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Che Guevara senza guevarismi...
Contraddizioni: la grandezza umana e una prassi inutilizzabile nell'impegno per la pace
 

di PEPPE SINI

    Il testo seguente e' quello dell'intervento di saluto svolto, come responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo, in apertura dell'incontro annuale della "Fondazione Ernesto Che Guevara", tenutosi a Bolsena (Viterbo) il 17 giugno 2000.  Esso apparira' anche nel prossimo fascicolo dell'annuario della "Fondazione Che Guevara".
   Mi sono deciso a diffonderlo anche attraverso questo notiziario poiche' in esso tematizzo alcune proposte di riflessione sulle quali vorrei che si ragionasse senza ipocrisie, senza "falsa coscienza", senza riflessi condizionati autoritari e dogmatici.
In particolare propongo ancora una volta la tesi della incompatibilita' delle pratiche militari (tra cui la guerriglia rientra pienamente) con la lotta di liberazione ed affermazione della dignita' e dei diritti dei popoli e delle persone, tesi che ovviamente si contrappone ad una tradizione fortemente tabuizzata della quasi totalita' dei movimenti di resistenza e di liberazione degli oppressi (in questo del tutto subalterni, e tanto piu' quanto meno consapevoli di cio', alla cultura dominante, ovvero all'ideologia dei potenti).

   E' ovvio che se non vi fossero forme di lotta alternative ed efficaci, in casi estremi gli oppressi avrebbero tutto il diritto di opporsi con la violenza alla violenza degli oppressori; e questo diritto, in quanto assimilabile al principio della legittima difesa che gran parte degli ordinamenti giuridici, dei codici morali e delle tradizioni religiose riconoscono a chiunque, e' incontestabile. Ma esistono alternative: e'
possibile lottare contro la violenza senza riprodurla; e' possibile opporsi all'oppressione senza esercitare nuova oppressione; e' possibile costruire liberta' e dignita' nel momento stesso della lotta; e'  possibile realizzare uguaglianza e riconoscimento di umanita' fin dal momento della decisione e dell'azione di resistenza e di liberazione; e' possibile riconoscere l'umanita' dell'altro e ad essa fare appello fin nel cuore del conflitto; e' possibile lottare in modo limpido, coerente, efficace, umanizzante: e questa possibilita' e' la nonviolenza.
   Altrove ho proposto una articolata interpretazione della nonviolenza nella compresenza delle sue molteplici dimensioni (compresenza senza di cui non si
da' nonviolenza in senso proprio, ma qualcosa di altro e di men degno); qui mi limito a sottolineare che la nonviolenza e' lotta: la lotta piu' limpida e intransigente contro la violenza, contro la menzogna, contro l'oppressione comunque essa si eserciti e si travesta. La nonviolenza e' lotta ed insieme appello all'umano, e' conflitto che chiama alla cooperazione, e' rottura della complicita' con l'ingiustizia e principio fondativo di civile convivenza. La scelta nonviolenta e' oggi, credo, il passo decisivo per chiunque voglia impegnarsi per la giustizia e la liberta', per la democrazia
e la difesa della biosfera, per la pace e i diritti umani. Come ebbe a dire Aldo Capitini (e molti lo hanno ricordato il 24 settembre scorso ad Assisi) la nonviolenza oggi e' "il varco attuale della storia". (B. S.)

 Tre tesi parziali e provvisorie per proporre una riflessione necessaria

   "Così è stata consumata - nel giro di un giorno - la seconda, vera morte di
Che Guevara ed è questa morte che noi rifiutiamo. Che il corpo morto che ci è stato mostrato sia quello di Che Guevara o no, ha un'importanza solo affettiva. Resta il fatto che di questo corpo morto nella rivoluzione, si vuole fare una merce di consumo, facendolo diventare il corpo morto della rivoluzione, che non fa più paura e può essere riassoribito nella produzione. Si tenta di integrare il suo corpo morto nel sistema che Che Guevara -morto o vivo- continua a negare, e noi non vogliamo
essere i muti testimoni di questo secondo assassinio".
(Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, Il corpo di Che Guevara, 1967)

    Per illustrare ed argomentare le tre tesi che in questo intervento vorrei proporre alla discussione avrei bisogno di troppo più tempo di quanto sia disponibile oggi, pertanto mi limiterò qui ad enunciarle e chiederò a chi ascolta la benevolenza di volerle ragionare e discutere mettendoci per così dire del proprio, nella propria memoria recuperando e nella propria riflessione svolgendo sia quell'articolazione di ragionamento, sia quell'apparato di riferimenti di cui le avrei munite e su cui le avrei verificate se invece di parlare per pochi minuti avessi dovuto farlo per delle ore, ma
che qui giocoforza tralascio, ovviamente avvertendo che la secchezza di taluni enunciati (che certo non rende giustizia alla complessità delle questioni proposte al dibattito) dipende dal fatto che si procede di scorcio e per sommi capi.

   1. Una prima tesi: inutilizzabilità della teoria-prassi di Guevara per un
impegno di pace.

    E poiché mi è stato chiesto di intervenire anche per portare a questo incontro di riflessione il saluto del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo, la prima tesi che vorrei proporvi è la seguente: dal punto di vista dell'impegno per la pace la pratica e la riflessione peculiari e caratterizzanti di Guevara come proposta di metodo e di azione non costituiscono un contributo utilizzabile.
   Ma insieme va detto anche: che dal punto di vista della riflessione di chi  è impegnato per la pace l'esperienza e la testimonianza, la proposta teorica e l'appello di Guevara costituiscono una sfida ineludibile (ed è ovvio che molte sue specifiche analisi, denunce, intuizioni, rotture, rappresentano strumenti e materiali cui non si può rinunciare).
  Sostengo con decisione questa tesi, della inutilizzabilità della teoria-prassi guevariana (e dico guevariana e non guevarista perché penso che si debba tener distinto Guevara da quei guevarismi che di quell'esperienza di azione e pensiero sono l'irrigidimento dogmatico e travisante talvolta fino alla caricatura e alla nefandezza) dal punto di vista dell'impegno e  della cultura della pace, essenzialmente per i seguenti motivi.

   - Primo: perché Guevara è stato eminentemente un capo militare, e il teorico
di una via militare: di un certo tipo di attività militare, la guerriglia rivoluzionaria, ma sempre di attività militare si tratta; e l'attività militare è sempre e totalmente incompatibile con l'impegno di pace.
   Del resto lo stesso Guevara ne era pienamente consapevole e lo enunciava con
chiarezza: laddove evidenziava essere la guerriglia una sorta di terribile extrema ratio dinanzi ad una catastrofica violenza scatenata o cristallizzata e nella certificata impossibilità di adire altre e più umane vie di azione.
   E d'altro canto anche Gandhi, della violenza oppositore il più nitido e intransigente, è stato costantemente esplicito nell'esortare a resistere comunque all'ingiustizia, anche con la violenza se non si ha la forza di farlo con la nonviolenza, poiché dinanzi al sopruso pur sempre essendo la violenza un male, cosa ancora peggiore è la viltà: "Credo che nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza" (11 agosto 1920); "Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione" (27 ottobre 1946); Gandhi, come è noto, aveva una concezione articolata e dialettica del rapporto tra violenza e nonviolenza.

- Secondo: perché il progetto rivoluzionario di liberazione fondato sulla pratica della guerriglia, come tutti quelli fondati sull'uso della violenza da se stesso si condanna ad esiti inaccettabili, come ha argomentato ad esempio Giuliano Pontara in una sua analisi che altre volte ho ripreso. Cito da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV., Dizionario di politica, Tea, Torino 1992:
1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica
della violenza. Secondo questo argomento, l'uso della violenza (...) ha
sempre portato a nuove e più vaste forme di violenza in una spirale che ha
condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella
distruzione dell'intero genere umano";
2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze disumanizzanti e
brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa
progressivamente sempre più insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di
vite che provoca;
3. il terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di
essa può condurre (...). I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello
più buono";
4. il quarto argomento "sottolinea come la violenza organizzata favorisca
l'emergere e l'insediamento in posti sempre più importanti della società, di
individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata
conduce prima o poi sempre al militarismo";
5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le istituzioni
necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso
organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e
integrali del movimento o della società che ricorre ad essa (...). «La
scienza della guerra porta alla dittatura» (Gandhi)".

A questi argomenti da parte nostra ne vorremmo aggiungere altri due:
6. un argomento, per così dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza perché siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi è preferibile non esercitare violenza per imporre fini che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati;
7. soprattutto siamo contro la violenza perché il male fatto è irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati).

  Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo
decisivo ragionamento:
"I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della
violenza come strumento di lotta politica rischia di diventare un esercizio
di sterile moralismo se non è accompagnata da una seria proposta di
istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro proposta dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) 
della sua praticabilità anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, 
e  b) della sua efficacia come strumento di lotta" per la realizzazione
di una società fondata sulla dignità della persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente.

- Terzo: infine, e per dirla tutta e senza infingimenti, perché al fondo di quella che si denomina ipocritamente "la questione della violenza" c'è la tragica scelta morale di uccidere, di troncare vite umane. E la mia personale opinione è che chi lotta affinché gli uomini possano essere se non liberi e felici almeno un po' meno oppressi e un po' meno infelici, e questa lotta conduce da una prospettiva egualitaria ovvero che riconosce dignità e diritto a vivere a tutti gli esseri umani, ebbene, deve precludersi la scelta di uccidere, deve ripudiare il dare la morte.
   Poiché chi condivide il punto di vista e l'impegno di lottare per la liberazione dell'umanità o almeno per contrastare i poteri (politici, economici, tecnologici, militari, ideologici e mediali) che la dignità umana denegano (e che oggi la stessa civiltà umana e la stessa biosfera minacciano di distruzione), ebbene, deve sapere che in ogni sua azione e quindi nella stessa scelta della metodologia di lotta e dei rapporti che nella lotta si instaurano deve affermare la dignità di tutti; sempre deve considerare gli altri esseri umani come fini e non come meri mezzi, e non come semplici strumenti (per dirla kantianamente: si tratta di costantemente considerare
l'umanità, e quindi tutti gli uomini, come regno dei fini); deve agire in modo che la sua azione sia, nel suo stesso farsi e nei suoi esiti immediati, per così dire concrezione e vettore di una norma valida come fondatrice di socialità, di una socialità che realizzi le tre parole d'ordine della grande rivoluzione del 1789: libertà, uguaglianza, fraternità.
   Uccidere non fonda una società, cancella vite umane; uccidere non libera, sopprime e basta.

   Eppure anche io che sono una persona che da oltre vent'anni ho cercato e cerco, nel mio personale impegno di lotta contro l'ingiustizia e la menzogna, di coniugare una metodologia di analisi della storia e della società che sbrigativamente definirò marxista, una weltanschauung materialista (che altrettanto sbrigativamente definirò leopardiana), e la scelta morale, assiologica e strategica della nonviolenza di tipo satyagraha (connessa al "principio responsabilità" - Hans Jonas, per intenderci, ma
anche un richiamo ad Emmanuel Lévinas-), e solo così mi pare, almeno per quel che mi riguarda, che si possa essere un rivoluzionario egualitario coerente per quanto è possibile, ebbene, io non posso cessare di misurarmi e riflettere sulle scelte e le aporie di Guevara, sulle sue intuizioni e contraddizioni, su ciò che di lui, della sua esperienza e della sua riflessione mi turba e ciò che mi persuade, ciò che mi commuove e ciò che mi addolora e fin ripugna, poiché di ogni uomo, per quanto lucido e generoso egli sia vi sono aspetti che suscitano la nostra adesione ed aspetti che ci muovono alla critica o finanche alla delusione ed all'opposizione.

   Quest'uomo dall'animo grande, intransigente fino al sacrificio di sé (e con sé dei suoi compagni più cari: e quale ferita questo dovette recare nell'animo suo), ed insieme tenero e sensibile come una ballerina (e guascone perché anche lui pensava -idea che tanta sciagura ha recato al movimento degli oppressi- che un capo rivoluzionario deve mascherare l'angoscia e lo smarrimento e il pianto);
quest'uomo che da medico si fece guerrigliero (e quindi in ultima analisi anche uccisore -non dobbiamo aver paura di usare le parole che designano precisamente l'atto di uccidere: è l'atto che deve farci orrore-) non essendo riuscito a trovare (ma Gandhi disse: c'è sempre un'altra strada), nelle concrete condizioni e costrizioni storiche ed esistenziali in cui si trovò e secondo la percezione e la coscienza che di esse ebbe, un più efficace modo di affermare la dignità umana, di cercar di lenire l'umano dolore provocato dalla violenza storicamente prodotta dall'oppressione dell'uomo sull'uomo, di contrastare chi calpesta altrui, di tentare la costruzione di una società meno barbara, di riscattare le vittime dell' offesa in un percorso comune di conquista per tutti della dignità; quest'uomo ci interroga, ci convoca, ci costringe a vedere, a prendere posizione, ad agire.

2. Una seconda tesi: in Guevara, che ne ebbe acuta coscienza, si incarnano contraddizioni, dicotomie ed esiti aporetici delle esperienze storiche e della tradizione teorico-pratica dei movimenti di resistenza e di liberazione, e particolarmente del marxismo rivoluzionario E questo introduce la seconda tesi che intendo proporvi: nella figura, nella prassi, nella riflessione, nella testimonianza e nello scacco di Guevara si condensano e per così dire si incarnano con straordinaria potenza ermeneutica le contraddizioni e le aporie più incandescenti e più tragiche non solo della tradizione  storica e teorica della sinistra rivoluzionaria, della corrente calda del marxismo, ma di tutti i movimenti e fin delle persone di volontà buona che si ribellano alla feroce barbarie del tuttora presente tragico e assurdo momento dell'umanità.
   Guevara ne ebbe acuta coscienza: e mi sembra colga nel vero chi interpreta il suo percorso e le sue scelte nella fase finale della vita anche sotto il segno della consapevolezza che occorreva affrontare questi grovigli immani.

  Mi limito a una mera elencazione:
- la contraddizione tra la morale eroica, l'etica del sacrificio da un lato, e la leva (e l'obiettivo, e la promessa) del benessere materiale dall'altro;
- il rischio di una progressiva dicotomia e fin schizofrenia tra militante e popolazione;
- la contraddizione tra la denuncia della violenza degli sfruttatori e degli oppressori, e la sua riproduzione nella lotta e nell'organizzazione di chi ad essa si oppone;
- il patologico coniugarsi di attivismo (fin irrazionalista) e positivismo (opportunista, giustificazionista);
- il patologico coniugarsi di pretesa scientifica (dogmatica) e atteggiamento profetico (sacrale e sacrificale);
- il confliggente sovrapporsi ad un progetto politico di liberazione fondato su una visione del mondo razionale, su una ipotesi antropologica qualificata dalla consapevolezza, dalla moderazione e dalla benevolenza, ed orientato alla proposta di una condivisa sobria felicità, di motivazioni fortemente condizionate da mozioni, di matrice tra religiosa e misterica, al sacrificio catartico, alla sofferenza come espiazione, a prospettive escatologiche e soteriologiche;
- la prevalenza del modello gerarchico su quello consiliare;
- la sottovalutazione della sfera (e dell'autonomia, e della rilevanza) del diritto, e finanche di quella dell'amministrazione, rispetto alla pretesa sussunzione alla politica ed all'economia (che diventano così una sorta di categorie onnivore e quindi radici di ideologie e pratiche totalitarie);
- il dramma dei rivoluzionari che giunti al potere non sanno essere legislatori ed amministratori, e non riescono ad aprirsi ad una più ampia pratica democratica ed egualitaria, e la conseguente involuzione burocratica ed autoritaria;
- la riproduzione di rapporti di potere, di oppressione, di sfruttamento, di esclusione, di denegazione.

   Aver indicato, sia pure per mera elencazione, queste contraddizioni, e queste aporie, beninteso non implica un atteggiamento di resa, ma di ricerca e di impegno, di maggior profondità nel riflettere, nell'assumere responsabilità, nel continuare la lotta contro i carnefici; e continuarla anche contro quella parte di noi stessi che potrebbe anch'essa divenire carnefice, o specchio o complice dei carnefici: se ubriacata dalla falsa coscienza dell'ideologia e  dalla viltà, dalla logica dell'obbedienza che edifica lager o dalla pretesa di purezza che erige roghi; se cioè la coscienza non fosse costantemente vigile.
   A me sembra che Guevara visse ed avvertì acutamente queste contraddizioni,
questa aporie, ed almeno ad alcuni livelli e sulla base delle sue esperienze
e riflessioni, e degli strumenti conoscitivi di cui disponeva e delle circostanze in cui la sua azione poteva collocarsi, tentò in qualche modo di agire per fronteggiarle.
   Non vi è dubbio che Guevara colse non la mera involuzione burocratica ma
quel che di più e di peggio era accaduto nel "campo socialista"; colse non solo il portato, ma le radici e il senso della frattura tra Urss e Cina;
colse la solitudine del Vietnam; colse la necessità di far riferimento alle potenzialità dell'Africa e che quello era un momento decisivo; colse la dimensione internazionale e globale dello scontro non per meccanica applicazione della teoria dei due campi e dei catechismi marxisti-leninisti, bensì per nitida percezione e concreta coscienza delle forme specifiche in cui la dominazione imperialista nella fase coesistenziale riorganizzava il suo potere e la sua egemonia attraverso i meccanismi strutturali e
ideologici del neocolonialismo, dell'omologazione, dell'inclusione subalterna, del primato produttivista.
   Colse la catastrofe morale e fin antropologica prodotta così dall'economicismo come dalla ragion di stato (e di partito), e si sforzò di contrapporvi il primato della persona, dell'uomo concreto e dei suoi concreti bisogni e diritti nelle dimensioni del corpo, dell'intelletto, dei sentimenti, dell'incontro con l'altro, del riconoscimento.
Colse la pervasività dell'alienazione nelle sue dimensioni sociologiche e psicologiche, nella sfera della produzione e della riproduzione sociale,
della cultura, della vita quotidiana, dell'interiorità; ed alla colonizzazione mentale, all'introiezione da parte degli oppressi dei valori dell'ideologia dominante che doppiamente li dimidia e assoggetta, cercò di contrapporre lo sforzo di una dolorosa (perché cosciente) ed inquieta (perché incerta) ricerca di autenticità: nella condivisione della fatica e della sofferenza, nell'azione rivoluzionaria, nell'attività fabrile, considerate sempre anche come pratiche educative: nella scelta teorica e
pratica, epistemologica e terapeutica, della solidarietà con gli oppressi, dell'assunzione del punto di vista degli oppressi, della condivisione della
condizione degli oppressi (così simile in questo ad alcune delle cogitazioni, e delle scelte, ad un tempo sublimi e sconcertanti di Simone Weil).

   Colse anche la gravità e il pericolo che l'autoritarismo, il dogmatismo, la menzogna rappresentavano per la rivoluzione. Colse il riprodursi di rapporti di potere, di sfruttamento e di mistificazione anche nel campo degli oppressi.
Non seppe o non poté individuare soluzioni adeguate; ed alcuni suoi estremi
tentativi possono anche apparirci enigmatici, opachi, fagocitanti ed autolesionisti, ingiusti e spaventosi: ma non vi è dubbio che quest'uomo avvertì acutamente i problemi, non eluse i conflitti, sentì e sostenne con strazio e con fierezza le contraddizioni che lo laceravano.
   Mi pare che delle dicotomie ed aporie di cui sopra si è fatta una frettolosa, caotica e certo carente elencazione, sia assai consapevole ad esempio l'esperienza neozapatista in Chiapas, che nella sua elaborazione, che ha enormi meriti ed espliciti limiti, unisce ad una acuta e fin suggestiva pars destruens, una enorme difficoltà a proporre una pars construens: quando dall'analisi critica, dalla fondazione logica e ontologica della resistenza, si passa alla proposta, lì Marcos si ferma e si
rifugia in formule generiche e quasi meramente moralistiche.

   3. Una terza ed ultima tesi: Guevara senza guevarismi

   Una terza ed ultima tesi per concludere: così come Marx affermava infastidito di non essere marxista, e non meno infastidito affermava di non voler scrivere i menu per i ristoranti dell'avvenire, sottraendosi così sia ad un ruolo pontificale e dogmatico, sia ad un ruolo profetico e quasi taumaturgico (se ne fossero ricordati i suoi eredi, e non solo gli abusivi e usurpatori con la vocazione al sacerdozio e alle fucilazioni, quante catastrofi si sarebbero evitate), e così come giustamente uno studioso scrisse che occorreva leggere Kafka 'senza kafkismi", credo che anche per Guevara dovremmo essere espliciti e solleciti (lo accennavo anche sopra) nel
considerarne la figura e l'opera teorica e pratica liberandolo dal "guevarismo", contrastando i consumi che ne vengono fatti volta a volta come di un'icona liturgica o pop, di una eterna tentazione militarista, di una paradossale cristologia, ed anche, se posso permettermi, di una sorta di figura da hegeliana Fenomenologia dello spirito.
   Guevara non è l'uomo del XXI secolo che una macchina del tempo ha portato
nel XX; non è l'«uomo nuovo», fantasma cui egli stesso sovente allude (e che
tra le tante sue formule e intuizioni di grande efficacia, suggestione e fecondità, mi sembra anche una delle più ambigue e potenzialmente anche pericolose, a cavallo tra l'ultrauomo di Nietzsche, il superomismo socialista di Jack London, un persistente residuo di misticismo e millenarismo cristiano, e l'«ingegneria delle anime» di stalinista memoria).
   La sua riflessione politica, economica, sociologica ed etica non è particolarmente rilevante se confrontata a quella di vari altri pensatori e testimoni, ed è in molti dei suoi aspetti centrali (ma non tutti, beninteso) inadeguata ai problemi nuovi e terribili dell'oggi e dell'immediato futuro; la sua fin leggendaria franchezza e coerenza non è solo una virtù ma talvolta anche un alibi (e in taluni suoi pretesi epigoni degenera talvolta da strumento euristico quasi a cinico corto circuito logico preventivamente
autoassolutorio).

   E se posso soffermarmi anche su questo: anch'io ritengo importante lacoerenza tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa: ma non basta: occorre altresì valutare i motivi, il senso e gli effetti di questi pensieri, queste parole, queste azioni. E tra quanti ammirano il "Che" per la sua coerenza molti vi sono che in verità alla sua e alla nostra lotta sono nemici i più radicali.

   Guevara, come chiunque, da Marx a Gandhi, da Socrate a Diderot, da Dante a
Rosa Luxemburg, va contestualizzato storicamente e culturalmente, e va letto
nel suo stesso divenire, nella storia dei suoi esperimenti con la verità (per parafrasare il titolo che Gandhi diede alla sua autobiografia). E' un uomo e non un oracolo. Un pensatore, un militante, un testimone, il cui valore pienamente si apprezza appunto quanto più si è capaci di coglierlo precisamente nel gorgo storico, culturale, esistenziale in cui concretamente visse, operò, pensò.

   Ma detto tutto questo, e ricondotto Guevara fuori dall'alone del mito, fuori dalla leggenda e dall'ideologia, fuori dalla sfera del sacro (sfera che sappiamo bene essere così terribilmente ed intrinsecamente connessa alla violenza), resta un uomo grande: la cui vicenda, le cui scelte e riflessioni, il cui appello ancora ci chiamano e ci feriscono come un pungolo, uno sperone conficcato nelle nostre stesse carni, nel nostro stesso animo.
E' l'uomo che ha scritto nella lettera di congedo ai figli: "Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo".
E' l'uomo che ha scritto: "La solidarietà del mondo progressista verso il popolo del Vietnam assomiglia all'amara ironia che l'incitamento della plebe rappresentava per i gladiatori del circo romano. Non si tratta di augurare vittoria a chi è stato aggredito, ma di condividere la sua sorte, di accompagnarlo nella morte o nella vittoria. Quando analizziamo la solitudine vietnamita, ci assale l'angoscia per questo momento irrazionale dell'umanità".

   E' l'uomo su cui Franco Basaglia scrisse, all'indomani della sua morte, alcune delle parole più nitide e persuasive (e non ho voluto concludere questo intervento senza almeno ricordare quel grande umanista, terapeuta e rivoluzionario che è stato Basaglia, e quel suo scritto su Guevara di cui sono tra i pochi a serbare memoria e che propongo all'attenzione degli studiosi).
   L'uomo Guevara ancora ci convoca a un impegno di umanizzazione, a non eludere le contraddizioni, a dire la verità, ad agire affinché cessi l'orrore e l'uomo finalmente un aiuto sia all'uomo, anziché un lupo; a costruire la giustizia e la solidarietà a cominciare da noi, adesso.
E lo sentono fratello e compagno gli oppressi tutti e soprattutto i popoli del sud del mondo in lotta contro l'imperialismo che li stermina con le armi e con la fame, con il prezzo del rame e con il turismo sessuale, con la gestione sussunta al profitto delle risorse, della biosfera, della stessa vita umana ridotta a merce di scarso prezzo, che i vampiri dei mercati finanziari e i lupi delle reti televisive sbranano incessantemente.

   Anche chi come me ritiene del tutto peculiari le sue scelte, anche chi come me non condivide ed anzi si oppone a elementi sostanziali e decisivi della sua azione e della sua meditazione, pure molto ne ha appreso, di parti non meno fondamentali della sua elaborazione e testimonianza si è nutrito e si nutre, e reca grata memoria di Guevara, della sua tragica e nobile figura di combattente per la buona causa, la causa dell'umanità.


o Pubblichiamo un intervento di Peppe Sini
tratto da "La nonviolenza in cammino", foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo di cui l'autore - che ringraziamo - 
è il direttore.
 

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(10 novembre 2000)

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