ii libri

Kosovo: intellettuali e guerra, il vuoto delle parole
Elucubrazioni retoriche, interpretazioni sofisticate, esibizionismo dotto e italica saccenza...
"In modo abbastanza paradossale questa guerra ci ha offerto l’occasione davvero unica
di vedere una classe intellettuale impegnata in un sistematico lavoro di mistificazione,
di verificare un’intera “cultura” at work. Uno spettacolo desolante ma istruttivo".
 

di VITTORIO GIACOPINI

Una “questione privata”

E quelli, la cui testa è vuota
come una scuola in agosto
W. H. Auden
   Tra il 24 marzo e l’11 giugno di quest’anno, per la prima volta  in vita mia mi sono trovato a scrivere un diario. Sono la data d’inizio della guerra in Serbia e il giorno della fine ufficiale dei bombardamenti, decretato alle 15,30 del pomeriggio (ora italiana) dal segretario generale della Nato Solana. 

   Per tutto questo periodo la guerra in Kosovo mi ha accompagnato come un’ossessione. Per due mesi e mezzo non sono praticamente riuscito a pensare ad altro. Sentivo di non poter pensare o parlare d’altro. Era imbarazzante ma non potevo negarlo, non ce la facevo: la guerra arrivava fino a questo punto, determinava (me ne accorgevo poco a poco) una paralisi forzata della “vita della mente” e un progressivo accumularsi di sensazioni cattive, percezioni sterili, tipiche situazioni negative: rabbia, disgusto, indignazione. Ero esasperato, temo di essere stato esasperante. Sentivo che il mio stato d’animo era quasi interamente dominato da qualcosa che veniva da fuori, che non sapevo e non potevo controllare. La scelta obbligata, l’impulso spontaneo di tenere un diario, di registrare nel modo più asettico possibile il succedersi incerto degli eventi, è stato forse un tentativo minimo di reazione, probabilmente un riflesso meccanico ma impotente di far fronte a un’irruzione improvvisa della “Storia mondiale” nella mia vita; nella nostra vita. Una guerra: qui; fatta da noi. Non c’ero, non c’eravamo abituati. In qualche modo, non c’era alternativa: l’unica possibilità stava nel limitarsi a prendere atto di quanto stava succedendo di fuori; laggiù. 

Un diario di guerra per non crollare...

     Probabilmente, quel “diario di guerra” era soltanto questo: un tentativo di convivere in modo per quanto possibile consapevole con l’orrore e con il disgusto, il precipitato neutro di quanto si andava depositando nella mia immaginazione, il reperto oggettivo di una paralisi mentale imbarazzante. Le giornate passavano monotone e ossessive. Agivo in uno stato di semisonnanbulismo. Seguivo un rito, cioè, giravo a vuoto. Facevo quasi sempre  le stesse cose. Al risveglio, la mattina, dovevo ascoltare i notiziari; annotavo le novità e i fatti della notte appena trascorsa; poi la lettura dei giornali, il lavoro, le altre notizie passate dalla radio, dalla televisione, dalle agenzie. La sera, tornato a casa, ricapitolavo un’altra volta gli eventi importanti della giornata: il numero dei bombardamenti, gli obbiettivi colpiti, le trattative accennate o interrotte, le reazioni sul fronte interno e, sempre più spesso, col passare del tempo, la lista dei “danni collaterali”, l’elenco intollerabile degli errori: omicidi stupidi e gratuiti che il portavoce della Nato James Shea si ostinava a chiamare “inconvenienti”. Dovevo farlo. Era una specie di “metodo” della disperazione. Una contromisura per evitare l’assuefazione, per aggirare il tedio e l’indifferenza. Avvertivo di trovarmi in un vicolo cieco ma intuivo, oscuramente, la necessità di mettere da parte qualcosa di concreto: del “materiale” utile per poter giudicare, per costruire e mantenere saldo un “punto di vista” sulle cose; senza l’ausilio di nessuna teoria, senza nessuna sofisticata forma di interpretazione. 

Quelle bombe inutili e controproducenti

   Ma giudicare che cosa? E giudicare chi? Non la guerra, ovviamente, le sue ragioni equivoche, le sue modalità inaccettabili. Da subito, infatti, da quella prima sera di bombardamenti su Belgrado, questa guerra mi era sembrata inutile, sostanzialmente sbagliata, controproducente. La cosa in sé, mettiamola così, era abbastanza evidente dall’inizio. Ma già dopo pochi giorni di raid aerei, con l’intensificarsi delle distruzioni, con la moltiplicazione –assolutamente speculare – della tragedia della pulizia etnica, la strategia “umanitaria” della Nato si rivelava fallimentare in modo incontestabile. Era la conferma di un’intuizione abbastanza ovvia. Non sarebbero bastati i pochi giorni di guerra promessi dalla Albright; Milosevic non sarebbe stato piegato in una settimana. Era un dato di fatto: la guerra stava producendo danni peggiori, guasti più gravi. Non era come l’ultima volta a Sarajevo; non poteva esserlo. Però il problema non si esauriva nella negazione decisa di un evento. Schierarsi contro questa guerra, dire di “no”:  non era sufficiente, non poteva bastare. Lo vedo adesso, lo sapevo anche allora: non esistono giudizi definitivi, validi sempre, una volta per tutte. Meglio comunque mantenere sempre aperto uno spiraglio per il dubbio, uno spazio critico per la perplessità. Ogni mattina, lo stesso “rito” in qualche modo riapriva il campo del giudizio: potevo sbagliare, potevo essere stato precipitoso, dovevo essere disposto a rivedere il mio punto di vista, correggerlo, adeguarlo ai fatti concreti, alle circostanze. Non ce n’è stato bisogno, ma solo per caso. L’ostinazione omicida di Milosevic, l’ottusità arrogante della Nato, alla lunga hanno finito per confermare in modo definitivo quell’intuizione ancora imprecisa e vaga formatasi spontaneamente nei primissimi giorni di conflitto. È stata una guerra inutile e controproducente. Uno sbaglio voluto, una porcheria. 

"Non pensavo ad altro, non parlavo d'altro..."

    E intanto, quell’ossessione continuava, si approfondiva ogni giorno di più. Non pensavo ad altro, non parlavo d’altro. Mi rendevo conto, lentamente, che il giudizio sulla guerra stava diventando soprattutto una linea di demarcazione molto personale, un criterio per verificare e mettere alla prova amicizie, rapporti, scambi, relazioni. Allora: giudicare se stessi, giudicare gli altri. Era la prima cosa da fare, la più spontanea. È anche logico: la guerra la decidono i politici; la guerra la fanno i militari. Non è un buon motivo per far finta di niente. Continua a coinvolgerti, continua a riguardarti. A noi che siamo tagliati fuori dal vivo dell’azione, a noi che in fondo non “contiamo” niente, resta immagino il compito e il dovere di farsi un’idea, di pensare nel modo più onesto possibile, di schierarsi dalla parte “giusta” (ammesso poi esista davvero qualcosa del genere: una “parte giusta”). Troppi argomenti a favore o contro la guerra erano ugualmente miopi, approssimativi, inaccettabili. Ma dietro qualsiasi ragionamento esiste sempre un certo tipo di persona, c’è una presenza viva; c’è qualcuno. Non per manicheismo, mi sono ritrovato a troncare amicizie e conoscenze, a rivedere il senso e la ragione di rapporti più o meno importanti. La guerra diventava così  anche una “questione privata”, un discrimine forte, decisivo. Nei momenti di crisi è essenziale incontrare le persone giuste. Non capita sempre. In un certo senso bisogna davvero mettere in dubbio tutto – i legami acquisiti, le abitudini, la rete delle amicizie quotidiane -; ricominciare daccapo la “scelta dei compagni”. 

  (...)

La guerra dell'immagine

   Leggevo i giornali, li guardavo. Gli inviati al fronte, quando potevano, facevano il loro lavoro con serietà, decenza, con coraggio spesso, sempre con un certo impegno. Era utile leggere i giornali; era utile anche la televisione. Per quanto in qualche misura sempre vittima dei meccanismi della propaganda, bene o male l’informazione si rivelava all’altezza della prova. Del resto non avevo gli strumenti per giudicare, non potevo farlo. Loro stavano là: vedevano quello che erano in grado (o gli era consentito) di vedere; scrivevano quello che sapevano. Spesso i loro articoli smentivano le versioni ufficiali, le dichiarazioni del regime serbo, le balle della Nato: mi bastava. Ma questa guerra – si vedeva in modo sempre più chiaro col passare del tempo, dopo i primi momenti di stasi e di sorpresa, passato lo sgomento iniziale – veniva combattuta anche con armi molto diverse, più infide e sottili, meno nette. La “persuasione e la retorica”, le questioni di immagine, una forma di propaganda o, per essere più precisi,  proprio di retorica: queste forme di controllo e di guida latente dell’opinione pubblica, questi modelli di costruzione occulta del consenso (e del dissenso), prendevano piede in forma sempre più regolare e più massiccia. Leggevi i giornali, guardavi la televisione, ascoltavi la radio. A un certo punto è diventato ovvio. Il lavoro “sporco” dovevano farlo politici, militari, giornalisti. Il sofisticato compito di indirizzo e di interpretazione, la rete di ragno mentale che avrebbe dovuto spiegare il conflitto era invece stato affidato (non so fino a che punto in modo consapevole e coerente) a una categoria diversa e specifica: agli intellettuali, agli opinionisti. 

Gli intellettuali per dare un senso ad azioni stupide

    Poeti, saggisti, narratori, editorialisti in genere: quasi tutti hanno risposto subito all’appello. Da un certo punto in poi, non è passato giorno senza che una nuova “firma” non si sentisse in dovere di intervenire, di dire la sua. “Dire la sua”: naturalmente è un modo di dire. A favore o contro questa guerra, “dire la sua” ha quasi sempre significato un genere di spiegazione funzionale a un partito preso, a uno stile retorico, alle necessità più oscure dei politici, al gergo senza parole della forza, ai fini inconfessati del potere. Questa guerra, forse, è stata diversa dalle altre. Combattuta e legittimata su basi “umanitarie” – la tutela dei diritti umani, la difesa degli oppressi, la stessa lotta per la libertà – questa guerra doveva trovare un vocabolario per esprimersi, una formula per “giustificarsi”, una retorica. Gli intellettuali sono serviti, dovevano servire, a questo. A dare un senso ad azioni stupide e insensate, a vedere un fine, uno scopo e una meta,  in un meccanismo quasi automatico, palesemente privo di obbiettivi definiti, costantemente incerto, poco chiaro. Oltre alla politica-politica e alle armi è diventata essenziale questa “politica delle relazioni pubbliche”, una strategia verbale, la disperata ricerca di una “filosofia politica” a presa rapida, da consumo immediato, metabolizzabile subito, senza incertezze, esitazioni, dubbi, ripensamenti. Per chi, come me, come (quasi) tutti noi, restava distante e separato dal centro dei fatti, lontano dal vortice vivo degli eventi, questo conflitto di “secondo grado” è diventato molto presto il nodo vero di tutta la faccenda e il problema più serio. Chi non è in grado di agire resta sempre coinvolto sul piano del giudizio ma il giudizio era sistematicamente inquinato, ostruito, preconfezionato da questo autentico fuoco di sbarramento di parole vuote, analisi faziose, amenità. Capire, soltanto capire. Non è facile, rischiava di diventare quasi impossibile. Uno tenta di orientarsi,  prova a farsi un’idea, cerca di entrare nel presente senza limitarsi a subirlo, a sopportarlo. Ma la porte della percezione, le strade contorte della comprensione,  a volte sono ostruite proprio dalle chiavi che ci dovrebbero aiutare per capire meglio: le interpretazioni, i giudizi degli altri, le teorie. 

Una mistificazione sistematica

   In modo abbastanza paradossale questa guerra ci ha offerto l’occasione davvero unica di vedere una classe intellettuale impegnata in un sistematico lavoro di mistificazione, di verificare un’intera “cultura” at work. Uno spettacolo desolante ma istruttivo. Bastava guardare le colonne degli editoriali, sfogliare le pagine dei commenti, le rubriche culturali di tutti i giornali. Senza essere al “soldo” di nessuno, gli intellettuali si sono distinti in una gara di esibizionismo, di vanteria, di stolida saccenza, in un grande concorso di verbosità futile e dannosa, in un inutile sfoggio di cultura colta. Questi bonzi, questi sepolcri imbiancati, questi filistei (non tutti, naturalmente, quasi tutti ). Ci siamo sempre chiesti a cosa servissero gli intellettuali, che significato avesse ancora una parola logora come impegno. La lezione (e la risposta) di questa drole de guerre è stata tutto sommato esemplare. L’atmosfera incantata da “Alice nel paese delle meraviglie”, il sussiego, la sconcertante sordità ai fatti e alle circostanze,  l’indifferenza alle conseguenze concrete di scelte e opzioni molto pesanti di quasi tutte le analisi dei commentatori si sono trovate a riproporre, su un piano diverso, la stessa strategia di blanda defattualizzazione e sistematica mistificazione che hanno caratterizzato le mosse equivoche dei nostri governanti, le tattiche miopi dei militari, l’irrilevante alterigia di una politica paralizzata nei meccanismi perversi di un gioco che, avviato per sbaglio, si era cristallizzato immediatamente in un vicolo cieco. Leggevi e ti imbattevi sempre nello stesso “stile” uniforme, inevitabile: un clima di inganno e di autoinganno, uno spettacolo penoso di falsa intelligenza, di arroganza mentale, di presunzione vuota. Una guerra “di carta” altrettanto cattiva e velenosa della guerra vera: anche questa stava diventando una questione privata, un conto da regolare e una specie di sfida.

L'intelligenza offesa

   È cambiato qualcosa. La rabbia e l’insofferenza hanno cominciato a prendere il posto dello sgomento, a scandire i tempi di un’ossessione finora passiva, senza sbocco. A questa guerra di carta – intuivo – almeno si poteva reagire. Su questo piano era ancora possibile fare qualcosa, dire qualcosa. Doppiamente coinvolto – da cittadino italiano, da “intellettuale” – mi sono sentito colpito e offeso anche nella mia intelligenza, nell’intimo delle reazioni istintive, delle opzioni personali, sul piano pubblico-privato della capacità di pensare le cose che stavano succedendo, di giudicare il nostro “mondo comune”, la sua logica. Da cittadino… da intellettuale. Non c’è poi tanto da spiegare. Per quanto mi riguarda, scrivere significa solo seguire un itinerario interiore, cercare in qualche modo la propria “voce” attraverso la voce degli altri, in un dialogo muto con modelli, figure, situazioni di vita e di pensiero capaci di allargare la tua esperienza, il tuo sguardo sul mondo, sulle cose. Può accadere che questo lavoro di scavo, questa esplorazione vagabonda, ti portino lontano dal presente, tra le ombre del passato, nei libri degli altri e in altre vite. Spesso sei costretto a guardare “il futuro alle spalle”. Voltarsi indietro, parlare coi morti. Strana faccenda: devi trovarti guardando fuori di te, dietro di te. Sempre le stesse domande, la medesima ansia ricorrente: “dove andrei, se potessi andare, cosa sarei, se potessi essere, cosa direi, se avessi una voce, chi parla così dicendosi me?” (S. Beckett).

Fare i conti con il presente 

   Ma l’attualità ha le sue ragioni – urgenti – e a volte è necessario lasciarsi distogliere dagli eventi, rispondere subito, mettere da parte se stessi, trascurare le proprie idiosincrasie, i propri gusti. This is no time for inner searching…canta Lou Reed. Non è tempo; non c’è tempo. A volte devi restare attaccato alle cose così come sono, giocare “di prima”, installarti in uno scenario che non hai scelto tu, in un percorso deciso dal caso o dalla storia. Più che una forma di onestà è una questione di puro e semplice buon senso, di decenza, di curiosità. Non puoi fermare la guerra, non la puoi evitare. Ma puoi (e devi) discutere la sua “ideologia”, protestare, criticare, tirartene fuori. Altrimenti non vali niente, non sei niente. Resti un parolaio, un chiacchierone fatuo, inconcludente. Dialogare con i “vivi” (con certi vivi) può essere molto più frustrante che parlare coi morti. Non importa. Il paesaggio è questo, il panorama mentale di un’epoca non te lo scegli: ti ci ritrovi dentro, ci fai i conti. Rispondere, dunque, criticare. Con una cautela: forse la cosa peggiore da fare era provare a rispondere colpo su colpo, accettare quel piano mentale, quei discorsi. Non ne valeva la pena, rischiava di essere una trappola. Più semplicemente mi sono accorto che era sufficiente lasciarli parlare, ascoltare e far ascoltare la loro “voce”. La tattica dell’impegno riposava del resto su un’ipocrisia calcolata e su un trucco banale. I giornali li leggi di corsa, li butti via ancora più velocemente. Scripta manent, ma fino a un certo punto. Tronfi nella loro sicumera di coscienze critiche, di menti illuminate, gli intellettuali si sono trincerati dentro questa dinamica del consumo cartaceo e dell’obsolescenza come dietro allo scudo di Achille. Potevano strologare quanto e come volevano: erano assicurati. Sapevano comunque che di tante nobili, sciocche, ampollose, frasi sentenziose non sarebbe praticamente restata traccia. L’oblio intrinseco legato alla stessa fruizione tecnica dei quotidiani (usa e getta) li garantiva a priori dalla vergogna retrospettiva, dal ridicolo. 

Una "rappresaglia" contro le idiozie

   La mia “rappresaglia” è stata semplice. Ho conservato le “tracce”: montagne di carte, ritagli, foglietti smozzicati, pagine di giornale, fotocopie. È un’operazione elementare. Non ho lasciato scivolare via quel quotidiano rosario di idiozie. Mi sono accorto in fondo che sarebbe bastato questo: un paziente lavoro di “montaggio” e la critica implicita di un linguaggio, di un modo di essere, di uno stile. Leggere, assemblare, mettere in evidenza i punti chiave, escogitare una sorta di ordine. Fare la prova non costava niente. Tutte quelle vocine garrule, tutte quelle prese di posizioni petulanti, tendevano infatti a confluire in zone inerti ma identificabili,  a raggrupparsi in categorie riconoscibili. Ricomposte in un insieme unitario, saldate insieme, quelle leziose performance fanno subito tutto un altro effetto. Non sono così ispirate, così ricche. Non hanno quell’originalità sussiegosa che pretendono o pensano di avere. Non sono tanto speciali o intelligenti. Metti insieme le tessere del puzzle e hai la tipica sorpresa che non ti sorprende: i pezzi si incastrano alla perfezione, il quadro si definisce, tutto torna. Affiora la solita “trama nel tappeto”; cogli le affinità sottili, i richiami interni e si impone sempre un tratto comune: un tono diffuso di ipocrisia, di arroganza mentale, di sufficienza fatua, presuntuosa. Un gergo tedioso, soffocante. Provare a lasciarli parlare con la loro voce – allora - non dimenticare. Non fargliela passare liscia. Senza rabbia, senza cattiveria: non dimenticare, semplicemente. Per una questione di “ecologia mentale ”; per autodifesa.  Non fargliela passare liscia. 

(...)
Una risata vi seppellirà

   Come si fa a discutere con certa gente? Come si può? Quest’asfissiante cultura, quest’atmosfera intrisa di malafede e di stupidità. Rischi sempre di restare paralizzato dalla Medusa dell’idiozia, dalla fata Morgana dell’imbecillità. L’ironia e il sarcasmo restano le armi ( per quanto spuntate) di una possibile forma di resistenza, un modo per dire “no”, per disertare. La beffa finale forse sta tutta in questo bizzarro paradosso: l’ossessione della guerra non si è cristallizzata nel lutto senza parole della disperazione, nel mutismo obbligato di un’estraneità precaria e sofferta ma ha trovato la sua “uscita di sicurezza” nel lugubre sarcasmo e nell’ironia nera di una risata liberatoria. 
   Tutto sommato, mi sembra anche giusto. Il lutto, il senso di perdita, l’angoscia: non interessano a nessuno, restano sempre cose private, riservate. Per criticare questa “guerra di carta” era necessario trovare un tono diverso. Torniamo sempre al solito punto, giriamo in tondo. “Imagination dead imagine”: inventarsi qualcosa: contro l’evidenza, contro la storia, contro tutto. Magari rimasticando tra sé e sé con un ostinato briciolo di speranza un vecchio slogan; una bella frase carica di fiducia ferita e di amara allegria. Una risata vi seppellirà. 


o