ile interviste

Quando la guerra era nell'aria
Estate 1998: un'intervista con Gjon Kolndrekaj, regista kosovaro in Italia
 

   di ROBERTO CARVELLI

   Kosovo, una parola troppo a lungo associata all'idea di un problema locale e che invece rischia di essere nuovo falò internazionale, come dimostrano le tensioni e le violenze di questi giorni.

  Ne parliamo con Gjon Kolndrekaj, regista che lavora soprattutto per Raiuno (ha diretto, tra l'altro, Linea verde, Happy Circus e Made in Italy), 41 anni, è nato e cresciuto a Pec in Kosovo, poi ha lasciato il suo Paese per l'Italia, quando ancora l'escalation di violenza degli anni Novanta era di là da venire.

   Kolndrekaj, quando è stato l'ultima volta nella sua terra?

   «Quattro mesi fa per un'occasione triste: il funerale di mia madre. Mi ha colpito che subito all'aeroporto i controlli fossero così solerti e che tutti fossimo identificati con grande precisione, conosciuti per tutto quello che avevamo fatto sino ad allora. Davvero un controllo capillare. Mi sono sentito come uno straniero nella mia patria, una sensazione terribile. Mi hanno domandato un mucchio di cose e poi mi hanno lasciato passare dopo che ho detto del lutto ma la sensazione dopo quell'accoglienza era davvero brutta. Alcuni - circa 40 persone - stavano da una parte e dovevano tornare indietro perché considerati esuli e respinti. Il tassista che ci portava dall'aeroporto a casa era una persona che lavorava quindici ore al giorno per salvare la famiglia dalla fame. Quello che mi ha stupito di più è vedere i bar pieni di gente quasi a dire che il benessere c'è ancora. In realtà oggi è un "tutti contro tutti" in cui prevalgono poche persone, commercianti che detengono tutto.

   I ragazzi dal canto loro sono insoddisfatti e vorrebbero andare via. Andare in Occidente per tornare con le Bmw e le Mercedes o le Alfa Romeo, così come altri connazionali fortunati. Quello è lo sviluppo possibile andandosene, non restando in Kossovo, dove ci si arrangia e basta».

  Come si manifesta la supremazia serba nella vita di tutti i giorni?

  «Notizie delle ultime ore a parte, dovete pensare che in Kosovo non c'è più da otto anni una classe insegnante. La scuola e le università sono obbligate all'insegnamento serbo. L'albanese è una lingua che deve morire secondo Belgrado e così gli abitanti si sono organizzati da soli e si fanno lezioni in casa. Una vera e propria rete di collegamento per mantenere viva la nostra lingua. Ma il problema non è solo la lingua. Si è formato un Parlamento, il nostro presidente Rugova ha idee gandhiane, parla di "fraternità e uguaglianza" e ora chiede la protezione internazionale contro le violenze serbe. La gente non ne può più, senti molti dire: "Entrano in casa mia e violentano la mia donna, che dovrei fare? Forse entrare a casa sua e fare altrettanto?". Non c'è molto spazio per parole di pace tra la gente, la situazione è esplosiva».

  Ma come mai tutto questo interesse serbo per il Kosovo?

   «Loro lo considerano una sorta di "culla della nazione", perché conserva alcune chiese serbo-ortodosse di grande importanza storica e geografica. E nello stesso tempo tendono a favorire la costruzione di minareti e frenano con le tasse quella delle chiese, perché vogliono strumentalmente farci identificare con la cultura islamica. Eppure noi siamo legati strettamente alla cultura dell'Occidente e l'Occidente non può dimenticare le radici comuni. Siamo un paese mediterraneo, come lo è l'Italia».

   Com'è possibile tutta questa recrudescenza di conflitti e violenze?

   «Chi sta in buone condizioni di vita non fa guerre. Una giusta qualità della vita fa sì che la gente si dia da fare per migliorare. Invece la povertà genera violenza. Le persone si dicono che non hanno nulla da perdere e non avendo altro da fare si scagliano contro il vicino "diverso". Può sembrare riduttivo o persino banale ma è la verità. Finché non torneranno condizioni di esistenza serene tutto sarà a rischio. Noi, fino al 1974, che mi ricordi io, eravamo una nazione che non aveva di cui vergognarsi economicamente rispetto chessò all'Austria, alla Germania o all'Italia. Non ci mancava nulla, bastava lavorare e gli sbocchi c'erano. Se ora c'è questa violenza non è perché tutto ad un un tratto siamo diventati selvaggi, abbiamo perso la nostra tradizione: è un misto di disperazione e orgoglio che fa sì che gli slavi non si pieghino alle offese. E la perdita della tradizione è l'offesa più grande che si possa fare ad un popolo. Noi siamo un popolo in realtà molto accogliente. Quando sono tornato per i funerali di mia madre la gente mi veniva a salutare e mi ringraziava per la generosità di mia madre. Erano persone che la conoscevano appena ma la stimavano. Era un via vai di persone che partecipavano a questo dolore con grande calore umano. Noi siamo un popolo molto legato, al di là delle etnie e delle fedi religiose. Sin da bambino ricordo compagni di giochi rom, islamici, macedoni. Mai avuti problemi. Siamo gente unita, la violenza di oggi è un odio che deriva da un malessere socioeconomico, non un odio tra le persone».

   Lei perché ha scelto l'Italia?

   «Sono venuto a Roma per inseguire il sogno del cinema. Ero cattolico e quando m'interrogarono per il visto io dissi che no, non era perché ero cattolico ma perché volevo andare nella culla della civiltà. Fin da giovanissimo amavo l'arte italiana, adoravo Rossellini e "Ladri di biciclette", un film che mi aveva aperto la mente...».


o Pubblichiamo una testimonianza raccolta a Roma nell'estate 1998: il regista kosovaro Gjon Kolndrekaj raccontava le sue impressioni sulla provincia oppressa da Belgrado e sui rischi di una degenerazione del cofronto.

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sul Kosovo
24 marzo 2000

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