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"Kosovo, se l'occidente appoggia gli estremisti albanesi..."
La ricostruzione della convivenza: parla Lush Gjergji, prete del dialogo interetnico
 

di DOMENICO CHIRICO

   Dopo più  di un anno e mezzo dalla fine della guerra il Kosovo vive ancora molte difficolta legate alla ricostruzione materiale e civile.
Nella provincia di Vitina, nonostante l’esodo di circa 130.000 serbi dal Kosovo , c’e’ stato sin dalla fine della Guerra una forma di convivenza che ha permesso che in quest’area molti serbi rimanessero.
La presenza di una forte e pacifica comunita’ cattolica nei dintorni di Vitina  ha certamente favorito la convivenza. 

   Figura rilevante in quest’area e’ Don Lush Gjergji parroco di Binca e protagonista del movimento nonviolento che ha animato la politica di Rugova e del LDK negli anni  ’90 . Il suo villaggio rimane tuttora l’unico luogo del Kosovo dove serbi ortodossi ed albanesi sia cattolici che musulmani convivono quotidianamente senza violenze. Anche se gli scambi e la comunicazione fra le due comunita’ sono limitati, se non inesistenti, il solo fatto che vi sia una reciproca con-presenza e tolleranza in un luogo rende questo villagio un caso del tutto unico. Gli altri villaggi della zona sono enclave protette dai militari della KFOR con sporadiche comunicazioni con gli albanesi, mentre in altre zone del Kosovo la convivenza rimane del tutto impossibile.

   Durante una lunga conversazione Don Lush Gjergji ci ha raccontato il lavoro quotidiano suo e della sua parrocchia per garantire la pacifica convivenza fra le comunita’ e per costruire un futuro pacifico. 
Innanzitutto la parrocchia di Binca ospita un’ambulatorio e distribuisce aiuti umanitari ad entrambe le comunita’ garantendo quindi una assistenza che non fa distinzioni e contribuisce al dialogo.
Don Lush racconta che le case bruciate ai kosovari albanesi nei dintorni di Vitina sono state 55 e che ognuna delle famiglie colpite ha avuto delle vittime. Il primo impegno e’ stato quindi quello di lavorare per una ricostruzione materiale delle abitazioni, accanto a questo sforzo don Lush ha cominciato ad incontrare regolarmente le famiglie delle vittime.

   ”Ho cominciato - spiega - ad incontrare una volta la mese le vedove e le famiglie chiedendogli di condividere il loro dolore, di ascoltare e secondo le nostre possibilita’ di poterli assistere materialmente. Gli ho chiesto permettetemi di essere un membro della vostra famiglia. Riuscire ad evitare che il sentimento della vendetta, la schiavitu’ del male, si impadronisca delle vittime e’ un lungo processo che richiede attenzone e dedizione costanti. Il sentimento di vendetta si sconfigge con un lavoro sulla propria coscienza non con il tempo come spesso la comunita’ internazionale crede. Il tempo senza quest’impegno puo’ solo peggiorare la situazione e fomentare gli odi”. 

   Buona parte delle famiglie che partecipano regolarmente agli incontri di Don Lush sono di albanesi musulmani ma questo non ha impedito che si creassero sentimenti di fiducia con il parroco e che gli incontri siano diventati sempre piu’ frequentati.

   “E’ stato decisivo per avviare questo cammino insieme il ruolo delle donne. La tradizione albanese vuole che le donne vedove tornino nel nucleo familiare d’origine e che lascino i figli alla famiglia del marito. Il mio sforzo e’ stato di evitare  alle vedove questo ulteriore trauma, siamo riusciti a scongiurare tutte le separazioni. Cio’ e’ stato possible perche’ abbiamo cominciato ad aiutare le donne ad avere una vita dignitosa, a favorirne, nei nostri limiti, le scelte. Siamo riusciti a creare un circuito di reciprocita’ e solidarieta’ fra molte di queste donne. Si frequentano. Parlano insieme dei loro problemi e questo ha evitato un rapporto centrato sulla mia persona nella direzione di un rappporto pluridimensionale. Alcune all’inizio mi dicevano: c’e’ Dio e ci sei tu. Ho risposto ci siete anche Voi”.

  Per quanto riguarda poi la comunita’ serba don Lush stigmatizza l’immedesimazione che la comunita’ internazionale ha avuto con gli albanesi, il netto sbilanciamento che si e’ creato nell’assistenza e nell’attenzione ai bisogni ed alle emergenze. 

 “ Non si puo’ generalizzare, ci sono stati esempi coraggiosi di famiglie serbe che hanno difeso ed aiutato i loro vicini di casa ed i loro amici albanesi, rischiando la loro incolumita’. La protezione ora assicurata dalla Kfor e’ del tutto fittizzia, incidenti e violenze continuano, l’enclavizzazione ha creato per i serbi un carcere collettivo e di certo non aiuta la comunicazione. Solo a distanza di un anno l’UNMIK ha cominciato ad assistere in maniera sistematica le famiglie serbe prevedendo per loro aiuti economici.” 
   A fronte di un massiccio intervento della comunita’ internazionale che vede la presenza in Kosovo di migliaia di soldati e 250 fra organizzazioni governative e non governative don Lush nota la totale impreparazione a gestire la complessita’ del dopoguerra. Si tratta, di fatto, della prima esperienza di un protettorato dopo la fine dell’era coloniale. 
   Sposare la causa albanese e non lavorare per tutti e’ stato il primo errore ma soprattutto e’ stato grave l’appoggio palese offerto alle forze albanesi piu’ radicali. La Lega democratica di Rugova aveva costruito negli anni ’90 un vero e proprio stato parallelo a cui la comunita’ internazionale nell’immediato dopoguerra non ha delegato alcuna responsabilita’. 
   Le amministarzioni nominate dall’UNMIK (United Nation Mission in Kosovo), notiamo, hanno privilegiato il PDK, partito fondato da Thaci sulle spoglie del disciolto UCK. I rappresentanti del PDK hanno messo su un sistema clientelare di potere che ben presto ha cominciato a basare la sua forza non piu’ sull’onda nazionalista del dopoguerra ma su “forza e prepotenza” come ci dice il nostro narratore.

   “Non si e’ riusciti a creare un sistema efficente di responsabilita’ locale, c’e’stata una completa anarchia che, visto il suo prolungarsi, bisogna pensare che sia stata voluta. Ora c’e’ da capire se il risultato delle elezioni sara’ rispettato nel senso se ci sara’ un’effettiva delega di poteri alle amministrazioni. La scelta di cominciare il processo di democraticizzaqzione dal livello comunale e’ stata giusta  ora e’ importante rispettare la scelta della gente. Le elezioni sono state pressoché serene, ha votato il 79% degli aventi diritto e nonostante le ore di fila, le incomprensioni, il desiderio della gente di esprimere il proprio voto ha prevalso. Il senso comune ha poi deciso il risultato delle elezioni, la gente e’ stanca sia degli estremismi, sia del clientelismo che finora ha dominato. La strategia di Rugova si e’ rivelata vincente proponendo la demilitarizzazione effettiva sia degli albanesi sia dei serbi, la scelta del pluralismo come unica forma di esistenza del Kosovo. L’unita’ nella diversita’ come chiave per conciliare le etnie. Ma anche si e’ rivelata giusta la richiesta di una cogestione del Kosovo con la comunita’ internazionale. La nostra classe dirigente ha bisogno di un aiuto nella gestione di questo delicato momento politico ed istituzionale”.

   Soprattutto Don Lush nota nella vittoria di Rugova una netta continuita’ con il percorso non-violento intrapreso attraverso la riconciliazione inter-etnica dagli albanesi nel 1994. Ed anche chi scrive ha notato parlando con  le persone  la stanchezza per il clima di violenza. Spesso sussurata per timore della prepotenza e della violenza del disciolto UCK, ma presente. Il bisogno di riprendere un corso normale delle vite e delle esistenze e’ prioritario per la maggior parte della popolazione.  Del resto la vittoria del partito di Rugova in 27 municipalita’ su 30 dopo un periodo in cui era stato emarginato dalla gestione del potere parla da se’.
Il collegamento logico a questo punto e’ con i risultati delle elezioni  in Serbia. Don Lush nota come il cambiamento nella Repubblica Federale di Yugoslavia sia avvenuto in modo inverso non dal livello comunale ma dalle presidenziali per cui il sistema di potere costruito da Milosevic e’ ancora tutto in piedi e bisognera’ attendere gli esiti delle elezioni amministrative.

   “Noto soprattutto la maturita’ del popolo serbo e la sua capacita’ di esprimere in modo pacifico il dissenso generale, la presa di coscienza e’ stata forte. A mio parere Kostunica non e’ e non puo’ essere Milosevic, il contesto storico e’ del tutto differente. Il problema e’ che 18 partiti si sono uniti con l’unico scopo di cacciare Milosevic senza aver definito un programma comune. Rispetto al Kosovo ora viviamo un cammino parallelo dove sara’ necessaria un’integrazione all’interno del processo di unificazione europea. In questo la comunita’ internazionale non deve essere precipitosa. Deve approntare un programma preciso per i Balcani che attualmente non c’e’, evitare gli euforismi e correre immediatamnte in Serbia. Bisognerebbe favorire uno sviluppo delle infrastruture in Kosovo, rivitalizzare la produzione interna, la disoccupazione e’ un nemico troppo forte che puo’ creare piu’ di un problema alla pacificazione della regione”. 

   Per quanto riguarda poi i rapporti con la Serbia don Lush ricorda i 7000 prigionieri politici tuttora detenuti in Serbia e come la loro liberazione sia un passo necessario per avviare un dialogo. A questo proposito sottolinea la necessita’,  in pieno spirito ecumenico, di collaborare con il Patriarcato Ortodosso che essendosi schierato a sfavore di Milosevic deve favorire il cambiamento anche in Kosovo. 

“I serbi del Kosovo sono attualmente ancora per la maggior parte schierati con Milosevic, la costituzione di un loro partito svincolato da Belgrado li renderebbe piu’ credibili nel gioco politico kosovaro. E’ necessario ora affrontare con calma ed attenzione questo cammino parallelo, evitare di parlare al bambino del matrimonio ma favorirne la crescita, nella consapevolezza che i serbi hanno da giocare un ruolo nel futuro del Kosovo”.

   La lunga conversazione termina ascoltando i bisogni materiali della comunita’ la cui soddisfazione e’ sicuramente uno dei mezzi per favorire la pacificazione della regione. Ma soprattuto ci appare evidente la necessita’ di un lavoro nonviolento e riconciliativo che parta da uno sguardo attento e profondo sulle realta’ locali, sul dialogo con le comunita’ e su una tempistica non legata necessariamente a dei progetti, come spesso la comunità internazionale è indotta a presumere, ma a tempi meramente umani.
 



 
 
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(27 marzo  2001)

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