi è Milose-vic. Perché si è intervenuto così tardi in Bosnia? Non bastava l’esperienza slovena e croata? Non si era ancora capito chi era? Io penso di sí.

   Cosa direbbe a un pacifista?

   Chiedo solo di mettere sulo stesso piano almeno i binomi Kosova–Kurdistan e PKK–UÇK, e poi ne parliamo.

   In primavera forse ci saranno elezioni. Per ora voterebbe Rugova o Thaçi?

   Per me ha poca importanza chi verrà al potere. Importante è che si pensi alla gente, ai suoi problemi. E soprattutto dobbiamo mostrare al mondo che sappiamo creare e governare uno stato in questo periodo transitorio, per meritare poi l’indipendenza.


o Sabrije Hasanramaj,
insegnante kosovara di etnia albanese, vive dal 1998 a Bolzano con il marito e quattro figli.

L'intervista è stata pubblicata nel mensile Bz1999 nel novembre scorso.

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Kosovo
24 marzo 2000
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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