Per un giornalismo critico 
I fatti e le idee
fra emergenza e utopia...


 
VOCI CONTRO LA GUERRA E LA VIOLENZA
Pubblichiamo alcuni degli interventi che abbiamo ricevuto in questi giorni

 
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Sommario: Caminiti e il tricolore. Sini: "Ripristinare il diritto". Gino Strada a Kabul. Sini:"Colpo di Stato". Appello per lo sciopero generale. Borghi: lettera a un direttore di giornale. Vittorangeli: l'orrore e la memoria.
La voce anarchica di "Germinal". Umanità Nova: Bush e Bin Laden.

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LANFRANCO CAMINITI: "VOGLIO FARE IL CUSTODE DEL TRICOLORE""

Caro presidente Ciampi,
ho letto con vivo interesse la proposta di Alleanza nazionale di
istituire la figura del "custode del tricolore". Erano solo poche righe
di una breve notizia di cronaca, da cui trasudava un patriottismo alle
stelle ma corredato di poche indicazioni concrete. Per ora, come lei
saprà, avendo con vigore partecipato all'abbrivio di questo rinnovato
spirito di patria, le proposte si sovraccavallano eccitate: c'è chi vuol
distribuire bandierine agli alunni, chi vuol piantarle su tutte le pizze
margherite che vengono sfornate, chi sugli elmetti di ogni milite e,
perché no, sui manganelli tonfa delle forze dell'ordine adibite alle
manifestazioni di piazza, e chi propone nuovi cocktail autarchici
guarniti da ombrellini a tricolore. Non è ancora chiaro, dunque, se
questa figura sarà unica, centrale, qualcosa da affiancare - in
turnazione lavorativa, per quello che la flessibilità oggi può
permettere - ai soldati che vigilano sul sacro fuoco all'Altare della
Patria o se invece sarà una figura federale, decentrata, che stia in
ogni comune d'Italia o addirittura ovunque sventoli una bandiera. In
quest'ultimo caso, lei converrà, si allieverebbe anche un problema di
disoccupazione. Ci potranno essere custodi del tricolore appesi ai
balconi dei palazzi istituzionali o da issare su tutti i pennoni che lo
necessitano, corpi italici sventolanti nelle caserme e nelle scuole,
nelle case e negli uffici, sulle gru di tutti i cantieri edili, purché
vengano ben imbracati e non caschino giù, come si mormora spesso accada
a incauti muratori. Si potrebbe addirittura ipotizzare un alzabandiera
quotidiano da svolgere ovunque un italiano si trovi, magari  in
comitiva, alla stessa ora, tutti come un sol uom. Immagini che tripudio.
Insomma, tricolori a iosa, e custodi del tricolore a strafottere. E
probabilmente, lei, che è così attento alle questioni del lavoro
italiano, riassumendo i caratteri del governatore di banca che è stato,
propenderà per questa soluzione. Nella mancanza di riferimenti
istituzionali certi e nell'attesa della pubblicazione sulla "Gazzetta
ufficiale" scrivo dunque a lei. In ogni caso, io credo, vi saranno dei
concorsi, per vagliare e valutare i meriti e le attitudini degli
aspiranti che, un po' per il patriottico entusiasmo che attraversa il
nostro suol e un po' per tirare a campare, presumo saranno numerosi.
Come ogni concorso che si rispetti, si può prevedere fin d'ora che esso
sarà per esami e titoli.
Io voglio fare il custode del tricolore. Anch'io un po' perché travolto
da insolita passione e un po' - le confesso - per mettere ordine in una
vita lavorativa scombinata per cui a cinquant'anni, con l'agognata fine
del posto fisso che ha fiaccato per decenni l'indomito e laborioso
carattere italico, rimango però per mesi inoperoso e con una vecchiaia
che incombe, dove mi ritroverò senza uno straccio di pensione. E quindi,
prevenendo le indagini dei carabinieri che setacceranno il mio albero
genealogico per attestarne purezza e limpidità per l'alto compito, ho
pensato fare cosa utile a loro - e avvantaggiarmi rispetto gli altri
innumeri concorrenti - nel presentare da me i miei titoli (agli esami,
già lo so, sarà dura: perché, vede, io la guerra riesco pure a capirla,
ma la retorica guerrafondaia, quella, mi si mette di strozzo). Dovrò
parlarle della mia famiglia e dell'amor di patria che vi alligna.
Mio padre - che è mancato da qualche anno -  ha combattuto in Africa. Ci
era andato sacrificando un po' le sue ambizioni e preso da un ruolo di
responsabilità verso i fratelli più piccoli, dopo la morte del padre. Il
soldo non era chissachè ma a quei tempi garantiva - insieme ai mille
mestieri di mia nonna e all'abitudine di tirar la cinghia propria di chi
è nato povero - un minimo di sicurezza: dei fratelli, lui riuscì a farne
studiare più d'uno e ne era molto orgoglioso. Per questo, partì per
l'Affrica, come si diceva allora. Lì, a un certo punto, fu catturato
dagli inglesi e si fece quattro anni di campo di prigionia in Kenya mi
pare o Etiopia, che non era cosa tenera. Ne aveva riportato mucchi di
foto e ostinate abitudini, come quella - che faceva disperare mia madre
che c'è diventata stitica - di chiudersi in bagno al mattino prestissimo
e lavarsi per ore accuratamente con poca acqua: c'erano foto di lui in
Africa che si radeva o faceva le abluzioni con un catino, contornato da
uomini e bambini neri che ridevano a tutti denti: io penso fosse un
aggrapparsi alle minuzie per non lasciarsi andare, un dare esempio
d'ordine alla truppa e una sfida alla brutalità degli inglesi. Ne aveva
anche riportato un grande amore per quel continente e le sue genti, un
rispetto verso la loro mitezza e verso il loro coraggio: mi raccontava
episodi di guerra in cui soldati ascari balzavano dalle trincee sfidando
le pallottole che dopo riti magici sapevano deviare dai loro corpi:
trovavano fosse una viltà sparare da lontano contro i nemici e chissà
cosa penserebbero dei grandi strateghi americani che ormai le guerre le
fanno solo bombardando perché si cacano sotto allo scontro diretto
(presidente, ammetterà che questi americani sono strani: parlano di
"crescita zero", "tolleranza zero", "Ground zero", e per questa guerra
di "morti zero": qualcuno dovrebbe spiegargli che dicendo così finiscono
con il rinfocolare certi sciocchi sciovinismi arabi, che si papariano
sempre di avere inventato la matematica, di essere andati oltre lo zero,
da 1 a 9). Ne aveva anche riportato un grande amore verso la loro
bellezza: mi diceva di non aver mai visto donne e uomini più belli. E a
guardar le foto c'era da credergli. Ne riportò anche una radicata
convinzione che le guerre, d'occupazione, di conquista, d'aggressione o
che, fossero un male terribile, per chi le subiva e per chi le faceva.
Non era mai stato fascista se non come buona parte dei connazionali ma
aveva molto creduto nell'esercito: e credo che qualcosa gli si ruppe
dentro quando seppe di come il generale Graziani aveva usato i gas in
Africa, ci hanno fatto pure un film, non so se lei lo ha visto in una
saletta privata del Quirinale, perché in Italia non ha mai trovato
distribuzione, e glielo consiglio, anche a sua moglie che sembra tanto
una persona perbene, e magari si capiscono meglio certe parole perché
non è che noi italiani siamo stati sempre "brava gente": potremmo
chiedere scusa per certe "imprese" - sa, l'Abissinia, la Libia 1 e la
Libia 2, insomma tutto quell'ambaradan lì -, che sarebbe pure un bel
gesto e ci faremmo una gran figura a dare l'esempio ai francesi, agli
inglesi e pure ai belgi, che di porcate ne han fatto un po' dappertutto,
e questo non toglierebbe una virgola alla lotta al terrorismo, anzi;
ormai anche il papa chiede scusa, che pure loro, via, di cose da farsi
perdonare ne hanno, eccome. Si può immaginare quanto profonda fosse la
delusione di mio padre al ritorno in patria, quando si sentì abbandonato
al suo destino. Non so se per questa delusione o per qualche suo
maturato cambiar di rotta, fece il maestro per tutta la vita, con
passione e rigore. Ogni tanto, come capita a tutti quelli che
invecchiano, lo acchiappava la nostalgia della sua giovinezza e
dell'Affrica - cosa che io non capivo proprio bene e riducevo solo a un
lungo periodo di prigionia. Negli ultimi tempi si era un po' sbattuto
per rintracciare vecchi compagni d'avventura, commilitoni o che avessero
comunque condiviso quell'esperienza. Non per amor di patria, ché la
patria gli dava 248.000 (duecentoquarantottomila) lire - una tantum -
una volta l'anno, per la sua "impresa coloniale". Ma per sé, per
rispetto di sé. Adesso, sul mio comodino ho la sua foto in divisa
coloniale, tutta bianca, con una bella bandolera che gli attraversa il
petto. E' proprio un bel giovane e d'altronde mia madre non ha fatto
altro che rimproverarmelo tutta la vita di non essere mai stato bello
come lui.
Lo zio Filippo invece aveva fatto quella Grande di guerra, e bastava
chiedergliene e stargli vicino qualche minuto per capire quanto grande
fosse stata quella guerra. Lo zio Filippo non apparteneva al mio sangue
ma a quello di mia moglie, eppure l'ho sempre sentito come fosse mio,
sarà perché è vero che poi uno le parentele se le sceglie. Era un
contadino lo zio Filippo, e aveva tutte le mani storte dall'artrite e
dalla fatica dei campi; ma era dritto come un fuso, anche da vecchio,
con la sua testa bianca sempre viva, gli occhi che ti scrutavano
vincendo la cataratta, i suoi baffi ingialliti di mezzi toscani, la sua
catena d'orologio che gli attraversava il panciotto, un uomo fiero. Era
stato un coraggioso in guerra lo zio Filippo, un ardito, aveva avuto
delle medaglie, e nella sua cameretta - un letto, un comodino e una
lampadina da venticinque watt appesa con un filo elettrico nudo nudo al
soffitto - c'era inchiodato non ricordo che attestato. C'è chi ha
scritto che il coraggio non è una virtù morale perché si può essere
coraggiosi per caso, e forse ha ragione, ma lui lo era d'animo, perché
si era battuto non solo nelle trincee ma nelle campagne, dopo, per i
diritti dei contadini: e non doveva essere stata una lotta meno dura e
cruenta, neanche quando dovette fare i conti con i latifondisti,
fascisti e mafiosi. Era stato a Caporetto ma non ne parlava volentieri,
solo a stargli vicino "capivi", con quel suo agitare le mani e smuovere
la testa, quale dramma fosse stato, e la spagnola dopo, quella la
raccontava, che si moriva come mosche. C'andavamo in campagna da lui
quando era tempo dei fichi neri che gli venivano belli grossi o quando a
san Martino si spillava il vino dalle botti e si mangiavano le castagne
ed era una festa grande e lui si metteva seduto come un patriarca e
guardava tutti quei bambini che correvano e gridavano e i figli e le
loro mogli e i nipoti e le loro mogli, e io gli chiedevo della guerra e
lui muoveva quelle mani tutte storte e quella sua testa bianca. Ora la
campagna è abbandonata o quasi, c'è rimasto solo Mitri che ci rimane
perché non ha mai fatto altro nella vita e quest'estate ci siamo andati
e ci siamo seduti sotto gli ulivi come dandoci importanza, ma le cose
ormai sono scivolate via, come forse è giusto che sia. Era stato un
socialista lo zio Filippo, questo s'era portato dietro dalla guerra, un
socialista proprio di quelli che hanno fatto il novecento e reso un po'
più degno questo paese di raccontare la sua storia.
Per questo non correva buon sangue con mio suocero, don Pietro, che
invece la guerra - la seconda - l'aveva vissuta con baldanza e aveva
fatto l'Albania e aveva spezzato le reni alla Grecia e teneva l'elmetto
da soldato nell'ingresso della sua casa e andava tutti gli anni a
Redipuglia, al Sacrario dei caduti, quando ancora ce la faceva,
organizzando il pullman con i suoi vecchietti, e poi, quando gli venne
troppo faticoso partire, facevano la cerimonia al cippo dei caduti nella
piazzetta del paese, lui in testa portando non so che stendardo e la
banda - cinque elementi cinque - dietro. C'è in tutte le piazzette dei
paesi d'Italia il cippo dei caduti per la patria e io quasi ovunque me
li sono letti quei cippi, con quei lunghi elenchi di nomi e di vite
giovani che ti stringe il cuore per come sono abbandonati, bisognerebbe
portarci gli alunni delle scuole elementari a leggerli quei nomi scritti
nel bronzo, uno per uno, e farglieli lustrare col sidol e imparare a
memoria, come le tabelline, per odiare le guerre. Erano proprio due
caratteracci lo zio Filippo e don Pietro, e con quei testoni di
contadini che si ritrovavano finì che non si parlarono per anni. Però,
negli ultimi tempi a don Pietro, che era democristiano ma buon
cattolico, a furia di guardare la tivvù gli aveva preso non so che
preoccupazione per il mondo, che era diventato troppo violento e
traversato dalle guerre, e s'era messo a spedire i soldini della sua
pensione a tutti i moduli di conto corrente che trovava in "Famiglia
cristiana" o nei giornaletti di chiesa che gli arrivavano a casa: e vai
con le Ancelle riparatrici del cuore dai sette pugnali della Vergine
Maria che stanno a Timor est o con i Fraticelli poveri della porziuncola
dell'Orto del Gestsemani che stanno a Gerusalemme - c'era pure andato a
Gerusalemme a pregare per la pace -, che tutte le figlie non sapevano
come fare a nascondergli le riviste, preoccupate che restasse senza un
soldo, così ci si mise d'accordo con il postino che le consegnassero
prima a loro, che gliele filtravano, cioè gli staccavano via i moduli
dei conti correnti da riempire. Epperò lui ci andava lo stesso alla
posta, così finì che gliela sequestrarono la pensione, neanche tutta
però, e quel poco che restava lui continuava a spedirla, alle Sorelle
immacolate di Calcutta o all'Ordine beato di Giakarta. Una volta anche
ad Amnesty international. Era convinto di quel che faceva e io me ne
accorgevo perché l'elmetto che stava nell'ingresso s'era tutto
impolverato con le ragnatele pure, così lo misi in cantina e lui non mi
disse nulla, non so se perché non se n'era neppure accorto o perché non
gliene fregava più niente. All'orazione funebre - sono delegato, e per
me è un onore non da poco,  a quasi tutti i discorsi di matrimonio o di
funerale, da tutta la famiglia, grande tanto da riempire una chiesa,
perché ormai siamo ai bisnipoti che sono già coi pantaloni lunghi -
dissi qualche parola su questo combattente, da cui mi aveva diviso quasi
tutto nella vita, benché avesse tanto affetto per me, e su quel suo
piccolo fare per la pace degli ultimi anni, risibile forse ma
determinato come il resto dei suoi giorni. Avevamo scambiato qualche
parola sulla guerra in Kosovo - lui conosceva l'Albania - ed era triste
per quanto succedeva, non lo capiva, non riusciva a inquadrarlo neppure
nei sui valori di combattente, se mai gliene fossero rimasti. In chiesa
parlai di quella assurda guerra e di come questo ardore militare fosse
veleno delle nostre vite. Mi sembrò un buon saluto per don Pietro.
Sembrò anche al prete che officiava e che volle abbracciarmi, mettendomi
in imbarazzo.
Caro presidente Ciampi, questi sono i miei titoli acquisiti - i miei
propri sono davvero poca cosa e forse è meglio sorvolare - senza meriti
diretti ma solo perché ne porto memoria: le indagini dei carabinieri non
potranno che confermare. Se è proprio necessario posso risalire anche
più indietro nel tempo, ho pure un trisavolo che combatté con Murat e
che quel vigliacco del re di Napoli rinchiuse alla Favignana dove ci
morì - ci dev'essere un qualche tarlo strano nel nostro sangue che ci
porta tutti in galera. Io spero tornino buoni questi titoli per il
concorso a custode del tricolore, che vorrei proprio fare: glielo devo,
a mio padre, allo zio Filippo, a mio suocero e anche al trisavolo. Agli
esami mi arrangerò, che in questo noi italiani siamo bravi. Sa, io non
credo di avere avuto la fortuna di conoscere uomini particolari o
straordinari: sono storie qualunque e forse se ciascuno chiede al
proprio nonno o al proprio zio o al vicino della porta a fianco che è
tanto anziano salterebbero mille storie come quelle che ho appena
raccontato, proprio come si fa quando le maestre assegnano il compito
per casa e bisogna fare le interviste. Se può, se i suoi compiti
istituzionali glielo consentono, lo dica lei alla Moratti di invitarli
tutti nelle scuole, a parlare coi bambini, questi nostri vecchi che
hanno fatto le guerre; e che metta come testo obbligatorio da commentare
un libro come le "centomila gavette di ghiaccio" di Mario Rigoni Sterne
sergente della campagna di Russia, che  l'ho letto che ero alto un
palmo, dalla biblioteca di papà, oppure faccia vedere un film come
"Mediterraneo" che c'ha dato tanto lustro nel mondo e c'abbiamo pure
vinto l'Oscar. Gli italiani non amano le guerre e pure si trovano sempre
governati da tronfi imbecilli che ce li spingono alle guerre, per i
territori irredenti, per le colonie, per l'impero, per sedersi al tavolo
dei grandi, per l'occidente, per chissà quale cazzo. E sarà per questo
che poi noi quelle guerre finiamo sempre per farle male e concluderle
peggio, mentre invece ci riescono bene quelle in casa, quando si tratta
di cacciare via austriaci e borboni, pontifici e tedeschi, barbari e
lanzichenecchi - al gioco del calcio, è noto, noi eccelliamo nel
contropiede. A volte ci riescono bene pure quelle contro i barbari e
lanzichenecchi che produciamo in proprio. A volte li mandiamo via o li
buttiamo giù. Perché, in fondo al cuore, a questa benedetta Italia ci
teniamo, sa?

Roma, 11 novembre 2001
PEPPE SINI: FERMARE LA GUERRA E RIPRISTINARE LA VIGENZA DEL
DIRITTO INTERNAZIONALE PER LOTTARE CONTRO IL TERRORISMO

(dal Foglio di approfondimento "La nonviolenza in cammino", Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it)

Occorre fermare la guerra e ripristinare la vigenza del diritto
internazionale per lottare contro il terrorismo.
Fermare la guerra: far cessare le stragi, salvare le vite umane innocenti
che stanno morendo sotto le bombe e di stenti.
Fermare la guerra: prima che diventi una conflagrazione mondiale senza
fronti e senza regole, un terrorismo generalizzato che puo' mettere fine
alla civilta' umana: sappiamo tutti che esistono armi di sterminio di massa
sufficienti a distruggere la gia' intaccata biosfera non una ma piu' volte.
Sappiamo tutti che dopo Hiroshima ogni guerra puo' essere l'innesco
dell'apocalisse.
Fermare la guerra: perche' essa si sta trasformando hic et nunc in un
genocidio. Perche' essa sta imbarbarendo il mondo. Perche' essa sta
istigando tutti gli esseri umani del mondo alla pedagogia della violenza,
alla legge del taglione, all'uccidere come supremo regolatore di ogni
conflitto. Perche' essa sta rendendo ogni giorno piu' grande e piu' forte il
terrorismo come pratica e come ideologia.
Riristinare la vigenza del diritto internazionale: perche' dove non vi sono
leggi, c'e' una legge sola: quella della giungla, la legge del piu' forte
che sbrana e divora il piu' debole.
Ripristinare la vigenza del diritto internazionale: perche' gli stati la
smettano di essere imitatori e complici dei gruppi criminali; perche' gli
stati la smettano di essere terroristi; perche' gli stati la smettano di
uccidere gli esseri umani invece di difenderne la vita, la dignita', i
diritti.
Ripristinare la vigenza del diritto internazionale: perche' senza di cio'
l'umanita' e' destinata a soccombere sotto la furia delle armi, del terrore,
della guerra.
Per lottare contro il terrorismo: che va affrontato e sconfitto con gli
strumenti del diritto, della legalita', della democrazia.
Per lottare contro il terrorismo: che va perseguito per quello che e': un
atto criminale di organizzazioni criminali; che va quindi combattuto con
operazioni di polizia e procedure giudiziarie. In relazione alle stragi
dell'11 settembre occorre dunque un'operazione di polizia internazionale
sotto l'egida dell'Onu e un tribunale penale internazionale che giudichi e
condanni i responsabili.
Per lottare contro il terrorismo: per affermare tutti i diritti umani per
tutti, per ogni essere umano, per l'umanita' intera.
Consentiamo un futuro all'umanita': solo con la pace e' possibile.

IL MANIFESTO VAURO SENESI INTERVISTA GINO STRADA

[Questa intervista e' apparsa sul quotidiano "Il manifesto" dell'11
novembre. Vauro Senesi e' giornalista e noto vignettista; Gino Strada,
chirurgo e fondatore di Emergency, ha raggiunto l'ospedale da lui fondato a
Kabul. Per informazioni costantemente aggiornate: www.emergency.it]

Gino Strada e' a Kabul. Li', da domani, l'ospedale di Emergency sara'
operativo. Con lui ci sono altri due italiani, Fabrizio Lazzaretti e Alberto
Vendemmiati, autori di Jang (fotogrammi del filmato girato nel viaggio dal
Panshir alla capitale sono disponibili sul sito di Emergency). Gli unici
occidentali a Kabul. La riapertura dell'ospedale e' un segnale di civilta'
nella citta' martoriata dai taleban e dai bombardamenti. Dimostra che un
messaggio diverso dalla guerra e' possibile e necessario. Lo abbiamo
raggiunto telefonicamente.
Vauro Senesi: Quattro giorni fa ti ho lasciato nel Panshir, ora sei a Kabul.
Gino Strada: Emergency non puo' non essere a Kabul oggi. Per ragioni che non
hanno niente a che vedere con la politica, ma con il fatto che in questa
citta' c'e' gente che soffre, che muore per una guerra. Questa ragione e'
piu' che sufficiente per essere qui.
V. S.: Per raggiungere Kabul hai dovuto attraversare le linee del fronte
Nord. Cosa mi puoi raccontare di questo viaggio?
G. S.: Il tipico viaggio afghano, con tutti gli accordi presi intorno a
interminabili tazze di te', in cui si arriva perfino a definire l'ora del
passaggio del convoglio e il colore delle macchine. Bisognava informare
anche chi stava volando sulle nostre teste. Siamo arrivati al fronte e
tutti, regolarmente, stavano sparando, da una parte e dall'altra. Era in
corso un bombardamento, e' durato tre ore, colpendo esattamente la strada
che dovevamo percorrere.
V. S.: La strada che stava percorrendo il vostro convoglio umanitario e'
stata bombardata nonostante tutti fossero stati avvisati del vostro
passaggio?
G. S.: Ci era stato garantito dai responsabili dell'Alleanza del Nord che i
comandi militari americani sarebbero stati avvisati del nostro passaggio.
V. S.: Avviso senza effetti?
G. S.: Si'... ma non vorrei fare polemiche. Sarebbe stupido aspettarsi il
rispetto delle regole nella guerra. La guerra e', per definizione, l'assenza
di ogni regola.
V. S.: Sei l'unico occidentale ad aver visto gli effetti dei
bombardamenti...
G. S.: Non li ho visti direttamente, ma lo staff Emergency afghano, mentre
veniva a prenderci al fronte, ha visto in un villaggio bombardato, sulla
strada per Tagab, raccogliere pezzi di membra umane. Abbiamo avuto conferma
di almeno tre persone uccise da una bomba in una sola casa di quel
villaggio. Abbiamo girato con le auto intorno a molti crateri freschi di
bombe. Dall'aeroporto di Bagram, la strada e' una pista sabbiosa che si
ricongiunge a quella asfaltata che porta a Kabul. La' non c'e' piu' niente.
I pochi accampamenti di pastori e nomadi sono scomparsi. E' una zona
martellata dai bombardamenti ogni giorno.
V. S.: Raccontami l'ingresso a Kabul.
G. S.: La quantita' di vittime e' impressionante.
V. S.: Quindi e' una citta' ancora molto abitata? Alcuni sostengono che a
Kabul ci sarebbero solo i taleban.
G. S.: Sono coglionerie che mette in giro chi probabilmente pensa che Kabul
sia nelle Filippine. A Kabul in questo momento ci saranno 800 mila, un
milione di persone. Viene bombardata da un mese e nessuno pensa che anche
questo possa essere un atto di terrorismo.
V. S.: Ricordo Kabul a marzo, era gia' una citta' di macerie. Adesso?
G. S.: E' difficile per chi ci ha passato quasi cinque anni della propria
vita notare la differenza tra venti case in piu' o in meno. La gente pero'
e' allo stremo. C'e' l'oscuramento, la contraerea e' incessante, i bambini
non dormono piu'. Non vorrei augurare ai figli di mia figlia di vivere
esperienze del genere. Anche in questo momento bombardano.
V. S.: Oscurato anche l'ospedale?
G.S.: Si'.
V. S.: Non e' rischioso che non sia riconoscibile dall'alto?
G. S.: Non poco. Domani andremo a rinegoziare. Ma per stasera c'e' un ordine
preciso di oscuramento totale.
V. S.: Come sei riuscito a convincere i taleban a farti riaprire l'ospedale
che eri stato costretto a chiudere a maggio per una loro incursione armata?
G. S.: Il primo contatto con il ministro degli esteri taleban l'ho avuto il
12 settembre, quando era chiaro che ci sarebbe stato un attacco militare
all'Afghanistan. La proposta di Emergency e' stata: abbiamo avuto e abbiamo
divergenze, forse insanabili, su molte questioni, pero' qui si profila un
disastro umanitario e il nostro ospedale e' l'unico in grado di curare i
civili gratuitamente e bene. Riapriamolo, accantoniamo problemi e divergenze
per tre mesi. Quando il periodo di crisi sara' finito ricominceremo a
parlarne. Allora, probabilmente, saremo tutti diversi, quindi ne parleremo
in modo diverso. La settimana scorsa c'e' stato l'invito del mullah Omar, e
il viceministro degli esteri ha dato anche disposizioni al ministro della
difesa di inviare suoi rappresentanti al fronte per guidare il nostro
convoglio.
V. S.: Che garanzie di protezione vi hanno dato rispetto ai cosiddetti
"arabi", la legione straniera taleban?
G. S.: Nessuna. Questa e' una delle ragioni che rende la cosa molto
rischiosa. Non ci sono altri occidentali a Kabul, siamo molto ben
identificabili.
V. S.: Potete circolare nella citta'?
G. S.: Solo nel tragitto casa-ospedale.
V. S.: Ma la casa e' di fronte a un'abitazione degli "arabi"...
G. S.: Si', ma ora i dirimpettai sono al fronte. Non ne sentiamo la
mancanza.
V. S.: Al di la' del suo valore umanitario, la vostra iniziativa dimostra
anche che interloquire con il "nemico" e' possibile.
G. S.: Non faccio il politico. Credo ci siano due modi per affrontare una
situazione internazionale cosi' grave: uno e' la guerra, l'altro e' il
dialogo. Io credo nel dialogo. Il dialogo e' possibile, e' una cosa che si
costruisce soltanto se e' preceduta dal rispetto, dimostrando che per te il
fatto che chi hai di fronte sia vivo o morto non e' indifferente. L'opposto
della logica "dead or life". La ragione per cui noi stiamo qui non e' che ci
stanno simpatici i taleban, ne' i moujaehddin quando eravamo in Panshir.
Siamo qui perche' qui gli ospedali non hanno medicine ne' cibo da dare ai
bambini.
V. S.: Non voglio tirarti dentro polemiche, sono tornato da poco e ho
trovato un paese piu' imbarbarito. Ma oggi sono andato a una manifestazione,
tanta gente per il no alla guerra. Molti portavano lo straccio bianco della
campagna Emergency. Vuoi dire loro una parola?
G. S.: Voglio soltanto dire che mi sarebbe piaciuto esserci, e mi piacera'
essere, in futuro, a tutte le manifestazioni contro la guerra. Non abbiamo
davvero alternative. Il movimento per la pace non e' soltanto l'unico che
puo' rendere il mondo piu' bello da vivere, e' anche l'unica strategia
possibile per restare vivi.

PEPPE SINI: UN COLPO DI STATO

Proviamo a riassumere alcuni fatti caratterizzanti la situazione italiana
odierna.
- Le recenti elezioni politiche, dopo le catastrofiche gesta dei governi
della precedente legislatura, hanno portato al potere una coalizione di
personaggi in rapporti con poteri occulti, mafia e corruzione, di persone di
formazione neofascista, di razzisti e teppisti responsabili di infamie
indicibili.
- Questo governo gestisce il G8 a Genova: ed e' un massacro (certo, anche
per l'irresponsabilita' degli organizzatori della contestazione).
- Il governo in questi mesi approva e fa approvare dalla sua maggioranza
parlamentare una serie di leggi stupefacenti, a dir poco scellerate e
criminogene: si legalizzano i reati, si ostruisce l'attivita' della
magistratura, si favoreggia sfacciatamente il boss della coalizione; e si
progetta la sistematica demolizione di quel che resta dei servizi pubblici e
dei diritti sociali, si preparano provvedimenti in aperta violazione di
diritti umani fondamentali. Si arriva al punto di proclamare che occorre
convivere con la mafia.
Poi avviene l'orrore dell'11 settembre, il mondo intero trema. A quelle
stragi segue lo scatenamento insensato di una guerra illegale e criminale,
che fa strame del diritto internazionale e della civilta' giuridica, azzera
l'Onu, aggiunge stragi alle stragi, e sta provocando un'escalation verso una
guerra mondiale che puo' mettere fine alla civilta' umana.
Il governo italiano non solo rinuncia ad impegnarsi per la pace e il diritto
internazionale, ma decide di avallare la guerra, e addirittura di prendervi
parte.
E qui si e' passati all'alto tradimento della Costituzione della Repubblica
Italiana che all'articolo 11 questa guerra e la partecipazione italiana ad
essa dichiara illegale e inammissibile.
Qui si e' passati al colpo di stato, che non cessa di essere tale per il
mero fatto che un pezzo di opposizione parlamentare insipiente o
irresponsabile o corrotta, e un capo dello Stato fedifrago, sono stati
complici del golpe; o per il mero fatto che un crimine analogo fu commesso
gia' due anni fa dal gabinetto D'Alema.
Questi ci sembrano essere i dati di fatto salienti della situazione italiana
attuale. E quest'ultima costellazione di fatti: la violazione della
Costituzione, la guerra, le stragi in corso, il pericolo per l'umanita'
intera, ci sembra essere dirimente e ineludibile.
- C'e' o no materia perche' il potere giudiziario intervenga contro i
golpisti?
- C'e' o no materia perche' il popolo italiano si levi in difesa della
legalita', della Costituzione, dell'ordinamento giuridico, dello stato di
diritto, delle istituzioni, della democrazia, della civile convivenza?
- C'e' o no materia per chiamare alla resistenza nonvioolenta contro la
guerra e in difesa delle leggi, e della fondamentale delle leggi italiane su
cui tutto il nostro ordinamento si regge, la Costituzione della Repubblica
Italiana?
- C'e' o no materia per chiedere l'impegno di tutte le persone di volonta'
buona per la salvezza delle vite umane innocenti in pericolo, e sono milioni
di vite umane; e per la salvezza dell'intera umanita' minacciata da una
guerra che puo' provocare una catastrofe planetaria?
Lo chiediamo a chi ci legge, ma per quanto ci riguarda lo sosteniamo ad alta
voce.
 
 

APPELLO PER UNO SCIOPERO GENERALE CONTRO LA GUERRA

[Dal Cobas Inpdap (migliori@tiscalinet.it)]

L'Italia ripudia la guerra.
Sciopero generale.
L'Italia e' in guerra; dobbiamo ragionare su questa decisione
incostituzionale presa a larga maggioranza dal Parlamento, violando le
stesse leggi della democrazia.
Dobbiamo capire che cosa si sta decidendo, dobbiamo farlo con onesta' morale
ed intellettuale aprendoci al confronto delle idee, ma dobbiamo produrre
iniziative per pretendere il ripristino della legalita' per continuare a
sperare in un nuovo mondo possibile.
La risposta del mondo del lavoro e del non lavoro e' stata finora
inadeguata.
Il sindacalismo di base e le sinistre sindacali interne al sindacato
confederale non riescono ad articolare iniziative unitarie di fronte al
nuovo scenario della competizione globale che i signori della guerra e della
finanza spingono a pericolosi arretramenti generali della condizione
sociale, della tenuta della democrazia ed degli equilibri ambientali.
E' necessario rispondere con un'iniziativa unitaria costruendo una giornata
di lotta con sciopero generale in grado di coinvolgere tutti i cittadini e i
lavoratori che sono contrari alla guerra, creando coscienza oltre il nostro
cortile di casa, facendoci aiutare dalla memoria per creare una nuova unita'
tra realta' diverse che non sono disponibili a subire la guerra.
 

FRANCO BORGHI: LETTERA A UN DIRETTORE DI GIORNALE

[Franco Borghi e' impegnato per la pace e la difesa della Costituzione;
abbiamo tolto i riferimenti ad personam poiche' ci pare che la sua lettera
possa purtroppo valere anche per altri quotidiani italiani]

Egregio direttore,
sono tanti anni che la seguo e che leggo con interesse  ed arricchimento
personale i suoi articoli, sempre lucidi, motivati, stimolanti. Trovo in lei
un punto di riferimento politico-culturale importante anche se non
esclusivo.
E' per questo che sono rimasto sbalordito e profondamente addolorato e
tristemente deluso del suo articolo di fondo di oggi.
Non avrei mai immaginato che lei potesse dire  delle assurdita' cosi' grosse
a proposito della guerra al terrorismo e dei pacifisti.
Se c'e' una bugia enorme che circola ora e' proprio la favola, triste e
dolorosa, della guerra al terrorismo, perche' ormai lo sanno anche gli USA
che non arriveranno al risultato di combattere ed annullare il terrorismo, i
terroristi, che si annidano ovunque.La grande bugia e' questa guerra, la
grande ipocrisia e' pensare che questa guerra serva alla sconfitta dei
terroristi.
Che senso ha dire che e' importante inviare 2.700 soldati italiani per
conquistarsi "un posto a tavola" della politica internazionale? Questa si'
che e' ipocrisia. Quindi i nostri soldati vanno per  conquistare un posto a
tavola!
Che senso ha approvare l'intervento in Afghanistan, con il nostro esercito,
e poi raccomandare - somma ipocrisia - che si faccia in modo da limitare le
sofferenze degli afghani innocenti ed ignari, donne, bimbi, anziani,
invalidi, miserevoli creature affamate e malate. Grande immensa ipocrisia di
cui ci si dovrebbe solo vergognare.
Che senso ha elogiare il Presidente della Repubblica  per la sua attivita'
mediatrice onde "tutelare la corretta applicazione delle regole
costituzionali" quando  la Costituzione dice proprio che non dobbiamo fare
guerre? Altra grande ipocrisia.
Ma intanto la gente muore.
Infine, e' ora di smetterla di far passare i pacifisti come gente che non
vuole combattere i terroristi afghani. Tutti i pacifisti sono contro i
terroristi. Tutti i pacifisti hanno provato dolore per i morti delle due
torri di New York. E lei lo sa benissimo.
Tutti coloro che sono contro  la guerra, contro questa guerra, sono
d'accordo nella necessita' di combattere i terroristi, scovarli, ridurli
all'impotenza e condannarli.
Perche' i giornali e le televisioni su questo punto mentono? E anche il suo
giornale mente e inneggia alla guerra con titoli da circo equestre...
Mia nonna diceva: il diavolo insegna a fare le pentole, ma non i coperchi.
Verra' giorno che queste cose verranno a galla.
 

GIULIO VITTORANGELI: L'ORRORE E LA MEMORIA

[Giulio Vittorangeli e' impegnato da sempre nella solidarieta'
internazionale]

Camera e Senato hanno votato, a larga maggioranza, l'invio dei soldati
italiani in Afghanistan.
Lasciando da parte i deputati del centro-destra, non minimamente scalfiti
dai dubbi sulla guerra (per loro la differenza tra "terroristi" e "danni
collaterali", varia a seconda se sei tu che tiri le bombe, o le prendi in
testa), forti dell'arroganza di chi possiede sempre la "chiave" in grado di
spiegare tutto; ci chiediamo (forse ingenuamente) quando si risvegliera' la
coscienza di quei deputati del centro-sinistra  che hanno votato per la
guerra (magari solo per disciplina di partito): dopo aver bombardato tre
ospedali afgani? Oppure quattro? O quando il bilancio di vittime afgane
sara' pari a quello delle Torri Gemelle? Quanti civili deve uccidere un
politico cristiano guerrafondaio prima di avere un ripensamento? Eppure la
sofferenza e la morte di innocenti, per mano di terroristi o sotto le bombe,
non hanno confini, bandiere, lingue, culture: si manifesta sempre nella sua
oscena rappresentazione di distruzione, di annullamento.
Dopo questo voto quasi unanime di camera e senato (senza neanche piu' una
minima traccia di quella tensione che pure in precedente occasioni aveva
testimoniato di una volonta' di rifiuto della guerra da parte di una
consistente minoranza parlamentare), e' stato, intorno a noi, un rifiorire
di patriottismo e nazionalismo. Dimenticando che patriottismo e nazionalismo
quasi sempre hanno covato i germi di ogni estremismo, che tanti drammi hanno
causato nella storia dell'umanita'. Pensiamo al loro ripudio nelle belle
pagine di "Signora Auschwitz. Il dono della parola" di Edith Bruck (Marsilio
Editore, 1999). Assistiamo ad una sconvolgente perdita della memoria, resa
ancora piu' drammatica dalla rilegittimazione della guerra come risoluzione
delle controversie internazionali.
Ci dicono che per sconfiggere il terrorismo (quale? Quello "dall'alto", per
cosi' dire, cioe' dello Stato o comunque delle forze egemoni; o quello "dal
basso", quello agito dai disperati; oppure il terrorismo di Bin Laden?)
occorre la guerra.
Allora, ci chiediamo e domandiamo, chi ha scritto le pagine della nostra
Costituzione, della Carta delle Nazioni Unite, e di tutte le altre
Costituzioni che bandivano la guerra, erano solo delle "anime belle"? od era
stata piuttosto la consapevolezza maturata sulle atrocita' della Seconda
Guerra Mondiale (da Auschwitz ad Hiroshima: il tempo in cui "l'uomo e' lupo
all'uomo") a spingere al rifiuto della guerra. E' vero, sarebbe seguita la
"Guerra fredda", considerata il conflitto per eccellenza, anzi l'unico. Gli
altri non contavano. L'unica cosa che importava era sapere quante bombe
(possibilmente atomiche) avevano i due avversari. Ma con il crollo
dell'Unione Sovietica (da molti interpretato come il trionfo della
democrazia, del libero mercato e dei valori americani), il nuovo contesto
mondiale unipolare, e poi con la Guerra del Golfo del 1991, si e'
sostanzialmente rimossa la consapevolezza che la guerra non solo distrugge
persone e risorse, ma distrugge futuro; anzi, annulla la possibilita' stessa
di un futuro.
Ecco perche' stiamo vivendo una stagione buia nella quale cercano, per
l'ennesima volta, di prendere corpo quei fantasmi che si sono sempre
materializzati nei periodi di crisi e che hanno segnato di lacrime e sangue
la storia dell'umanita'. La speranza e' appesa a un filo, e "nel manicomio
globale, tra un signore che si crede Maometto e un altro che si crede
Buffalo Bill, tra il terrorismo degli attentati e il terrorismo della
guerra, la violenza lo sta strappando" (Eduardo Galeano).
Se non torna in scena la politica a mediare i conflitti, non sara' certo la
guerra a risolvere le controversie internazionali. Una guerra che non puo'
che peggiorare la vita di milioni di persone, tanto nei paesi piu' ricchi
quanto nei paesi piu' poveri del mondo, e consentire ai pochi padroni della
terra di ridistribuirsi aree geografiche, risorse e poteri. Questa guerra
alla fine finira', magari sullo sfondo non ci saranno i funghi atomici, ma
le macerie sono assicurate.
Anche Berlusconi, dal suo punto di vista, pone il tema della memoria, con la
proposta di trasformare l'11 settembre di ogni anno in una giornata dedicata
"alla memoria delle vittime del fanatismo". Ma quella data e' gia' nella
nostra memoria, dal 1973.
Cile: colpo di stato del generale Pinochet, con la complicita' degli Stati
Uniti (tutti i conflitti sociali e i tentativi di emancipazione in America
Latina, da Cuba al Nicaragua sandinista, sono stati interpretati - in
maniera piu' o meno strumentale - dagli Usa come congiure dell'allora Unione
Sovietica), contro il socialista Salvador Allende e l'esperienza di Unidad
Popular che cercava di realizzare giustizia sociale  e democrazia.
Bombardamento a tappeto del palazzo presidenziale e instaurazione per
quindici anni di un regime di terrore (su questo ha scritto un
bell'editoriale Ignacio Ramonet su "le Monde diplomatique" dell'ottobre
2001).
Ecco perche' la memoria non e' neutra. La nostra ci permette di conservare
un giudizio morale secondo cui i bruciati dal napalm in Vietnam o i morti
per affamamento in Iraq non sono meno importanti o meno innocenti dei
massacrati nelle Torri di New York. Per noi non ci sono ne' potranno mai
esserci vittime di prima e seconda categoria; che la morte, ogni morte, pesa
come un macigno sulla coscienza di tutta l'umanita', e che davanti a cio'
ognuno di noi e' piu' povero perche' privato della prossimita' dell'altro,
dovunque esso viva, lavori, riposi.
 

PRESENTAZIONE DEL GERMINAL N. 87 (NOVEMBRE-DICEMBRE 2001)

E’ uscito il n. 87 di “Germinal. Giornale anarchico e libertario di Trieste, Friuli, Veneto e…”

L’incubo della guerra è al centro di una serie di articoli di apertura di questo numero.
Il convegno delle Donne in Nero svolto a Novisad (Jugoslavia) ha ribadito le difficoltà della ricostruzione di rapporti umani accettabili dopo l’infuriare della guerra (e della finta pace) nei Balcani. Continua, tra mille ostacoli, la collaborazione tra donne palestinesi e israeliane per fermare i massacri in corso. Anche in Afghanistan le donne “non sottomesse” della organizzazione RAWA conducono una lotta assai rischiosa per limitare i danni del fondamentalismo, mentre condannano i bombardamenti che non servono assolutamente ad alcun processo di emancipazione ma solo a fare altre vittime tra i civili.
I due leader bellicosi, Bush e Bin Laden, appaiono incarnare i peggiori interessi di potenza e di ossessione autoritaria, secondo l’articolo del regista iraniano Makhmalbaf. E il conflitto in corso, dalla durata imprevedibile, presenta uno scenario da “guerra per bande” tra gruppi di pressione economici in lotta in uno scontro planetario e contro le popolazioni. Questo è emerso pure dal recente convegno di Pordenone sulla NATO, braccio armato del sistema occidentale, solo formalmente liberale. Un sistema che è anche responsabile della costante minaccia di scomparsa di popoli nativi, come gli indios della Colombia.
Segue un altro settore di materiali densi, quello sulle giornate del luglio a Genova, con note di discussione, anche polemiche, per interpretare le mobilitazioni e le modalità della dura repressione poliziesca. Una sorta di “educazione civica” che ha aperto gli occhi ai più giovani e ha confermato la natura violenta dello Stato.
Com’è noto, il dominio capitalista non scherza e, dalle nostre parti, si è dimostrato pronto ad uccidere, per aumentare il profitto e il controllo, centinaia di lavoratori tra Monfalcone e Trieste costringendoli per anni a lavorare in ambienti saturi di amianto. Altri appuntamenti libertari, promossi in questi mesi a Trieste e altrove, hanno evidenziato il ruolo centrale dell’educazione alternativa che annovera, ormai da molti anni, la concreta esperienza di Summerhill, nella realtà inglese per altri versi soffocante. Come insopportabile appare il clima che il tradizionalismo cattolico sta imponendo a Verona e in altre zone della regione. Comunque qualcosa si muove… Nella profonda provincia friulana, a Gemona, è comparso un giornaletto antiautoritario, dal grazioso nome di “Papillon”, a turbare i sonni di conformisti e indifferenti. Novità positive anche sul terreno artistico con il nutrito e stimolante convegno di Bologna e le attività della rivista “ApArte” in cui ogni numero riserva sorprese armoniose e raffinate.
La lunga storia di Marco Camenish, nostro collaboratore detenuto da molti anni in seguito ad azioni dirette di tipo ecologista, conclude questo numero di “Germinal”, di 32 pagine di rabbia e libertà, di protesta e di proposte.

Un abbonamento annuo: L. 20.000 da versare sul C/C/P  16525347, intestato al Gruppo. Per altre informazioni rivolgersi al Gruppo Germinal, via Mazzini 11, 34121 Trieste (tel. 040-368096, martedì e venerdì dalle 19 alle 21). E mail: gruppoanarchicogerminal@hotmail.com 
 

BUSH E BIN LADEN, CULO E CAMICIA...

Da "Umanità Nova" n. 39 dell'11 novembre 2001 
 

Come il culo e la camicia, la pattaja per l'esattezza, ossia quel pezzo di stoffa del lungo camicione dei nostri contadini che, passando dalla schiena sotto le "vergogne", andava a ricongiungersi, indissolubilmente e nascostamente, alla parte anteriore dell'indispensabile indumento di tela grezza. Così, allo stesso modo, altrettanto indissolubili sembrano i rapporti, ben più vergognosi delle pudende degli agricoltori di un tempo, che intercorrono fra l'establishment a stelle e strisce e il cosiddetto "pericolo numero uno" del mondo libero.

Stando, infatti, alle solitamente ben informate agenzie giornalistiche francesi, "l'inafferrabile" bin Laden si sarebbe fatto curare, un mese esatto prima dell'attentato alle torri di New York, nell'ospedale americano del Dubai. Da uno stimato medico chirurgo, anch'esso a stelle e strisce, e non senza essersi incontrato, fra una dialisi e l'altra, con un altissimo esponente della Cia. Chissà cosa si saranno detti?

Culo e camicia, insomma! I vecchi rapporti instauratisi quando il miliardario saudita trovava negli americani la sponda per la sua guerra santa contro la Russia, devono essere, evidentemente, ancora ben saldi. E produttivi.

Nonostante le inevitabili smentite, questa storia, come le altre che poco per volta emergono con sconcertante regolarità, fatte di inestricabili intrecci fra le lobbies dei poteri americani e i signori del petrolio mediorientali, non solo è plausibile, ma pienamente, fortemente credibile. La somma di continue coincidenze diventa una regola, e la regola, a quanto pare, è quella che, nella loro diversità, gli interessi del governo americano e quelli del fondamentalismo islamico tendono allo stesso fine, una bella guerra senza quartiere fra opposte schiere di fanatici, quelli in divisa mimetica con la faccia macchiata di nerofumo e i capelli alla marine e quelli in turbante col corano al posto del cuore e del cervello. Una bella guerra che permetta, agli uni e agli altri, il raggiungimento dei loro obiettivi altrimenti difficilmente perseguibili: da una parte la penetrazione degli eserciti occidentali in un'area geografica importantissima e fino ad oggi assolutamente off limits, dall'altra lo spostamento del baricentro politico e sociale all'interno dell'enorme comunità musulmana con lo scopo evidente di emarginare per sempre le borghesie e i centri di potere troppo accondiscendenti col materialismo consumistico delle nostre società.

E come sempre, come in tutte le guerre e ancor più come nelle ultime di cui siamo stati testimoni, chi fa le spese di questo scontro fra interessi egemoni e criminali non sono i fanatici di cui parlavo in precedenza, bensì i civili: donne, vecchi, bambini, persone innocenti con la sola colpa di trovarsi nel paese sbagliato al momento sbagliato, e che sempre più stanno diventando quella carne da cannone che una volta era costretta a indossare un'uniforme e a partire per il fronte. Con, in più, il vantaggio che non c'è neppure il bisogno di comprare loro una divisa per mandarli a farsi ammazzare.

È ormai confermato che il territorio afgano, soprattutto intorno ai maggiori centri abitati, è disseminato delle micidiali cluster bomb, le bombe a grappolo inesplose all'impatto a terra ma pronte ad esplodere al successivo minimo urto. Graziosi oggettini gialli a forma di lattina o di scatoletta, che sembrano fatti apposta per essere raccolti da terra da chi li veda per la prima volta. Soprattutto, purtroppo, dai bambini. Con ammirevole spirito umanitario il governo americano ha deciso di cambiare di colore, dallo stesso giallo al blu, alle generose razioni alimentari paracadutate con la stessa dovizia sulle povere teste degli afgani. Dio non volesse, infatti, che l'ignaro bambinetto nomade scambiasse l'una con l'altra e invece di gustare le ali di pollo alla texana provasse in ben altro modo la generosità dei suoi "salvatori". Ma come sono buoni questi amerikani!

Massimo Ortalli

 
 
 
 

 

13 novembre 2001

UNO STRACCIO
DI PACE

Appello di Emergency

Siamo pericolosamente vicini alla guerra. Questo vuol dire che degli italiani potrebbero anche uccidere dei civili, la maggior parte dei quali donne e bambini e, a loro volta, essere uccisi.
Siamo sicuri che molti di noi non vogliono che ciò accada.
Noi vogliamo poter dire che siamo contrari, e vogliamo che chiunque ci veda sappia che siamo contrari alla guerra.
Per farlo useremo un pezzo di stoffa bianco: appeso alla borsetta o alla ventiquattrore, attaccato alla porta di casa o al balcone, legato al guinzaglio del cane, all'antenna della macchina, al passeggino del bambino, alla cartella di scuola...

Uno straccio di pace.

E se saremo in tanti ad averlo, non potranno dire che l'Italia intera ha scelto la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. 
Sappiamo che molti sono favorevoli a questa entrata in guerra. 
Vogliamo che anche quelli che sono contrari abbiano voce.Emergency chiede l'adesione di singoli cittadini, ma anche comuni, parrocchie, associazioni, scuole e di quanti condividono questa posizione.
Diffondere questo messaggio è un modo per iniziare.
 
 

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