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KOSOVO, CHI DICE UMANITA'
Il libro di Danilo Zolo: guerra, diritto e ordine globale
by FreeFind
___________di Alberto Castelli_______________________

Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000, pp. 253.

    In questo volume, Danilo Zolo analizza, da differenti punti di vista, la guerra per il Kossovo che, nella primavera del 1999, diciannove paesi della Nato, tra cui l’Italia, hanno condotto contro la Repubblica Federale Jugoslava. Lo scopo dell’Autore è comprendere le ragioni strategiche e le conseguenze che la guerra avrà sul sistema delle relazioni internazionali nei prossimi anni. Bisogna sottolineare che Zolo non è affatto nuovo allo studio di questo tipo di argomenti; anzi, l’occasione della guerra gli fornisce l’occasione per portare avanti una ricerca sul problema della pace, dell’ordine e della giustizia internazionale iniziata almeno nel 1997, quando dà alle stampe Cosmopolis. Prospects for World Government, e proseguita nel 1999 - 2000 con The Lords of Peace: From the Holy Alliance to the New International Criminal Tribunals (entrambi i saggi sono pubblicati anche in italiano).
    L’analisi delle cause, delle caratteristiche e delle conseguenze della guerra per il Kossovo è preceduta da un excursus storico che ricostruisce il ruolo svolto dalle grandi potenze europee nella genesi dei nazionalismi esasperati nella regione balcanica negli ultimi due secoli. E’ noto che i Balcani, dopo la crisi dell’impero Ottomano, vengono fatti oggetto di conquista e di dominio da parte di tutte le potenze europee: dapprima l’Austria e la Russia zarista, poi la Francia e la Gran Bretagna, e - con Hitler e Mussolini - la Germania e l’Italia. Queste potenze cercano di controllare la regione balcanica ed impedire alle altre potenze di controllarla a loro volta; in questo modo, i confini tra gli Stati che compongono la regione vengono tracciati a seconda delle esigenze strategiche delle potenze in quel momento dominanti, non secondo logiche tese a garantire una pacifica convivenza tra le varie etnie e nazioni. Si sviluppano così gli odi e le paure reciproche e sono poste le basi del nazionalismo esasperato e della barbarie. Un caso esemplare di questo meccanismo è rappresentato dalle conseguenze dell’ingerenza italiana e tedesca nei Balcani, tra il 1939 e il 1941. Allo scopo di consolidare e espandere il proprio potere sulla regione, italiani e tedeschi sfruttano il radicalismo e il fanatismo politico di una parte della popolazione croata, con la conseguenza che si scatena una feroce persecuzione razziale contro i serbi, gli ebrei e i rom. Questi episodi, a loro volta, risvegliano il nazionalismo serbo – già sviluppatosi sotto la pressione dell’Austria-Ungheria - e il sogno di ricomporre una Grande Serbia che comprenda tutti i territori in cui siano presenti popolazioni di origine serba, disperse in vari secoli di migrazioni nei Balcani.
    Le tensioni etniche vengono temporaneamente messe da parte, ma non annullate, durante l’esperienza della Repubblica Federale Jugoslava, sotto la guida di Tito. Alla morte di quest’ultimo (1980), in concomitanza con una profonda crisi economica, tende a venire meno la solidità della federazione e si risvegliano le spinte centrifughe rappresentate dai sentimenti di appartenenza nazionale. Nel 1991, Slovenia, Croazia e Macedonia proclamano la loro indipendenza dalla federazione jugoslava. La Croazia viene immediatamente riconosciute dalla Germania e dal Vaticano, che vedono la possibilità di espandere la loro egemonia (politica, economica o ideologico – religiosa) nella regione. Ciò, prevedibilmente, provoca la reazione delle minoranze serbe presenti in Croazia e accende di nuovo il nazionalismo serbo. Quando anche la Bosnia, nel 1991, proclama la propria indipendenza, presto riconosciuta dalla Comunità Europea, esplode il conflitto armato tra serbi, croati e musulmani bosniaci per il controllo dei territori della Bosnia Erzegovina. La guerra si conclude con gli accordi di Dayton, negli Stati Uniti d’America, che sancisce la frammentazione della regione, la rende economicamente dipendente dalle potenze occidentali, e impone la presenza di contingenti militari della NATO. Come in passato, dunque, l’ingerenza dei paesi europei (e ora anche degli Stati Uniti) ha l’effetto di fomentare gli odi e di scatenare i conflitti tra le arie componenti etniche della regione.

    Una volta chiarite sul piano storico quali siano gli effetti dell’ingerenza occidentale sui Balcani, Zolo si concentra sull’ultimo atto di questa ingerenza: il bombardamento, da parte della NATO, della Repubblica Jugoslava nella primavera del 1999. In primo luogo, l’Autore si propone di spiegare le ragioni per cui gli Stati Uniti e i loro alleati, uniti nell’ambito dell’organizzazione della NATO, abbiano considerato opportuno un intervento militare così massiccio. La dichiarazione, continuamente ripetuta dai dirigenti politici occidentali attraverso i mass media, secondo cui la guerra sarebbe giustificata dalla necessità di difendere i diritti umani violati di una parte della popolazione del Kossovo viene considerata da Zolo, in termini di realismo politico, come uno “strumento di autolegittimazione della guerra da parte di chi la sta conducendo” (p. 43). Si tratta, allora, di un’arma attraverso cui la guerra viene combattuta. Un’arma che non ha lo scopo di offendere direttamente l’avversario, ma di degradarlo moralmente fino al poco invidiabile rango di “nemico dell’umanità”, con l’obiettivo di creare una mobilitazione emotiva di massa all’interno agli Stati aggressori a favore della guerra. 
    Le vere ragioni dell’intervento militare della NATO nel Kossovo sono da ricercare, secondo l’Autore, almeno lungo tre direttrici diverse ma che non si escludono a vicenda. In primo luogo, la guerra può essere interpretata come un tentativo degli Stati Uniti di ribadire la propria superiorità militare, economica e politica sui paesi dell’Unione Europea, che il processo di integrazione può trasformare in una minaccia per il primato americano. L’instabilità politica nei Balcani, secondo questa interpretazione, riversando sui paesi europei turbolenze (traffici illeciti, emigrazione, paralisi dei flussi turistici ecc.), pone gravi ostacoli alla realizzazione di un’economia europea unificata rendendo più facile agli Stati Uniti di conservare la loro egemonia incontrastata.
    Una seconda linea interpretativa che può spiegare le ragioni della guerra è  il controllo dei cosiddetti “corridoi” che collegano l’Europa occidentale alle regioni caucasiche e caspiche ricche di risorse petrolifere. Consolidare la propria egemonia sulla Turchia e sui Balcani, quindi, significa, per l’Europa e gli Stati Uniti, assicurarsi lo sfruttamento delle fonti energetiche a discapito, tra l’altro, di un concorrente e potenziale avversario come la Russia.
    Ad un terzo livello, gli stati Uniti sono spinti ad affermare la propria egemonia nei Balcani perché ciò risponde ad una importante necessità strategica: “vigilare perché nel continente euro-asiatico non sorga un nemico dell’America” (pp. 56 – 57). Tale obiettivo viene ottenuto sia con una politica aggressiva nei confronti dei piccoli Stati pericolosi o potenzialmente tali; sia rafforzando l’alleanza con le potenze regionali (come possono essere i paesi europei) e coinvolgendole in una politica estera comune. Si viene così a creare un modello in cui gli Stati Uniti, alla testa di un numero tendenzialmente crescente di junior partner troppo deboli per imporre la loro volontà, prevengono e contrastano qualsiasi minaccia alla propria egemonia. In questa situazione, la NATO diventa il mezzo attraverso cui gli Stati Uniti esercitano il loro predominio a livello planetario, liberi dal dover subordinare le proprie decisioni al consenso degli alleati e, sovrastando l’ONU con il proprio potere, da qualsiasi regola procedurale dettata dal diritto internazionale.
    Il fatto che, alla fine degli anni ’80, gli Stati Uniti siano emersi come unica potenza mondiale non significa che essi possano dominare incontrastati sul vuoto lasciato dal crollo dei regimi sovietici. Le minacce all’egemonia americana o, più in generale, occidentale, infatti, non sono affatto  scomparse, ma si sono fatte più “capillari e diffuse” (p. 69). In particolare, il Terzo mondo è una fonte di fattori di instabilità (rivalità economiche, intolleranza religiosa, pressione demografica, odi razziali, terrorismo) che impediscono agli Stati Uniti e all’Unione Europea di “cristallizzare lo status quo delle relazioni internazionali” (p. 68) a loro conveniente. In questa situazione, i paesi occidentali si devono attrezzare per far fronte alle nuove esigenze: da un lato, quindi, tendono a trasformare la NATO in uno strumento non più di difesa, ma atto a garantire la sicurezza collettiva a livello globale; dall’altro, tendono a disfarsi del principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani, e a legittimare sul piano umanitario l’intervento armato ove lo ritengano opportuno. 
    Il corollario di queste trasformazioni è che le istituzioni internazionali e l’ordinamento giuridico internazionale, nati al termine della Seconda Guerra Mondiale, devono essere sovvertiti o adattati a legittimare l’uso della forza da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Non è quindi un caso che la NATO abbia deciso di bombardare la Federazione Jugoslava senza alcuna autorizzazione da parte degli organi preposti dell’ONU, rinunciando così a qualsiasi legittimazione giuridica, e arrogandosi un incondizionato ius ad bellum. L’azione della NATO, insomma, segna una importante trasformazione: la tutela degli interessi degli Stati nel campo internazionale non è più affidata ad un organo sovranazionale e, formalmente, detentore del monopolio dell’uso della forza legittima (ONU); è piuttosto affidata alla forza militare di qualsiasi Stato o gruppo di Stati ritenga opportuno intervenire. Si configura quindi un ritorno alla condizione precedente alla formazione delle istituzioni internazionali del Novecento.
    Se la guerra per il Kossovo appare chiaramente non legittimata sul piano giuridico, molti (tra cui, sia pure in modo diverso, filosofi come Walzer e Habermas) hanno sostenuto che lo fosse sul piano morale, in quanto tesa a garantire i diritti umani violati. Ma l’uso morale della violenza fa nascere dei problemi morali piuttosto delicati. Facciamo solo un esempio con le stesse parole di Zolo: “per impedire o fermare una strage è moralmente lecito sopprimere la vita di persone del tutto estranee ed innocenti? Chi ha l’autorità morale – non, si badi bene, il semplice potere politico o militare – di deciderlo?” (p. 96).
    Al di là del problema della legittimazione, una guerra può essere giudicata in rapporto ai risultati che produce. Una guerra non legittimata giuridicamente e moralmente a priori, cioè, può assumere un significato positivo se produce effetti pratici desiderabili. Nel caso della guerra per il Kossovo, secondo questa interpretazione, si dovrebbe considerare opportuno l’intervento armato della NATO se effettivamente esso avesse posto fine alle violenze etniche; e se avesse restituito pace, democrazia e un livello di vita civile alle popolazioni del Kossovo. Si tratta quindi di giudicare l’adeguatezza dei mezzi in relazione agli scopi della guerra. Occorre cioè chiedersi sia se l’intervento militare ha effettivamente raggiunto gli obiettivi di riportare la pace e l’ordine nei Balcani; sia quali effetti di lungo periodo la guerra avrà sulla regione balcanica. Occorre poi indagare anche quali effetti la guerra - condotta sotto la leadership degli Stati Uniti - ha prodotto sulla struttura politica dell’Europa; e quali reazioni ha provocato - come dimostrazione di forza da parte dell’Occidente - nel mondo non occidentale. Solo in base alle risposte che si possono fornire a queste domande sarà possibile dare un giudizio sulla guerra per il Kossovo.
    Per quanto riguarda gli effetti dell’intervento delle potenze occidentali nei Balcani, Zolo rileva che sono opposti agli obiettivi dichiarati. Invece di riportare pace e stabilità ha esasperato l’etno-nazionalismo balcanico, frammentato i gruppi politici, aggravato le condizioni di vita delle popolazioni rendendole economicamente più dipendenti dai paesi occidentali. La guerra, insomma, lungi dal tenere fede ai suoi impegni “umanitari”, ha sortito risultati simili a quelli degli interventi europei del passato nei Balcani.

    Veniamo ora alle conseguenze del conflitto sulla comunità europea. La guerra per il Kossovo ha reso chiaro agli europei la loro scarsa efficienza militare, soprattutto se paragonata a quella degli Stati Uniti. Di conseguenza è nata l’esigenza di uno sviluppo non più solo economico, ma anche militare. Gli europei, in altre parole, hanno compreso di dover trasformare i loro apparati militari in modo da renderli strumenti adatti ad interventi all’estero. In altre parole, l’agenda delle priorità politiche di integrazione europea, dopo l’esperienza del Kossovo, vede ai primi posti l’obiettivo di creare un esercito comune, efficiente, e pronto ad affiancare gli Stati Uniti nel dar corso alla nuova politica della NATO. “L’impatto della <<guerra umanitaria>> - scrive Zolo – sul processo di integrazione europea sembra avere avuto (…) soprattutto una conseguenza: ha rimosso l’intero ventaglio tematico dell’identità politica dell’Europa e del suo sviluppo democratico (…). Accanto all’Europa di Maastricht – l’Europa della moneta e delle banche – c’è ora (…) un’Europa che ha deciso di dare priorità alla dimensione strettamente militare” (p. 187).
    Consideriamo ora l’ultimo punto: gli effetti che il dispiegamento della potenza occidentale ha avuto sul resto del mondo. In primo luogo, la guerra è stata un evento umiliante per la Russia che, nella sconfitta della Serbia “ha visto l’immagine riflessa della propria agonia” (p. 194). La nuova politica della NATO e la sua espansione verso est vengono vissuti dai russi come un accerchiamento politico-militare e una costante mortificazione del prestigio nazionale della Russia (che, come Unione Sovietica, fronteggiava fino a pochi anni fa gli Stati Uniti da pari a pari). E’ dunque comprensibile che la Russia, soprattutto dopo l’avvento al potere dell’ex ufficiale del Kgb Vladimir Putin, abbia avviato una politica tesa al recupero del suo ruolo di grande potenza: politica che si fonda necessariamente sul riarmo e sul ristabilimento del proprio potenziale di minaccia nucleare. Ma per perseguire una ripresa del potere militare la Russia dovrà avere un regime forte e autoritario che, in ultima analisi, darà impulso alla centralizzazione dello Stato e ostacolerà fortemente il già difficile processo di crescita democratica e liberale. La nuova politica della NATO e l’intervento nei Balcani, tuttavia, non hanno allarmato solo la Russia; hanno anche esasperato il rancore della Cina per ciò che viene vissuto come l’offensiva arroganza della politica estera degli Stati Uniti. Arroganza che è giunta al culmine con il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado tra il 7 e l’8 maggio 1999. La Cina si dirige così verso una politica di diffidenza e resistenza nei confronti dell’Occidente che, per ora, è cauta; ma che potrebbe inasprirsi decisamente nel caso in cui il divario attuale tra la potenza cinese e quella statunitense venisse a restringersi.
    Il quadro che prospetta Zolo sembra dunque essere molto fosco: la politica della NATO ha messo in seria crisi le istituzioni di diritto internazionale esistenti; e ha accresciuto la tensione tra l’occidente e potenze come la Russia e la Cina. Tutto ciò ha spinto verso il riarmo non solo la Russia, ma anche l’Europa, che tende ora a definirsi come una potenza militare – all’ombra degli Stati Uniti - ancor prima che politica. Resta da chiarire quale sia la possibile via d’uscita da questa situazione; quale obiettivo politico, cioè, ci si debba proporre per avviare un processo di effettiva pacificazione a livello planetario. Il progetto di creare la pace perpetua attraverso il diritto e le istituzioni internazionali, secondo le idee che accomunano Kant a Kelsen e a Habermas, è considerato da Zolo irrealistico e, a causa della crescente “differenziazione e turbolenza dell’ambiente internazionale”, foriero di effetti poco desiderabili. Resta solo da auspicare, secondo Zolo, che le potenze occidentali si trovino nella condizione di dover cessare di pensare al mondo come un “altro” da assoggettare, e di tenere presenti le esigenze di redistribuzione della ricchezza e del potere che vengono dalle potenze extra europee. A ciò gioverebbe che l’Europa si emancipasse dall’egemonia degli Stati Uniti e che riscoprisse un proprio destino continentale e mediterraneo. Resta però, a nostro avviso, il dubbio che suggerire una tale strategia politica sia altrettanto utopico che progettare una democrazia cosmopolitica à la Kant. Non solo. Anche qualora questo mutamento radicale di politica estera europea si verificasse, cosa impedirebbe la nascita di una nuova contrapposizione, questa volta tra gli Stati Uniti e l’Europa con i suoi nuovi alleati mediterranei? Cosa impedirebbe il riproporsi del vecchio modello dell’equilibrio di potenza tra Stati (o federazioni di Stati in questo caso) sovrani rivali? Un modello che nel Novecento ha prodotto due guerre mondiali e una guerra fredda fondata sulla reciproca minaccia nucleare. Viene allora da domandarsi se davvero l’unico obiettivo per cui valga la pena schierarsi non sia la difesa e il rafforzamento dell’ONU e, in prospettiva, la realizzazione di una democrazia mondiale che tenga conto delle differenze che separano i popoli ma che, nello stesso tempo, limiti in modo decisivo la sovranità degli Stati e ponga la guerra definitivamente fuorilegge.

 


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