libri&dintorni

L'Europa fra razzismo e multiculturalismo
Le analisi di Habermas, Taylor, Ben Jelloun
 


di ROBERTO CARVELLI

  «Femminismo, multiculturalismo, nazionalismo e lotta contro il colonialismo eurocentrico sono fenomeni apparentati benché distinti. L'elemento unificante consiste nel fatto che - nell'opporsi a repressione, emarginazione e disconoscimento - sia donne e minoranze etnico culturali sia nazioni e culture lottano per ottenere il riconoscimento delle loro identità collettive». Parentela forse ovvia questa ma necessaria premessa per una semplificazione di campo. La fa Juergen Habermas nel capitolo da lui curato di «Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento» (Feltrinelli, lire 26.000), libro in due capitoli - l'altro è per la cura di Charles Taylor. Gli autori di questo breve saggio sono due filosofi: Juergen Habermas, noto esponente delle seconda scuola di Francoforte e Charles Taylor docente di Scienza della politica e filosofia presso la McGill University a Montreal. Al canadese dobbiamo un'introduzione filosofica pregnante su l'altro da sé, preludio a qualsiasi riflessione sulla difficoltà di coabitazione di "diversi".

  Taylor cita Rousseau e il suo amour propre (orgoglio) a cui può rispondere solo «il sentimento dell'esistenza», cioè un contatto intimo con se stessi. A Herder, invece, Taylor riconosce quell'uomo con una sua «misura» unica che lo rende unico tra gli unici e quindi lo fa riconoscere.

  Ma andando avanti, con una chiarezza argomentativa disarmante, il professor Taylor ribadisce che «abbiamo bisogno di relazioni per completarci, ma non per definire noi stessi» perché dice più avanti «la mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con altri».
  Non sono verità lapalissiane queste, perché la definizione del concetto di 'razzismò transita per questo rifiuto di conoscenza e (ri)conoscenza nel senso doppio di una interdipendenza tra soggetti nell'atto e della gratitudine che dovrebbe sgorgare in chi è felice di vedersi meglio nel confronto con specchi che rimandano immagini spesso apparentemente diverse. Ci si riconosce azzerando le differenze cioè rivelando con operazione d'estrazione la radice ultima dell'esistere. Non sono ovvietà, dicevamo, perché il razzismo si annida in questo cuore duro che rifiuta la conoscenza come indicazione di spersonalizzazione quasi che chi incontra l'altro possa temere di venirne influenzato a tal punto da sentirne germe di mutazioni  e pericolose perdite e riafferma la sua misura negando quella dell'altro.

  Il mondo che è il mondo è stato per anni il Vecchio Mondo - un cerchio con centro Roma, poi un cerchio con tante rome e dal Portogallo agli Urali, dall'Inghilterra alla Sicilia - il resto era terra d'annessione, paesi sottosviluppati e da colonizzare. Era un mondo culturale che mal tollerrava religioni diverse e si affermava con Crociate, ghetti e cacciate, sino allo sterminio nazista della minaccia sionista e zingara che non furono che i punti sulle i di questo dominio che si pretendeva non solo incontrastato ma anche contrastante. Le diversità erano pericoli e così si è arrivati a costruire una civiltà razziale: bianca, europea, cristiana sotto i crismi di una pretesa superiorità.
E' un modello che tuttora viene preteso (o supposto) operante e assoluto da qualcuno ma come molti notano è diga che non tiene. La globalizzazione e una diffusa democrazia politica ed economica - dove sì, dove no - hanno messo una lapide su queste idee-concetto e si può a ragione affermare che la nuova pasta della società così globalizzata è una ricca miscela di culture e razze diverse senza tenuta di separazioni.

  Il grazie di Charles Taylor è alla democrazia perché essa «ha introdotto una politica dell'uguale riconoscimento che nel corso degli anni ha assunto varie forme, e ora ritorna come richiesta di parità delle culture e dei generi». E' un fenomeno naturale - forse anche irreversibile - che appoggia forse sul senso di colpa. l' hip hop è nella cultura giovanile bianca come l'Africa dei tamburi e delle danze, la Giamaica del reggae per adesione all'integrità di quelle regioni-culture che hanno saputo mantenersi attorno al nucleo dell'atomo delle loro convinzioni e tradizioni. E' un insegnamento di cui ha bisogno l'Europa al laccio del 'Capitalè e dell' 'Anti-Capitalè come il dorso e il palmo di una mano.

  La concordia verso un modello non etno-centrico o multiculturale non è assoluta. In certi paesi -la Francia del Fronte Nazionale di Le Pen è eccezione che stride per numeri e contesto sociale - l'impasto non ha ancora l'accettazione generale e gesti e idee rendono operante un razzismo antico, fondato sui modelli del dominio di razza dato come storico. Alla base c'è l'idea che 'io sono qui e dove dico qui dico miò. Così non è ben visto un portatore, per quanto sano possa essere, di altri modelli culturali e religiosi. La prossimità di questo pericolo è chiaro a Tahar Ben Jelloun che nel suo «Il razzismo spiegato a mia figlia» (Bompiani, lire 9000) ha ritenuto opportuno dire alla Francia da parlante francese ma di nascita marocchina che il razzismo è da combattere, da reagire. Si inizia dal «fare attenzione alle parole che si usano» come dallo stigmatizzare qualsiasi segno di questo preteso superarsi di una razza sull'altra. Persino questa parola ci sta male alla questione e dice alla figlia in questo dialogo «che è meglio sostituirla con l'espressione genere umano» perché quella è stata «strumentalizzata da gente malintenzionata». E' facile cadere in minimizzazioni e dire: ma il razzismo non è mica questo delle parole o pensare 'ma io le dico in buona fedè. Chi di noi non ha una volta cavalcato questa involontarietà. Sentite cosa scrive Taylor nella prima pagina del suo saggio riaffermando il legame tra 'riconoscimentò e 'identità': «la tesi è che la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o, spesso da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia». Spiega che quel non riconoscimento non è solo atteggiamento di chi rifiuta ma specchio che riflette una sfocatura che altera la percezione di sé di chi si vede così riflesso.

  Così, spiega Taylor, per esempio le femministe hanno sostenuto che le donne nelle società patriarcali «hanno interiorizzato la rappresentazione della propria inferiorità». E continua Taylor «l'autodisprezzo dei nei diventa uno dei più potenti strumenti della loro oppressione» da cui «il misconoscimento non è soltanto una mancanza di qualcosa di dovuto, il rispetto; può anche essere una ferita dolorosa, che addossa alle sue vittime il peso di un odio di sé paralizzante».

  Il libro di Ben Jelloun, al contrario di quello di Habermas e Taylor non ha pretese filosofiche ma didattiche per questo ad occhi adulti può apparire tautologico questo movimento tra i pregiudizi che affollano un campo contraddittorio: ma è un libro per ragazzi che cerca di smontare il pregiudizio della differenza delle razze. Il riportare la questione sulla scientifica differenza della pigmentazione della pelle data dalla presenza della melanina, il rimarcare la comunanza di gruppi sanguigni tra tutti gli esseri umani, il sancire differenze socioculturali a spiegazione di tante diffidenze non è altro che il tentativo di normalizzare un atteggiamento più corretto contro la superficiale e purtroppo diffusa concentrazione sulla evidenza delle differenze.
  E' un libro di cui si è parlato tanto questo dello scrittore marocchino e a cui hanno arriso anche le vendite a riprova che il paternalismo (come non potrebbe essere altrimenti vista la posizione dell'autore-padre nei confronti della figlia-lettore, di una voce genitoriale che parla a orecchie-figlie) è sentimento buono e condiviso.

  Al libro di Ben Jelloun quello di Habermas e Taylor fa da secondo piatto corposo: «Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento» è la ricomposizione di un atteggiamento, libretto d'istruzione - colto ma non settoriale - al contrario che svela il meccanismo della formazione del razzismo per guidare al corretto funzionamento di una società razziale di molti e di diversi.



 
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In tempi di tensioni e di incomprensioni sul processo dei "rimescolamento" etnico che caratterizza le società europee e in particolare quelle, come la italiana, che in passato non hanno conosciuto il fenomeno (non sul piano della quantità, certamente su quello della qualità data la forza attrattiva che il Paese ha avuto in passato per ragioni economiche e culturali). In questa riflessione Roberto Carvelli ci invita, attraverso l'esposizione delle tesi di HAbermas e Taylor, a riflettere anche sulla cruda realtà dell'esistenza di gruppi sociali trasversali alla geografia economica della società che restano legati a concetti del diritto atavico sul suolo "patrio" e dominati da paure altrettanto radicate di fronte alla diversità e alla precarietà dell'immigrato, quest, fra l'altro, a prescindere dalle caratteristiche razziali e spesso anche dall'etnia. In altre parole,, la sensazione è che se da una parte permangono fenomeno di razzismo puro (la caccia al "negro" o al nomade), dall'altra crescano le forme di discriminazione legate alla percezione di una minaccia nelal diversità anche puramente economica o di stile di vita, a prescindere dal colore della pelle.
Sarà uno dei temi del dibattito online di nonluoghi nel 2000.

 

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